Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c2
Tutto molto consueto fino a che
Alberto trova il tanto agognato lavoro e quindi deve iniziare ad alzarsi presto al
mattino.
¶{p. 69}
Le particelle di «specialità» che
navigano nella storia di Alberto e Anna fin dall’inizio – l’accompagnamento alla
convivenza centrato sull’autonomia domestica, lo stato eccezionale di messa alla prova
delle scelte in cui questa convivenza si radica, la presenza forte dei genitori, anche
in termini di sostegno economico necessario – a questo punto della storia si addensano
attorno a questo evento puntuale, facendolo detonare.
Quando vengono a sapere che il
figlio sta andando a letto più tardi del consueto, infatti, i genitori di Alberto, che a
quel punto ha quasi 30 anni, si preoccupano molto. Temono che il figlio, dormendo poco,
possa essere meno concentrato al lavoro. Su questa preoccupazione pesa il fatto che
Alberto, in quanto persona con disabilità intellettiva, è stato tanto discriminato nel
mondo del lavoro che ci sono voluti dieci anni a trovare un’opportunità che non fosse un
tirocinio socializzante ma che avesse un possibile sbocco in assunzione. I genitori di
Alberto pensano che, se questa volta «andrà male» e il tirocinio non verrà trasformato
in contratto sarà difficile trovare un’altra opportunità. Hanno dovuto combattere per
tutta la vita del figlio perché gli fosse consentito di provare a lavorare, discutere
tante volte con professionisti e istituzioni che affermavano che lui non avesse
«capacità lavorative residue» e ora vogliono che lui possa dare la
performance migliore, quella che gli consentirà di avvicinarsi
all’asticella della normalità tanto da poter entrare in quella dimensione della
cittadinanza che è il lavoro
[11]
.
Attorno a due giovani di 24 e 28
anni che usano Instagram e TikTok a casa loro alla sera si crea una tensione abnorme, un
allarme fuori misura in seguito al quale tutti si muovono freneticamente per trovare
«soluzioni». In prima battuta, la famiglia di Alberto propone che il figlio torni a casa
a dormire dove possono controllare meglio il suo accesso a internet: il padre di Alberto
propone di staccare il modem la sera in modo che non ci sia connessione sufficiente per
guardare i video così a lungo come faceva con l’altra figlia quando era adolescente. Ma
a fronte di questa proposta la famiglia di Anna si sente in difetto perché è Anna
¶{p. 70}che ha iniziato a usare questi strumenti, di cui Alberto non
conosceva nemmeno l’esistenza. I genitori di Anna, quindi, propongono che sia lei a
tornare a casa a dormire, in modo da togliere la tentazione dei social dalla portata di
Alberto. Dopo qualche settimana di tira e molla, siccome né Anna né Alberto vogliono
tornare dai rispettivi genitori, per evitare questa separazione viene stabilito che
verranno controllati maggiormente gli orari: viene mandata l’operatrice al mattino a
«regolarizzare i ritmi» di Anna, nel tentativo di farle avere più sonno alla sera e
farle smettere spontaneamente le attività social.
L’addensarsi degli elementi speciali
di cui è disseminata questa convivenza opera nella storia come un liquido di contrasto
per rendere visibile il substrato istituzionalizzante che resiste sotto la superficie: a
fronte di due storie di vita complesse, molto diverse tra loro, la dimensione biografica
(la solitudine come filo rosso della vita di Anna, la ricerca del lavoro come elemento
cruciale per la vita di Alberto) viene compressa e la domanda si riduce rapidamente alla
medesima questione che sta alla base di ogni istituzionalizzazione: «dove lo metto?».
Chi si sposta di luogo? Si sposta Alberto perché è lui ad avere
l’esigenza di alzarsi presto? O si sposta Anna perché è lei che vuole stare sui social?
Indubbio è il fatto che, non appena la convivenza incontra un piccolo intoppo, qualcuno
si debba spostare
[12]
[Marchisio 2018].
Un nucleo irriducibile di rischio di
istituzionalizzazione viene rivelato dall’approccio riduzionista alla complessità delle
esistenze dei due protagonisti. L’azione «tornare a casa dai genitori» da parte di uno
dei componenti della coppia, tutt’altro che neutra nei confronti della relazione, nella
vita di Anna e Alberto viene inserita con una certa leggerezza, come se fosse un’opzione
che è sempre stata disponibile sottotraccia. Questo rivela che, nonostante la forma
egualitaria del loro abitare – «da soli» – rispetto a quella di un’altra coppia, la
dimensione autentica della loro libertà è sempre persistentemente a rischio, mai
garantita.
L’infrastruttura del loro abitare
insieme è l’abitare stesso non la relazione di coppia, abitare che si configura come una
delle possibili combinazioni luogo-livello di controllo che le persone che concedono
loro la libertà hanno a disposizione. Il «tornare a casa» corrisponde a questo: cambiare
il luogo-modificare il livello di controllo, così come a una diversa combinazione
luogo-livello di controllo corrispondeva la proposta del gruppo
appartamento.¶{p. 71}
Anna si rassegna a questa nuova
situazione, accoglie l’educatrice benevolmente e si alza presto. Si veste mentre
l’educatrice aspetta e poi esce a fare la spesa, riordina la casa, stira e si mette a
preparare il pranzo per Alberto. Anna non lavora e quindi deve occuparsi di tutte le
faccende domestiche: sua madre e sua suocera sostengono che lei, in quanto ragazza,
debba dedicarsi alla famiglia e, se fa bene quello, non è poi così necessario che lavori
[13]
[Bernardini e Casalini 2022]. Sono i modelli delle loro famiglie, le vite
che loro hanno vissuto. Alla madre di Anna, in realtà, non dispiacerebbe se la figlia
lavorasse: sostenerla economicamente pesa sulla loro famiglia e a volte questo riaccende
vecchie tensioni tra loro; «te lo dicevo che dovevi prima trovarti un lavoro», le dice
la mamma quando Anna si lamenta della poca libertà che ha nel vivere con Alberto.
Anna desidererebbe lavorare: ha
svolto sette tirocini, per un totale di quarantuno mesi, in sei luoghi di lavoro
diversi. Ma, ad oggi, Anna non lavora: le donne sono discriminate sul mercato del
lavoro; le persone con disabilità intellettiva sono discriminate sul mercato del lavoro
[Lindsay et al. 2023]. Anna non ha un reddito e la sua famiglia può
aiutarla economicamente con difficoltà: sa benissimo che attualmente vive fuori dalla
casa familiare perché la maggior parte delle spese sono pagate da Alberto. Anche se non
ne condividono le visioni, sia lei che la sua famiglia faticano a uscire da questa
rappresentazione della famiglia in cui lei si occupa della casa e lui lavora. Anna si
trova all’incrocio di diverse direttrici di discriminazione – il genere, la disabilità,
il ceto sociale – che intrecciano una particolarissima modalità in cui la limitazione
delle sue opportunità si declina. Intrecciano, non giustappongono né sommano, anzi
sarebbe più accurato dire: si sono intrecciate, si stanno intrecciando fin dagli anni in
cui Anna stava sola, cercava opportunità sociali nello spazio ristretto raggiungibile a
piedi, nei canali di incontro poco articolati disegnati dalla sua storia familiare, a
margine del fluire delle esperienze «per disabili» che costituivano l’offerta dei
servizi della sua comunità [Piccione 2021]
[14]
.
Anna a volte pensa di lasciare
Alberto ma non vuole assolutamente tornare a casa dai genitori. Del resto, già ora che
abitano in due tutti dicono che abitano «da soli», e questo contribuisce a rendere
difficile per Anna immaginarsi di abitare da sola davvero. Da che
lei ricordi, la sua unica opportunità reale per andarsene dalla casa dei suoi è stata la
convivenza con Alberto. Il loro abitare indipendente è nato come combinato e ora ha
¶{p. 72}quella forma in modo stabile. Ha preso quella forma nella testa
di tutti: dei genitori, dei Servizi. Il loro è, fin dall’inizio, un abitare
condiviso, e questo carica l’andarsene di Anna di un costo enorme, che la
ragazza non riesce a sostenere. Se Anna chiedesse ad Alberto di dividere le faccende
domestiche alla pari, di essere libera di stare alzata fino a tardi, di dedicarsi ad
attività extradomestiche invece di occuparsi della casa, come avrebbe le parole per
dire, metterebbe a rischio non solo la sua storia d’amore ma anche la sua stessa
libertà. L’unica opzione, se rinuncia alla convivenza con Alberto, ritorna ad essere il
gruppo appartamento. Anna si ritrova, ancora una volta, senza opzioni di normalità.
Quando si convive e ci si lascia,
qualcuno si appoggia da un amico, ma Anna non ha tanti amici che abitano da soli. Alcuni
tra i suoi nuovi amici sono altre persone con disabilità e anche quelli che abitano
fuori dalla casa dei genitori non possono ospitarla: nelle loro forme di abitare ci sono
delle regole. Altri amici sono persone senza disabilità che, però, non «se la sentono»
di ospitarla. Le vogliono bene, ma le dicono che non possono prendersi la
responsabilità.
Rientrare dai genitori o abitare per
un po’ in sistemazioni provvisorie per un periodo dopo una separazione non è
infrequente, ma una persona con disabilità che abita da sola e rientra nella casa
familiare, o inizia a girare per case di amici, ha implicazioni molto più ampie rispetto
a quando lo fa una donna che non è una persona con disabilità. Tale ritorno verrebbe
registrato come il fallimento del progetto di vita indipendente
gettando una luce negativa sulle scelte di Anna – e rischiando di ratificare la non
adeguatezza già prognosticata dai Servizi alla fine del percorso di autonomia. Chi
osserva la vita adulta di Anna ha lo sguardo tutto centrato su dove abita e questo tende
a invisibilizzare le componenti biografiche e di emancipazione di una scelta come questa
[15]
.
Dire «voglio dividere i lavori di
casa alla pari» significherebbe per Anna perdere i sostegni che le consentono di vivere
come una donna adulta e al maggior grado di libertà possibile. Si tratta di costi
sociali, relazionali (oltre che economici) che diminuiscono a tal punto il potere
negoziale di Anna nei confronti di Alberto fino a silenziare la sua possibilità anche
solo di mettere a tema l’argomento. Alzarsi all’ora giusta, che è
stata stabilita per lei, vestirsi, occuparsi della casa sono per Anna scelte di
conformità che al momento costituiscono, paradossalmente, l’unica via per la libertà. Le
alternative si configurano tutte come la discesa di un gradino in quella scala di
combinazioni luogo-controllo, come la riduzione dei gradienti di
¶{p. 73}libertà: rivolgersi al Servizio, dichiarare il fallimento della
vita indipendente, accettare una nuova valutazione delle sue competenze di autonomia e
la scelta conseguente della «soluzione abitativa» più adatta appare l’unica strada per
uscire da quella convivenza che le sta stretta.
3. Un fragile confine
I dieci anni di ingresso nella vita
adulta – dalla fine delle superiori ad oggi che ha 28 anni – sono disseminati nella
storia di Anna di punti in cui la traiettoria esistenziale viene spinta verso
l’istituzionalizzazione e di punti in cui, talvolta in modi fortuiti o rocamboleschi, la
storia resiste. A partire dalla fine della scuola, la progressiva erosione delle
relazioni, delle opportunità, dei mezzi a disposizione ha l’effetto di restringere
progressivamente lo spazio sociale dove per Anna è possibile vivere
deistituzionalizzata, fino ad arrivare, dieci anni dopo, alle tre stanze della casa che
condivide con Alberto.
In tanti punti la storia di Anna
incontra l’impossibilità di accesso come elemento che riduce drasticamente questi spazi:
l’accesso a uno spazio sociale non confinato al paese (impedito dai trasporti
scarsissimi), l’accesso a un gruppo di pari con cui confrontare le prime esperienze
affettive e sessuali (impedito dal reindirizzamento a percorsi speciali), l’accesso a un
servizio aspecifico – come il consultorio –, l’accesso a un lavoro foriero di reddito
(impedito dalla commistione tra dimensione terapeutica e dimensione emancipatoria del
lavoro), l’accesso a un sostegno alla libertà non strutturato in termini di messa alla
prova, l’accesso a percorsi di consapevolezza, di costruzione di sé come adulta e donna
libera. Anna resiste perché trova appigli: è come se si salvasse sempre in
corner, come se riuscisse ad agganciare uno scampolo di
esperienza autentica di libertà nonostante i binari su cui viene sistematicamente
indirizzata (il gruppo di tempo libero per disabili, il percorso specifico e speciale
per la sessualità, la vacanza per disabili, il gruppo appartamento).
Questa resistenza, però non è senza
costi: costa ad Anna un’ulteriore erosione del già esiguo patrimonio di opportunità e
relazioni. Se vuoi sperimentare una relazione sessuale devi farlo senza sostegno e
informazioni. Se vuoi vivere un luogo di lavoro devi farlo senza pensare alla dimensione
retributiva. Se vuoi abitare per conto tuo devi rinunciare a far tardi sui social la
sera.
L’istituzionalizzazione non sparisce
mai dall’orizzonte esistenziale di Anna, come di nessuna persona con disabilità: resta
sempre un epilogo ammissibile e spesso immediatamente disponibile. Resta come risposta
al superamento di un limite implicito che la persona sa di avere alla propria libertà.
Resta come risposta all’errore – la pentola lasciata sul fuoco, la
¶{p. 74}porta dimenticata aperta – ma anche, come ci mostra la storia di
Anna, come indirizzo rispetto alla scelta di una – anche sottilissima – non conformità.
Ciò che avviene nella vita di Anna non è disabilità-specifico, ma la storia mostra come
elementi trasversali alla vita di tutti, eventi e fenomeni che tutti i cittadini possono
incontrare o attraversare – dalla solitudine alla disoccupazione, dalla fine di una
relazione al conflitto nella coppia – finiscono per impattare in modo abnorme sulla
possibilità di finire istituzionalizzati laddove si tratta di una persona con
disabilità. Ed è proprio questo il modo in cui agisce la discriminazione basata sulla
disabilità: ingigantendo l’impatto delle consuete componenti dell’esistenza. In questo
modo la resistenza, le energie, i beni materiali e immateriali che è necessario
investire per contrastarla diventano condizioni eccezionali, non disponibili a tutti.
Note
[11] «Se le persone con disabilità sono escluse dallo spazio sociale – persino dalla cittadinanza, abbiamo visto – con la motivazione che “non possono lavorare come gli altri”, allora la prima risposta, la più istintiva, da parte di chi vuole contrastare questa esclusione è che invece sì: certo che possono [...]. In una prospettiva di abilismo a compensazione si colloca a oggi pienamente il percorso delle persone, tra quelle con disabilità, per le quali viene valutato che “possono lavorare”. Per capirlo è sufficiente provare a rispondere a una semplice domanda: perché possono lavorare? Perché sono considerati abbastanza vicini alla norma affinché il contesto non debba modificarsi in modo sostanziale per consentirne l’inclusione. Qui si torna al bivio che si disegnava all’inizio del capitolo: da una parte ritroviamo le persone per le quali il lavoro assume significati che contengono le radici concettuali di terapia occupazionale ed ergoterapia, dall’altra quelle che possono aspirare ad accedere al significato che il lavoro ha per le persone senza disabilità, ma a patto di entrare nella dimensione della normalizzazione» [Marchisio e Curto 2019, 40-42].
[12] Come sottolinea Marchisio [2018], la deistituzionalizzazione delle persone con disabilità non è un luogo ma un sistema di relazioni. Lo schiacciamento dell’analisi dei meccanismi di istituzionalizzazione sulle unità di offerta dei servizi – individuate di volta in volta come più o meno istituzionalizzanti – ha portato paradossalmente negli anni a un rafforzamento della concezione e del trattamento della persona come oggetto da collocare, che sta alla base dell’istituzionalizzazione stessa.
[13] L’intreccio tra le critiche classiche alle direttrici di discriminazione di genere e le esperienze delle donne con disabilità, sebbene si stia facendo sempre più strada, non è ancora un elemento diffuso nei modi di concepire l’esclusione. Per un quadro generale di tali intrecci si può vedere Bernardini e Casalini [2022].
[14] Il framework in cui la storia di Anna mostra pienamente la sua paradigmaticità è quello che vede l’intrinseca connessione tra l’accesso ai diritti sociali e la libertà della persona con disabilità [Piccione 2021].
[15] Questo momento della storia fornisce un esempio di come l’emancipazione delle donne con disabilità tenda a entrare con fatica nel novero dei processi di emancipazione femminile. Per un’analisi del rapporto tra emancipazione femminile e disabilità si veda, ad esempio, Taddei [2020].