Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c26
In primo luogo, infatti, è
tutt’altro che agevole, in tale contesto, la verifica del nesso di causalità tra
(l’azione o) l’omissione dell’esercente la professione sanitaria e l’evento aggressivo
verificatosi. Il paradigma condizionalistico entra infatti in crisi in quanto tra
l’omissione e l’evento si inserisce una scelta (libera o viziata dalla malattia) del
soggetto affetto
¶{p. 603}da disturbo psichico
[39]
. Per tale ragione, in giurisprudenza si assiste spesso a una
flessibilizzazione di tale criterio a vantaggio di quello, più lasco, dell’aumento del
rischio: richiamando il principio espresso dalla sentenza Franzese, la Corte di
Cassazione frequentemente sostiene che l’insussistenza di fattori causali alternativi
dimostra che l’omissione del medico ha determinato l’evento lesivo
[40]
. In realtà, però, la terapia (farmacologica) che lo psichiatra può
somministrare raramente elimina, con probabilità prossima alla certezza, il rischio di
condotte aggressive ed egli viene perciò condannato per non aver diminuito siffatto
rischio, sebbene in realtà non possa essere propriamente dimostrato che, se egli avesse
adottato il trattamento doveroso, la malattia non avrebbe prodotto lo stesso esito
[41]
. La mancanza di fattori causali alternativi non implica necessariamente che
la terapia che l’operatore avrebbe dovuto somministrare avrebbe impedito l’evento lesivo
con probabilità prossima alla certezza.
Alle perplessità relative
all’accertamento del fatto tipico – in punto di sussistenza della posizione di garanzia
e del nesso di causalità – seguono anche le difficoltà relative alla verifica della
colpa dell’esercente la professione sanitaria. Non sempre, infatti, la condotta
autolesiva o eterolesiva è prevedibile. O meglio, il rischio che una condotta di questo
genere si verifichi può dirsi, «con un velo di provocatorietà, [...] sempre prevedibile,
in termini generali e astratti» [Cupelli 2013, 189]. Ma ciò non significa che, nel caso
concreto, lo psichiatra possa effettivamente riscontrare una possibilità apprezzabile
che essa si realizzi. Un conto è, infatti, la prevedibilità generale e astratta di un
comportamento aggressivo in presenza di una psicopatologia, altro conto è la
prevedibilità in concreto di quel comportamento aggressivo da parte di quel paziente
affetto da quella specifica malattia mentale
[42]
. Ai fini della colpa, a rilevare è esclusivamente quest’ultima, ossia la
prevedibilità in concreto – la quale, insieme all’evitabilità, fonda la regola cautelare
cui si deve attenere l’operatore –, e non pare affatto ovvio poterla riscontrare nel
caso concreto
[43]
.
In secondo luogo, e soprattutto,
l’evento autolesivo o eterolesivo deve essere evitabile: in altri termini, è necessario
verificare che l’adozione della condotta doverosa da parte dello psichiatra avrebbe
impedito l’evento. ¶{p. 604}Anche tale accertamento è tutt’altro che
scontato: può ben accadere infatti, come dimostra una recente sentenza della Corte di Cassazione
[44]
, che anche laddove l’operatore sanitario si attenga al parametro oggettivo
di diligenza la terapia da lui somministrata non sia idonea a prevenire la condotta
aggressiva. A tal riguardo, si deve rammentare che lo psichiatra non dispone di mezzi
coercitivi per il trattamento della persona affetta da malattia mentale (ad eccezione
del TSO): è alla luce degli strumenti terapeutici di cui dispone che va valutata
l’evitabilità dell’evento. Pertanto, si può ipotizzare che in alcuni casi anche la
terapia conforme alle leges artis non sia idonea a prevenire lo
specifico evento lesivo verificatosi.
E ciò, peraltro, senza dimenticare
che laddove l’esercente la professione sanitaria si sia attenuto a linee guida (o buone
pratiche clinico-assistenziali) adeguate alle specificità del caso concreto, egli andrà
esente da responsabilità penale anche laddove le abbia violate in sede esecutiva per
imperizia lieve (e non grave), così determinando l’esito infausto
(ex art. 590-sexies, comma 2, c.p.).
In definitiva, se i parametri di
imputazione fossero applicati con rigore, l’ascrizione di una responsabilità penale
omissiva all’operatore sanitario per atti autolesivi o eterolesivi della persona con
disabilità (anche) mentale dovrebbe essere estremamente improbabile.
In primo luogo, perché la posizione
di garanzia che esso ricopre riguarda esclusivamente la cura della salute del paziente e
non può spingersi, se non nei casi in cui sia possibile ricorrere al TSO, a coartare la
sua libertà.
In secondo luogo, perché
l’accertamento rigoroso della causalità e della colpa risulta, in materia psichiatrica,
estremamente difficoltoso.
L’orientamento della giurisprudenza
di legittimità che, ridimensionando la rivoluzione copernicana operata dalla riforma
«Basaglia» e flessibilizzando gli istituti che fondano il giudizio di responsabilità
penale, giunge spesso a condannare lo psichiatra (o i suoi collaboratori) pare perciò
criticabile e rischia di riproporre, in modo più o meno surrettizio, la convinzione che
la persona affetta da grave malattia mentale sia una fonte di pericolo da controllare e
reprimere allo scopo di difendere la collettività. Inutile dire che una visione siffatta
è radicalmente in contrasto con l’impianto personalista del testo costituzionale e va,
dunque, respinta senza esitazioni.
6. Conclusioni. Dignità, libertà e salute della persona con disabilità mentale: per un ripensamento del rapporto di cura
In definitiva, gli spazi di
responsabilità penale degli operatori sanitari che si occupano di persone con disabilità
(anche) mentale dovrebbero ¶{p. 605}essere estremamente ridotti. Essi
dovrebbero rispondere, infatti, solo degli eventi lesivi (della salute dei pazienti) che
sono diretta conseguenza delle loro azioni o che loro erano chiamati a (e potevano
effettivamente) impedire: tra questi non rientrano le condotte eterolesive o autolesive
del soggetto, con l’eccezione – per queste ultime – dei casi in cui doveva essere
disposto un TSO. In tutti gli altri casi, il rispetto della dignità e della libertà di
autodeterminazione della persona affetta da disturbo psichico implica che l’esercente la
professione sanitaria non possa atteggiarsi a suo guardiano o custode: né nell’interesse
della collettività né in quello del paziente medesimo, il quale ha diritto – nei limiti
della sua capacità di intendere e di volere – di scegliere a quali terapie sottoporsi,
assumendosene le relative responsabilità. Una conclusione di tal genere – si badi – non
determina l’abbandono dell’individuo con disabilità (anche) mentale a se stesso: al
contrario, le sue decisioni devono essere concordate con il sanitario nell’ambito della
loro alleanza terapeutica, la quale si estrinseca in un dialogo costante in cui il
medico accompagna il paziente nelle sue scelte (senza imporgli paternalisticamente le
proprie ma senza neanche recepire acriticamente le sue preferenze).
In tal modo, l’operatore sanitario
valorizza la dignità e la libertà del paziente affetto da disturbo psichico: ciò non
solo comporta il pieno riconoscimento e sviluppo della sua personalità (art. 2 Cost.)
ma, frequentemente, anche dei veri e propri benefici in termini di cura del suo
benessere fisico e mentale, la quale – è bene ribadirlo – costituisce l’unica funzione
che l’operatore sanitario è chiamato ad assolvere. Del resto, come ha affermato il
Comitato Nazionale per la Bioetica nel suo parere in materia di contenzione, «il diritto
all’autonomia [è] il volano di un intervento terapeutico valido ed efficace».
A ben vedere, che l’esercente la
professione sanitaria debba rispettare la dignità e la libertà della persona con
disabilità (anche) mentale è evidente anche in sede penale, ove l’applicazione di
dispositivi che terapeutici non sono (come la contenzione) può rilevare ai fini
dell’integrazione di reati quali il sequestro di persona, la violenza privata o i
maltrattamenti. L’operatore deve quindi astenersi da condotte che indebitamente (ossia
al di fuori dei limitati casi in cui sia possibile applicare un TSO) restringono la
libertà del malato o comunque ne umiliano la dignità.
In conclusione, dunque, anche la
disciplina penale pare restituire un quadro in cui il sanitario che si occupa della
persona con disabilità (anche) mentale deve proteggerne la salute e al contempo
rispettarne la dignità e la libertà, senza che alcuno di questi attributi possa essere
leso per difendere la collettività: non è questo, infatti, il ruolo del terapeuta e
qualsiasi argomentazione che depone in senso contrario deve essere senza esitazione
respinta. Anzi, la stessa funzione di protezione dell’integrità psico-fisica del
paziente è, a ben vedere, recessiva rispetto all’obbligo di
¶{p. 606}rispettarne l’autodeterminazione terapeutica: in effetti, il
principio del consenso informato impone, anche in ambito psichiatrico, di riconoscere la
libertà del paziente, senza che essa possa essere ristretta (se non nei casi,
eccezionali, in cui debba essere disposto un TSO) neanche per tutelare la salute del
paziente medesimo, poiché altrimenti l’operatore sanitario rischierebbe di rispondere
penalmente di tale indebita limitazione.
Se questa pare la lettura della
normativa penale più coerente con le acquisizioni della scienza medica e con l’impianto
(culturale e giuridico) della legislazione in materia di salute mentale, va però
riconosciuto che in senso diverso si orienta la giurisprudenza di legittimità, la quale
tende a dilatare in modo abnorme gli spazi di responsabilità penale dell’operatore
sanitario, il quale viene considerato, a un tempo, tutore della salute del paziente,
garante della sua condotta di vita e difensore della collettività. Si è già detto quanto
quest’orientamento sia in contrasto con lo spirito personalista che informa la
Costituzione. Basti qui aggiungere che una panpenalizzazione siffatta dell’attività
psichiatrica rischia di produrre anche effetti collaterali più concreti, generando
fenomeni di medicina difensiva che, attraverso lo svilimento della dignità della persona
con disabilità (anche) psichica, pregiudicano il suo stesso percorso di cura. Va dunque
auspicato che la giurisprudenza di legittimità abbandoni il suo atteggiamento regressivo
in materia di salute mentale, riconoscendo che il malato non è una fonte di pericolo e
che la psichiatria non è una disciplina che deve contenerlo mediante la compressione
della sua libertà. Essa è, al pari delle altre, un’arte medica che si realizza solo nel
rispetto della personalità e dell’autodeterminazione del paziente, la quale – in una
visione autenticamente terapeutica di tale materia – costituisce il bene supremo che
l’operatore sanitario è chiamato a tutelare.
In conclusione, dunque, il
rapporto tra salute, libertà e dignità della persona con disabilità (anche) mentale va
ripensato. L’integrità psico-fisica è recessiva rispetto alla libertà e dignità del
paziente. O meglio: la salute, intesa come benessere fisico e psichico
complessivo del paziente, non può essere adeguatamente tutelata
se, prima, non vengono riconosciute la sua libertà e la sua
dignità. Una volta che tale considerazione, valida per tutti i settori della medicina,
verrà recepita dalla giurisprudenza anche con riguardo alla cura della malattia mentale,
le conclusioni cui si è poc’anzi pervenuti sembreranno non solo condivisibili, ma
addirittura ovvie.
Note
[39] Cfr. Cingari [2009].
[40] Per tutte, Cass. pen., sez. IV, 6 novembre 2003, n. 10430. Sulla causalità omissiva in ambito medico, anche per i necessari riferimenti, si v. Viganò [2009].
[41] Si rinvia ancora a Cingari [2009].
[42] Si v. anche Maspero [2005].
[43] Assolve per imprevedibilità dell’evento Cass. pen., sez. IV, 7 febbraio 2007, n. 42670. Più numerose sono, però, le pronunce che affermano la prevedibilità dell’episodio autolesivo o eterolesivo: Cass. pen., sez. IV, 6 novembre 2003, n. 10430; Cass. pen., sez. IV, 14 novembre 2007, n. 10795; Cass. pen., sez. IV, 27 novembre 2008, n. 48292. Non v’è dubbio che elevato sia, in tale materia, il rischio di incorrere nel c.d. hindsight bias.
[44] Cass. pen., sez. IV, 25 maggio 2022, n. 24138. È evidente che i profili della causalità della condotta e della causalità della colpa tendono in tale materia, spesso, a sovrapporsi.