Note
  1. Le barriere incontrate dagli adolescenti con disabilità nel rapporto con i pari sono ampiamente trattate in letteratura psicopedagogica. Per un quadro del fenomeno, cfr. Corbo et al. [2021] e Bills [2020].
  2. In uno dei suoi ultimi testi organici Andrea Canevaro [2013] sottolinea come, al termine della scuola, il restringimento del campo di socialità possibile per i ragazzi con disabilità costituisca un elemento che attraversa con frequenza le biografie.
  3. La letteratura mostra che le donne con disabilità esperiscono, fin dall’età evolutiva, una maggiore esclusione dai processi psicosociali di costruzione dell’autostima e della consapevolezza di sé. Tale esclusione tende a essere correlata con alcuni elementi della vita adulta, tra cui una maggiore tendenza ad accettare relazioni intime povere e insoddisfacenti. Il fenomeno è ampiamente studiato; per uno sguardo recente, cfr. Alhusen et al. [2020] e Van der Heijden et al. [2019].
  4. La critica che denuncia il framework abilista in cui collocano i percorsi educativi basati sull’acquisizione di autonomie, sebbene ancora non capillare, si sta diffondendo in modo sempre più ampio sia nel mondo della ricerca che nelle pratiche. Marchisio [2019] analizza il fenomeno dal punto di vista psicopedagogico mentre Goodley e Lawthom [2019] introducono, attraverso il concetto di «abilismo neoliberale», le connessioni di tale framework con le funzioni di mantenimento dell’ordine sociale.
  5. Nell’educazione delle bambine con disabilità «gli stereotipi di genere rischiano di condizionare i processi di emancipazione e di autodeterminazione delle persone con disabilità fin dalla nascita» [Taddei 2022, 28], la madre di Anna sembra intuire il rischio che i medesimi meccanismi di discriminazione, che anche lei ha subito, rischino di avere un esisto ancora più drammatico per la figlia in termini di limitazione della libertà.
  6. Già ne La povertà della psichiatria Benedetto Saraceno sottolinea con chiarezza le conseguenze di quello che definisce «il mito dell’autonomia»: «Uno dei miti, ma più spesso mistificazioni, della cultura riabilitativa psichiatrica ma anche, più in generale, della cultura assistenziale rivolta ai “deboli” e agli “esclusi” è il riferimento all’“autonomia” come obiettivo primario. Il mito dell’autonomia è il maggior responsabile dell’iperselezione dei pazienti e, più in generale, dei soggetti deboli nei programmi di inclusione sociale e dunque responsabile del complementare abbandono dei “non selezionati”. La questione di fondo ha a che vedere con il modello sociale che si persegue (il modello di “mercato” che si persegue): quello dell’autonomia è quello darwiniano ove è perseguita la capacità del singolo a partecipare vittoriosamente (autonomia) alla battaglia della sopravvivenza; l’inclusione sociale sarebbe il miglioramento delle dotazioni danneggiate affinché il soggetto possa essere alla pari con gli altri» [2017, 163-164].
  7. Per una descrizione iniziale di radici epistemologiche, articolazioni operative e conseguenze in termini di processi di istituzionalizzazione dell’approccio socio-terapeutico al lavoro declinata nell’ambito della disabilità si veda Marchisio e Curto [2019].
  8. Le persone con disabilità intellettiva incontrano maggiori barriere nel trovare e mantenere un lavoro. A fronte dell’ampia esclusione restano, tuttavia, limitate, le analisi che inquadrano tale fenomeno di esclusione dal punto di vista delle barriere senza limitarsi ad attribuirlo alle caratteristiche intrinseche della persona. Tra le più recenti Meltzer et al. [2020].
  9. La storia consente di rivelare uno dei meccanismi in cui l’eterosessualità come «categoria identitaria egemone» [Rinaldi et al. 2022] agisce sulle vite delle persone. In questo caso è esemplare come, in modo completamente inespresso, l’eteronormatività sconfina oltre gli ambiti affettivo-sessuali investendo la concezione stessa di relazione, di coppia, di famiglia: la corrispondenza della storia con Alberto a un modello eteronormativo – meglio accettato a livello sociale e meglio rispondente alle aspettative implicite della sua rete – spinge Anna a riservare un minore ascolto ai suoi dubbi e alle fatiche nella relazione che fin dal primo momento esperisce.
  10. Il «modello a gradini» (staircase approach) nei percorsi socio-educativi è ormai univocamente criticato nel campo del supporto alle persone senza dimora, per una sintesi recente si veda ad esempio Clarke et al. [2020]. Nell’ambito della disabilità il raffronto tra modelli staircase e modelli emancipatori è ancora poco diffuso ma inizia a essere articolato, come in McDonough e Taylor [2021].
  11. «Se le persone con disabilità sono escluse dallo spazio sociale – persino dalla cittadinanza, abbiamo visto – con la motivazione che “non possono lavorare come gli altri”, allora la prima risposta, la più istintiva, da parte di chi vuole contrastare questa esclusione è che invece sì: certo che possono [...]. In una prospettiva di abilismo a compensazione si colloca a oggi pienamente il percorso delle persone, tra quelle con disabilità, per le quali viene valutato che “possono lavorare”. Per capirlo è sufficiente provare a rispondere a una semplice domanda: perché possono lavorare? Perché sono considerati abbastanza vicini alla norma affinché il contesto non debba modificarsi in modo sostanziale per consentirne l’inclusione. Qui si torna al bivio che si disegnava all’inizio del capitolo: da una parte ritroviamo le persone per le quali il lavoro assume significati che contengono le radici concettuali di terapia occupazionale ed ergoterapia, dall’altra quelle che possono aspirare ad accedere al significato che il lavoro ha per le persone senza disabilità, ma a patto di entrare nella dimensione della normalizzazione» [Marchisio e Curto 2019, 40-42].
  12. Come sottolinea Marchisio [2018], la deistituzionalizzazione delle persone con disabilità non è un luogo ma un sistema di relazioni. Lo schiacciamento dell’analisi dei meccanismi di istituzionalizzazione sulle unità di offerta dei servizi – individuate di volta in volta come più o meno istituzionalizzanti – ha portato paradossalmente negli anni a un rafforzamento della concezione e del trattamento della persona come oggetto da collocare, che sta alla base dell’istituzionalizzazione stessa.
  13. L’intreccio tra le critiche classiche alle direttrici di discriminazione di genere e le esperienze delle donne con disabilità, sebbene si stia facendo sempre più strada, non è ancora un elemento diffuso nei modi di concepire l’esclusione. Per un quadro generale di tali intrecci si può vedere Bernardini e Casalini [2022].
  14. Il framework in cui la storia di Anna mostra pienamente la sua paradigmaticità è quello che vede l’intrinseca connessione tra l’accesso ai diritti sociali e la libertà della persona con disabilità [Piccione 2021].
  15. Questo momento della storia fornisce un esempio di come l’emancipazione delle donne con disabilità tenda a entrare con fatica nel novero dei processi di emancipazione femminile. Per un’analisi del rapporto tra emancipazione femminile e disabilità si veda, ad esempio, Taddei [2020].