Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c26
La posizione dello psichiatra rispetto agli atti autolesivi del paziente potrebbe, invece, generare qualche dubbio. In effetti, si potrebbe ritenere
{p. 598}che il suo dovere di cura si estenda sino al punto di prevenire che la malattia mentale possa determinare un esito suicidiario o comunque lesivo per il paziente: in tal caso, infatti, l’evento dannoso per la sua salute sarebbe conseguenza diretta della patologia che lo affligge e che lo psichiatra ha il dovere di curare. Alcune considerazioni, tuttavia, possono indurre a confutare questa conclusione.
Innanzitutto, la posizione di garanzia dello psichiatra (come quella di qualsiasi operatore sanitario) si fonda sul consenso informato del paziente. Laddove quest’ultimo esprima il proprio dissenso alle cure, non vi è alcun obbligo giuridico gravante sul terapeuta, a meno che non si rientri nelle condizioni previste dall’articolo 34 della l. n. 833/1978 per disporre un TSO. Del resto, è noto che il diritto all’autodeterminazione terapeutica comprende ormai anche la libertà del paziente di lasciarsi morire attuata attraverso il consapevole rifiuto di farsi curare. Tale principio, corroborato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 242 del 2019, non può non valere anche in ambito psichiatrico.
Peraltro, il consenso della persona affetta da malattia mentale incide non solo sull’an, ma anche sul quomodo del trattamento. Nell’ambito dell’alleanza terapeutica che si instaura tra medico e paziente, infatti, è quest’ultimo che, attraverso il dialogo con il terapeuta e nei limiti della sua capacità di intendere e di volere, delimita l’obiettivo e i confini della terapia, influendo sull’appropriatezza clinica dell’intervento e assumendosene i rischi conseguenti. È evidente che non si possono imputare all’operatore sanitario le conseguenze negative della scelta terapeutica consapevole del soggetto affetto da disturbo psichico.
A tal proposito, ovviamente, non si può ignorare la complessità della valutazione della validità del consenso della persona colpita da malattia mentale. Spetta però al medico accertare la sussistenza della capacità decisionale del paziente con riguardo al suo percorso terapeutico, nella consapevolezza che psicopatologia e incapacità decisionale non necessariamente corrispondono [28]
. E laddove vi sia la necessità di urgenti interventi {p. 599}terapeutici rifiutati dall’infermo egli potrà, in assenza della possibilità di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extraospedaliere, disporre un TSO.

4.3. L’illiceità della contenzione e la mancanza di (altri) poteri impeditivi

Del resto, va anche sottolineato che lo psichiatra non dispone di mezzi coercitivi ulteriori rispetto al TSO, che è una extrema ratio, per impedire che il soggetto affetto da una malattia mentale sia libero di agire in modo anche autolesivo. Come ha recentemente chiarito la Corte di Cassazione, infatti, la contenzione non è un atto medico (poiché non ha «né una finalità curativa né produce materialmente l’effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente»): pertanto, lo psichiatra non può impiegarla per adempiere alla sua funzione di garanzia ma può semmai ricorrere ad essa in funzione esclusivamente «cautelare», «in situazioni eccezionali di pericolo all’integrità fisica delle persone» tali da integrare lo stato di necessità [29]
.
La contenzione, quindi, costituisce anche secondo la giurisprudenza di legittimità un atto penalmente illecito [30]
(rilevante ai fini dell’integrazione {p. 600}del reato di sequestro di persona) che può però, in condizioni estreme, essere scriminato (ex art. 54 c.p.) [31]
. Si tratta di una posizione coerente con il parere espresso dal Comitato Nazionale per la Bioetica che, con parole assai significative, ha ribadito
l’orizzonte bioetico del superamento della contenzione, nell’ambito di un nuovo paradigma della cura fondato sul riconoscimento della persona come tale, nella pienezza dei suoi diritti (prima ancora che come malato e malata). Il rispetto dell’autonomia e della dignità della persona è anche il presupposto per un intervento terapeutico efficace. Di contro, l’uso della forza e la contenzione rappresentano in sé una violazione dei diritti fondamentali della persona [32]
.
Anche il TSO, a ben vedere, costituisce una misura che lo psichiatra non può disporre da solo, avendo egli bisogno dell’autorizzazione del sindaco. Pertanto, egli non dispone di mezzi ulteriori, rispetto a quelli propriamente medici e curativi, per adempiere al suo dovere di protezione dell’integrità psico-fisica del paziente. Si può perciò dubitare, anche alla luce del quadro offerto in precedenza, che i suoi poteri siano sempre idonei a impedire l’evento (auto)lesivo, soprattutto in situazioni emergenziali impreviste. Come anticipato, laddove lo psichiatra non sia effettivamente dotato della capacità impeditiva nel caso concreto, nessuna responsabilità penale gli può essere ascritta. Non è un caso che, in una recente sentenza in cui (contrariamente a quanto qui si sostiene) è stata configurata una posizione di garanzia a carico dello psichiatra, quest’ultimo è stato comunque {p. 601}assolto (per mancanza di colpa) in quanto la terapia da lui prescritta, pur non avendo in concreto impedito l’esito suicidiario, era comunque la «più aderente alle condizioni del malato e alle regole dell’arte psichiatrica» [33]
.

4.4. Il dovere di cura dell’operatore sanitario

In definitiva, dunque, il superamento del paradigma custodialista, l’affermazione del principio del consenso anche in materia psichiatrica nonché, infine, l’assenza di poteri (giuridici) impeditivi idonei a far fronte a situazioni emergenziali impreviste induce a ritenere che lo psichiatra non possa essere chiamato a rispondere, in sede penale, degli atti eteroaggressivi del paziente e, nella maggioranza dei casi, dei suoi comportamenti autolesivi. Probabilmente, allo psichiatra potrebbe ascriversi una responsabilità penale omissiva solo in quei casi, comunque eccezionali, in cui la libertà del paziente (poi estrinsecatesi in atti autolesivi) doveva essere ristretta in quanto ricorrevano i presupposti del TSO, i quali – val la pena ribadirlo – concernono esclusivamente la cura del soggetto affetto da malattia mentale (e non la difesa della collettività dalle sue eventuali condotte aggressive) [34]
. In tutti gli altri casi, la libertà di autodeterminazione (anche) terapeutica del paziente deve essere rispettata. Lo psichiatra non può e non deve atteggiarsi a suo guardiano (rectius, carceriere): egli è un medico, e come tale deve essere considerato anche in sede penale. Qualsiasi altra impostazione implica, surrettiziamente, l’inammissibile qualificazione del soggetto affetto da malattia mentale non come individuo da curare, bensì come fonte di pericolo, per sé e per altri [35]
.
Le considerazioni svolte finora valgono, a fortiori, per tutti gli altri operatori sanitari cui sono affidate persone con disabilità (anche) mentale. Costoro, infatti, sono gravati esclusivamente di un dovere di cura nei confronti dei pazienti e non dispongono nemmeno delle stesse capacità e {p. 602}poteri (anche giuridici) impeditivi dello psichiatra: pertanto, salvo ipotesi del tutto eccezionali (in cui, ad esempio, abbiano omesso di somministrare la terapia prescritta dallo psichiatra), ad essi non si potrà attribuire alcuna responsabilità penale omissiva per gli atti autolesivi o eterolesivi delle persone affette da disturbi psichici affidate alle loro cure.
Anzi, a ben vedere lo psichiatra e gli altri operatori sanitari che trattano la malattia mentale dovrebbero rispettare la libertà del paziente e astenersi dall’effettuare indebiti interventi coercitivi (tra cui in particolare la contenzione) poiché potrebbero altrimenti rispondere in sede penale per la commissione di reati quali il sequestro di persona (art. 605 c.p.) [36]
o i maltrattamenti aggravati dall’essere stato il fatto commesso nei confronti di soggetto con disabilità «come definita ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104» (art. 572, comma 2, c.p.) [37]
. A tal proposito, va precisato che gli infermieri sono dotati di uno spazio di valutazione autonomo rispetto a quello dello psichiatra e debbono, pertanto, verificare la legittimità e adeguatezza della cura predisposta, non potendosi limitare a recepire passivamente le prescrizioni impartite [38]
. Si esclude, infatti, che le istruzioni del medico psichiatra possano configurare un ordine scriminante ai sensi dell’articolo 51 c.p.

5. Il difficile accertamento della causalità e della prevedibilità in ambito psichiatrico

Sia consentito peraltro incidentalmente osservare che, anche laddove si volesse aderire all’orientamento giurisprudenziale, sinora criticato, secondo cui l’operatore sanitario è obbligato a impedire gli atti autolesivi ed eterolesivi del soggetto affetto da malattia mentale, comunque l’accertamento di una sua effettiva responsabilità penale dovrebbe risultare estremamente difficoltoso e improbabile.
In primo luogo, infatti, è tutt’altro che agevole, in tale contesto, la verifica del nesso di causalità tra (l’azione o) l’omissione dell’esercente la professione sanitaria e l’evento aggressivo verificatosi. Il paradigma condizionalistico entra infatti in crisi in quanto tra l’omissione e l’evento si inserisce una scelta (libera o viziata dalla malattia) del soggetto affetto
{p. 603}da disturbo psichico [39]
. Per tale ragione, in giurisprudenza si assiste spesso a una flessibilizzazione di tale criterio a vantaggio di quello, più lasco, dell’aumento del rischio: richiamando il principio espresso dalla sentenza Franzese, la Corte di Cassazione frequentemente sostiene che l’insussistenza di fattori causali alternativi dimostra che l’omissione del medico ha determinato l’evento lesivo [40]
. In realtà, però, la terapia (farmacologica) che lo psichiatra può somministrare raramente elimina, con probabilità prossima alla certezza, il rischio di condotte aggressive ed egli viene perciò condannato per non aver diminuito siffatto rischio, sebbene in realtà non possa essere propriamente dimostrato che, se egli avesse adottato il trattamento doveroso, la malattia non avrebbe prodotto lo stesso esito [41]
. La mancanza di fattori causali alternativi non implica necessariamente che la terapia che l’operatore avrebbe dovuto somministrare avrebbe impedito l’evento lesivo con probabilità prossima alla certezza.
Note
[28] Costituisce, infatti, un dato ormai acquisito che varie psicopatologie, anche gravi, «lascino comunque intatta la capacità di autodeterminazione del malato o conoscano remissioni tali da consentire l’acquisizione di un valido consenso» [Cupelli 2013, 88-89]: tale constatazione, ovviamente, implica anche il suo contrario, e cioè che possano esservi dei casi in cui la malattia mentale comporti una rilevante menomazione di tale capacità. Peraltro, la competence del paziente può esservi in taluni settori del suo agire e non in altri: in questo senso, essa «deve essere sempre contestualizzata, nel senso che deve sempre essere riferita a un atto specifico, riportata a quel preciso contesto, a quel determinato problema, al momento della decisione e al correlato funzionamento mentale del soggetto interessato dalla decisione» [Fornari 1997, 1035]. Perciò, lo psichiatra non deve porsi nei termini di un «acritico esecutore di volontà sanitarie altrui», «di fatto praticando l’abbandono» [Cupelli 2013, 109-110], ma deve, invece, adottare un’attitudine critica nei confronti della volontà espressa dal paziente, tentando di apprezzarne la pienezza e la validità. Il che – si badi – non implica valutarla in termini di «ragionevolezza» del contenuto finale della decisione da lui presa: il medico, infatti, non può imporre il proprio concetto di «bene» al malato di mente, ma deve accettare quello che costui ritiene, consapevolmente, tale. Occorre piuttosto adottare un criterio di valutazione «processuale», considerando che la formazione e l’acquisizione del paziente costituiscono, in questo ambito più che altrove, «un processo e non già un semplice atto» [Venchiarutti 2011, 829]. Pertanto, senza scadere in un paternalismo dannoso per il malato di mente, lo psichiatra dovrà tentare di rilevare, nel caso concreto, che: «il soggetto sia in grado di comunicare con i curanti, dia qualche segno esteriore ad indicare d’aver compreso e apprezzato l’informazione e d’essere pronto a decidere, mostri di intendere le alternative e di capirne la gravità (a questo livello può ovviamente introdursi il pregiudizio morale dell’osservatore), dia una risposta fondata su ragioni e in qualche modo coerente coi valori in cui egli dice di credere, persista nelle conclusioni decisionali da lui espresse» [Cattorini 1999, 3880]. In questa prospettiva, si sostiene che a un primo ed estemporaneo dissenso manifestato dal malato di mente non segua tanto il radicale venir meno della posizione di garanzia dello psichiatra, quanto piuttosto un mutamento del suo contenuto, «gravando su di lui, in questo caso, il dovere di sindacare la genuinità e l’attendibilità della volontà del paziente, nell’estrema delicatezza dell’accertamento imposta dal disagio mentale» [Cupelli 2013, 107], e di persuaderlo della negatività della sua scelta.
[29] Cass. pen., sez. V, 20 giugno 2018, n. 50497. Sul punto si v. Lazzeri [2018]. Per un orientamento differente, si v. Trib. Cagliari, sez. GIP, 17 luglio 2012, commentato (e criticato) da Dodaro [2014]. Per un recente sviluppo relativo alla giurisprudenza EDU in materia, si v. Corte EDU, sez. II, 15 settembre 2020, Aggerholm c. Danimarca (su cui, per alcune osservazioni, Faina [2021]).
[30] Secondo Massa [2013], la contenzione è illecita in quanto, costituendo una limitazione della libertà personale protetta dall’articolo 13 Cost. (o, al limite, un trattamento sanitario obbligatorio ex art. 32, comma 2, Cost.), necessita di una previsione legislativa di cui è, però, sprovvista. Infatti, egli ritiene che l’articolo 60 del r.d. n. 615/1909, recante il Regolamento per l’esecuzione della legge manicomiale n. 36/1904, sia stato abrogato dalla cosiddetta legge Basaglia n. 180/1978, venendo così a mancare una norma di rango primario in grado di giustificare in termini generali il ricorso alla contenzione (anche al di fuori del limitato ambito penitenziario, ove permane l’art. 41 della l. n. 354/1975). Nello stesso senso anche Dodaro [2011], cui si rinvia anche per gli ulteriori riferimenti bibliografici. Quest’ultimo Autore, però, pare ritenere – diversamente da quanto qui sostenuto – che il dovere di garanzia dello psichiatra si estenda fino all’impedimento di atti autolesivi o eterolesivi del paziente, reputando quindi che ove ricorrano condizioni di necessità e urgenza il sanitario sia obbligato a intervenire con pratiche contenitive.
[31] Tale impostazione è criticata da Piras [2019], il quale, evidenziando gli inconvenienti dell’applicazione dello stato di necessità, suggerisce che la contenzione sia reputata un atto medico da considerare non punibile laddove sia effettuata in conformità «alle linee guida pubblicate nel sito dell’Istituto Superiore di Sanità o in mancanza di esse a buone pratiche clinico-assistenziali», secondo quanto previsto dall’articolo 590-sexies, comma 2, c.p.
[32] Comitato Nazionale per la Bioetica, parere su «La contenzione: problemi bioetici», 23 aprile 2015, p. 3. È significativo anche il seguente passaggio: «Nel dibattito bioetico sulla salute mentale, è centrale dunque il passaggio a un nuovo paradigma, in sostituzione dell’approccio manicomiale: da una visione del malato di mente come destinatario di coercizione e segregazione (in quanto portatore di pericolosità sociale), a quella di persona sofferente di cui prendersi cura, secondo principi e modalità di presa in carico del tutto simili a quelli usati per altre patologie e sofferenze» (p. 6). Sul piano giuridico, il parere sembra accogliere l’inquadramento della contenzione come atto illecito eventualmente scriminabile ove ricorrano le condizioni di cui all’articolo 54 c.p. (o 52 c.p.).
[33] Cass. pen., sez. IV, 25 maggio 2022, n. 24138.
[34] Cfr. anche Zanchetti [2004, 2860] che con chiarezza afferma: «il fondamento della l. n. 180/78 è la libertà del paziente; ogni limitazione di questa libertà che non sia disposta con un t.s.o., e quindi – per definizione – in presenza di un paziente che rifiuti il trattamento è vietata. Quindi, il rischio che il paziente possa compiere gesti autolesivi, perché la sua libertà non è sottoposta a controllo da parte dei curanti, è preso in considerazione, valutato e accettato, una volta per tutte, da parte del legislatore».
[35] Quanto detto finora non deve peraltro indurre a dimenticare che lo psichiatra potrebbe invece rispondere delle eventuali condotte autolesive o eterolesive commesse dal paziente in conseguenza di una sua azione (ad es., la somministrazione di un’erronea terapia farmacologica che determina uno scompenso psichico, il quale a sua volta si manifesta in comportamenti aggressivi, come avvenuto in Cass. pen., sez. IV, 14 novembre 2007, n. 10795), sebbene con le già citate difficoltà a distinguere tra azione e omissione in tale settore medico.
[36] Se la contenzione è applicata in situazioni che non rientrano nello stato di necessità ex articolo 54 c.p., infatti, si realizza un’illegittima privazione della libertà personale che integra l’articolo 605 c.p., come ha chiarito Cass. pen., sez. V, 20 giugno 2018, n. 50497.
[37] È interessante osservare che secondo Cass. pen., sez. VI, 28 marzo 2019, n. 16583 i soggetti ricoverati possono reputarsi vittime del detto reato tanto se patiscano in prima persona le violenze fisiche o verbali, quanto se ne siano meri spettatori (in ragione del generale clima vessatorio instaurato dagli operatori).
[38] Cass. pen., sez. V, 20 giugno 2018, n. 50497.
[39] Cfr. Cingari [2009].
[40] Per tutte, Cass. pen., sez. IV, 6 novembre 2003, n. 10430. Sulla causalità omissiva in ambito medico, anche per i necessari riferimenti, si v. Viganò [2009].
[41] Si rinvia ancora a Cingari [2009].