Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c16
In relazione al quadro clinico della persona e alla riscontrata patologia, sarà pertanto il giudice tutelare a conferire all’amministratore di sostegno il potere di «prestare il consenso o il diniego ai trattamenti sanitari di sostegno vitale». Secondo la Corte costituzionale, pertanto, il conferimento all’amministratore di sostegno di poteri sotto il profilo sanitario, non implica di per sé anche il conferimento del potere di rifiutare i trattamenti necessari al mantenimento in vita del paziente: tale potere, di rifiuto delle terapie, presuppone dunque l’esistenza di un decreto del giudice tutelare che tale facoltà espressamente conferisca [31]
.
{p. 391}
Nell’articolo 410 c.c. è, invece, inquadrabile l’ipotesi inversa in cui il personale sanitario o l’équipe socio-assistenziale che ha in carico il beneficiario e l’amministratore di sostegno pacificamente concordino sulla soluzione terapeutica in favore del medesimo, mentre questi dissenta espressamente [32]
. Si tratta della classica ipotesi di contrasto tra il rappresentante (amministratore di sostegno) e il rappresentato (beneficiario), il quale intenda contestare le scelte terapeutiche espresse dal primo. Anche in tale ipotesi, il contrasto è risolto dal giudice tutelare che «adotta gli opportuni provvedimenti».
Sul punto la giurisprudenza è unanime nel ritenere che il dissenso del beneficiario non possa avere effetti paralizzanti sullo svolgimento della misura [33]
e, pertanto, è rimesso al giudice tutelare il delicato compito di dar voce anche alla volontà del beneficiario, pur nel rispetto dell’eventuale urgenza del trattamento sanitario e, soprattutto, di vagliare l’effettiva consapevolezza che questi abbia delle proprie esigenze terapeutiche. In sede decisoria, il giudice è chiamato – come già accennato sopra – a procedere alla ricostruzione della volontà espressa dalla persona con disabilità in precedenza in materia di cure e trattamenti. In assenza di una volontà ricostruibile, il giudice dovrebbe far prevalere il criterio residuale del best interest della persona ovvero quello della «tutela della salute psicofisica e della vita» [34]
.
Occorre chiedersi, dunque, se nei casi in cui all’amministratore di sostegno sia conferito il potere di rappresentanza esclusiva in materia di trattamenti sanitari e il dissenso manifestato dal beneficiario appaia {p. 392}frutto di una decisione non compiutamente maturata circa le specifiche esigenze di trattamento e cura, si possa arrivare a ipotizzare l’imposizione del trattamento sanitario, con conseguente limitazione del diritto di autodeterminazione del beneficiario. In altre parole, ci si chiede se la «rappresentanza esclusiva» possa o meno sconfinare nell’imposizione di un trattamento sanitario.
La proceduralizzazione di tale conflitto tra rappresentante e rappresentato – laddove auspicabilmente detto conflitto venga portato alla concreta attenzione del giudice –, per quanto concerne gli aspetti prettamente sanitari, induce evidentemente a ritenere possibile il ricorso al tradizionale meccanismo della sostituzione. Si consente, infatti, al giudice tutelare, nell’esercizio del potere di risoluzione di tale conflitto, di limitare a certe condizioni il diritto della persona beneficiaria di autodeterminarsi rispetto alle cure da ricevere secondo il criterio residuale del best interest. A tal proposito, si può pensare al caso in cui il beneficiario che presenti una grave forma di schizofrenia rifiuti l’asportazione di un tumore per convinzioni che gli derivano dalla sua condizione. In tal caso il dissenso espresso dalla persona si ritiene possa essere superato dal giudice tutelare, laddove ritenga allo stesso tempo tale volontà, espressa dal beneficiario, parzialmente o totalmente viziata e – contestualmente – l’intervento proposto a tutela della sua salute psico-fisica. Tale soluzione appare in linea, peraltro, con l’impianto normativo della legge n. 219/2017 laddove impone anche all’amministratore di sostegno di consentire o rifiutare le cure «tenendo conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere».
Si tratta evidentemente di ipotesi circoscritte e limitate a casi in cui si tratta di decidere in merito a singoli trattamenti sanitari una tantum.
Il meccanismo di risoluzione del conflitto appena descritto appare, invece, mal adattarsi alle ipotesi in cui la persona beneficiaria dell’amministrazione di sostegno rifiuti il progetto terapeutico proposto dall’équipe socio-assistenziale. In tale fattispecie, invero, che richiede una costante compartecipazione e collaborazione (anche quotidiana) del beneficiario alle eventuali terapie prescritte dal progetto, l’intervento dell’amministratore di sostegno, pur dotato della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, ovvero quello del giudice, non sono idonei a sopperire al rifiuto del beneficiario, anche laddove tale rifiuto possa qualificarsi come viziato dalla patologia dello stesso, da un lato per le evidenti difficoltà pratiche di attuazione di tale simile intervento e dall’altro – per quanto concerne specificatamente la terapia psichiatrica – per l’evidente collisione con i principi posti alla base della c.d. legge Basaglia che ha sancito precisi limiti procedurali per l’effettuazione dei trattamenti sanitari obbligatori per malattia mentale. {p. 393}

5. Ricovero in struttura contro la volontà del beneficiario dell’amministrazione di sostegno (c.d. ricovero coatto)

Oggetto di ampio dibattito è la possibilità di imporre al beneficiario dell’amministrazione di sostegno un ricovero in lungodegenza in una struttura di assistenza e/o di cura contro il suo volere (c.d. ricovero coatto).
L’utilizzo dell’espressione ricovero coatto merita alcune precisazioni. Come verrà compiutamente analizzato nei successivi paragrafi, la procedura seguita da alcuni giudici tutelari per consentire l’inserimento del soggetto beneficiario dell’amministrazione di sostegno in una struttura di assistenza o di cura avviene solo formalmente in modo volontario: infatti, se è vero che da un punto di vista strettamente tecnico-giuridico, il consenso espresso dall’amministratore di sostegno (il rappresentante) produce i propri effetti nella sfera giuridica del beneficiario (il rappresentato), tuttavia, alla luce di una considerazione realistica, risulta improprio parlare di inserimento volontario in una struttura nel momento in cui il ricovero avviene, di fatto, contro la volontà del soggetto, proprio perché il consenso dell’amministratore di sostegno può imporsi sul dissenso del beneficiario. In tal caso, dunque, si è in presenza di un ricovero sostanzialmente coattivo, ancorché formalmente volontario [Daly 2020].
Di fronte a una residuale ipotesi di limitazione del diritto di autodeterminazione del soggetto beneficiario in ambito sanitario, che abbiamo visto nel precedente paragrafo, si pone la questione problematica della limitazione della libertà personale che scaturirebbe dall’eventuale ricovero della persona in una struttura di tipo assistenziale o di cura, in assenza o contro la volontà di quest’ultima, anche al fine di praticare eventuali trattamenti sanitari rifiutati.

5.1. Il ricovero coatto in manicomio e le innovazioni della legge n. 180/1978

Al fine di esporre la questione sopra indicata, si ritiene necessaria una premessa essenziale in ordine al ricovero in manicomio, istituito con legge n. 36/1904 [35]
, e all’evoluzione normativa che ha portato all’introduzione dei trattamenti sanitari obbligatori, come disciplinati dalla legge n. 180/1978 (c.d. legge Basaglia).
La legge n. 36/1904 ha istituzionalizzato il ricovero coatto in manicomio, prevedendo all’articolo 1 che:{p. 394}
Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo o non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi. Sono compresi sotto questa denominazione, agli effetti della presente legge, tutti quegli istituti, comunque denominati, nei quali vengono ricoverati alienati di qualunque genere.
 
Le finalità pubblicistiche della disciplina [Piccione 2010] [36]
potevano agevolmente evincersi, oltre che negli stessi presupposti di legge, anche nei soggetti coinvolti nel procedimento di applicazione della misura [37]
.
Il ricovero in manicomio avveniva, infatti, con la certificazione di un medico e l’ordinanza del pretore; successivamente, entro quindici giorni (tempo di osservazione), il direttore del manicomio doveva trasmettere al Procuratore della Repubblica una relazione scritta e, entro trenta giorni, la persona veniva o dimessa o sottoposta a ricovero definitivo. In quest’ultimo caso, la persona poteva essere anche interdetta. Il ricovero coatto non aveva una durata predefinita per legge e, pertanto, potenzialmente la misura poteva protrarsi nell’arco di tutta la vita del paziente.
I primi cambiamenti a livello legislativo si devono alla legge n. 431/1968 (c.d. legge Mariotti) [38]
, nella quale si rinviene un chiaro tentativo di proiettare le innovazioni costituzionali nel campo dell’assistenza psichiatrica.
Tuttavia, una piena attuazione di tali principi costituzionali si è avuta solo con la c.d. legge Basaglia la quale ha affermato la regola della volontarietà del trattamento sanitario [39]
.
Il principio di volontarietà posto alla base del rapporto medico-paziente, come si dirà, è in particolare valorizzato dalle previsioni della legge che pongono l’obbligo a carico degli operatori dei servizi e presidi sanitari di accompagnare le misure imposte con «iniziative rivolte ad assicurare il consenso e partecipazione del paziente»: ciò vuol dire che prima di disporre il trattamento sanitario obbligatorio occorre provare a ottenere il consenso del paziente all’effettuazione del medesimo trattamento sanitario.
I principi ispiratori della nuova normativa si fondano sull’idea che il malato per guarire ha bisogno di mettersi in relazione con il mondo esterno, dedicandosi al lavoro e ai rapporti umani; egli, in altre parole, non è più {p. 395}considerato un individuo pericoloso, ma una persona della quale devono essere sottolineate, e non represse, le qualità umane.
Parallelamente all’affermazione di tale principio, la legge c.d. Basaglia, successivamente confluita nella legge n. 833/1978 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale [40]
, ha introdotto una specifica disciplina per gli accertamenti sanitari obbligatori (ASO) e i trattamenti sanitari obbligatori (TSO), i quali a tutt’oggi costituiscono gli unici casi previsti per legge, in conformità all’articolo 32 Cost., in cui l’accertamento o il trattamento sanitario possono avvenire contro la volontà del soggetto interessato.
Ai fini della presente trattazione, si avrà riguardo al procedimento di TSO per malattia mentale [41]
. Esso è avviato su proposta motivata di un medico, che deve essere convalidata da un altro medico appartenente al Dipartimento di salute mentale, sul presupposto di alterazioni psichiche del soggetto tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, qualora gli stessi non vengano accettati e non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extraospedaliere. Il Sindaco del Comune di residenza del paziente, nella sua qualità di autorità sanitaria locale, entro quarantotto ore dalla predetta convalida, dispone il trattamento sanitario obbligatorio. L’ordinanza sindacale è immediatamente esecutiva e consente, dunque, ove si necessiti, il ricovero nelle strutture ospedaliere pubbliche o convenzionate. Nelle successive quarantotto ore, l’ordinanza è notificata al giudice tutelare, territorialmente competente, il quale, verificata la sussistenza dei presupposti di legge, convalida o meno il trattamento sanitario.
Nella pratica, il trattamento sanitario obbligatorio costituisce frequentemente la risposta sanitaria al mancato ottenimento del consenso dell’avente diritto. Ciò che, invece, rimane nell’ombra, è che il medico non è affatto esonerato dall’obbligo di fornire al paziente tutte le informazioni necessarie per la ricerca del suo consenso. La mancanza del consenso, invero, non implica tout court l’emissione del provvedimento di TSO, piuttosto l’obbligo per il medico di adottare tutti gli interventi volti alla raccolta e al recupero di esso, inteso come condivisione di un programma terapeutico.
Nella messa in campo di tutti gli strumenti necessari alla raccolta o al recupero del consenso della persona, in conformità con quanto recentemente statuito dalla legge n. 219/2017, si ritiene debbano essere distinti i casi in cui al paziente – al momento del ricorrere dei presupposti per il trattamento sanitario obbligatorio – sia già stato nominato un amministratore di sostegno, da quelli in cui il paziente, invece, non è sottoposto ad alcuna misura di protezione. Infatti, considerato che, fin dall’inizio
{p. 396}dell’incarico, l’amministratore di sostegno dovrebbe farsi parte attiva, insieme al personale medico e ai Servizi sociali, in un vero e proprio lavoro di équipe, nella costruzione di un percorso volto all’acquisizione da parte del beneficiario della consapevolezza della malattia e all’eventuale avvio di un progetto di cura condiviso, egli rappresenta valido strumento per la ricerca del consenso del beneficiario al percorso terapeutico ritenuto necessario in suo favore.
Note
[31] In tal senso, peraltro, si era orientato il Tribunale di Modena nel noto caso di Vincenza Santoro, settantenne malata di SLA che aveva manifestato il desiderio di non essere sottoposta a terapie invasive e, in particolare, nonostante l’aggravarsi della patologia, all’intervento di tracheotomia con successiva intubazione di installazione di macchinario per la ventilazione meccanica che le avrebbe forse allungato la vita ma senza possibilità di salvarla data la prognosi infausta. Cfr. Tribunale di Modena, 13 maggio 2008: «può procedersi alla nomina di un amministratore di sostegno per persona attualmente capace, ma affetta da un gravissimo morbo progressivo, allo scopo di sostituirla – una volta sopravvenuto uno stato di incapacità – nell’espressione del diniego ad eventuali future terapie rianimatorie invasive (nella specie: la ventilazione forzata con tracheotomia) espressamente fin d’ora rifiutate dal paziente».
[32] La norma presenta una formulazione ampia e riguarda anche il conflitto tra amministratore di sostegno e beneficiario sulle questioni di carattere patrimoniale.
[33] Corte cost. 19 gennaio 2007, n. 4: in tale pronuncia la Corte costituzionale ha rigettato la questione di costituzionalità, in riferimento agli articoli 2 e 3 Cost., degli articoli 407 e 410 c.c. «nella parte in cui non subordinano al consenso dell’interessato l’attivazione della predetta misura ed il compimento dei singoli atti gestionali, o comunque non attribuiscono efficacia paralizzante al suo dissenso in ordine a tale attivazione al compimento di tali atti». Cfr. altresì Cass. civ. 27 settembre 2017, n. 22602, ove la Suprema Corte ha affermato l’irrilevanza giuridica del dissenso del beneficiando, nel momento in cui la riluttanza della persona fragile verso l’attivazione della misura di protezione dell’amministrazione di sostegno si fondi su un «senso di orgoglio ingiustificato», affidando quindi all’apprezzamento del giudice tutelare la valutazione del dissenso dell’interessato in relazione alla cura complessiva della sua persona.
[34] Tra le prime applicazioni dell’articolo 3, comma 4, legge n. 219/2017, si veda Tribunale di Modena, 23 marzo 2018: «l’amministratore di sostegno di persona incapace di manifestare la propria volontà può legittimamente esprimere il consenso informato, ovvero il rifiuto, ai trattamenti medico sanitari: ciò in base alla normativa internazionale, alla legislazione nazionale e all’elaborazione giurisprudenziale. È precipuo dovere dell’amministratore assumere quali unici criteri ispiratori della propria decisione l’interesse del beneficiario e la volontà eventualmente espressa in precedenza dal beneficiario stesso».
[35] Legge 14 febbraio 1904, n. 36 recante «disposizioni sui manicomi e sugli alienati», pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» del 22 febbraio 1904, n. 43.
[36] L’autore osserva che: «se è vero che l’ospedale psichiatrico costituiva, in quanto tale, una riprova dell’interferenza culturale tra sicurezza pubblica e salute mentale, non può negarsi altresì che la protezione dell’ordine pubblico si trasformava, con la pratica manicomiale, in un fattore assoluto, poiché il fine terapeutico riabilitativo dell’istituto diveniva recessivo, fino ad essere sterilizzato e poi addirittura sovvertito da quello sanzionatorio e repressivo».
[37] Cfr. articolo 2 legge n. 36/1904.
[38] Legge 18 marzo 1968, n. 431 recante «provvidenze per l’assistenza psichiatrica», pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» del 20 aprile 1968, n. 101.
[39] Articolo 1 legge n. 180/1978: «gli accertamenti e trattamenti sanitari sono volontari».
[40] Legge 23 dicembre 1978, n. 833 recante «Istituzione del servizio sanitario nazionale», pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» del 28 dicembre 1978, n. 360.
[41] Articolo 35 legge n. 833/1978.