Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c19
Luca Fazzi Il maltrattamento invisibile degli anziani e dei disabili nelle RSA tra quotidianità e normalizzazione
Notizie Autori
Luca Fazzi
insegna Servizi sociali innovativi e Teorie e approcci al servizio sociale presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Trento. Direttore del master in Gestione delle imprese sociali, si occupa di organizzazione dei servizi sociali e sanitari e di organizzazioni della società civile. Tra le sue pubblicazioni: Il maltrattamento dell’anziano in Rsa. Analisi del fenomeno, strumenti per l’individuazione, strategie di prevenzione (Maggioli, 2021).
Abstract
Le persone ricoverate in strutture residenziali tra anziani non autosufficienti e disabili che necessitano di assistenza medica infermieristica e riabilitativa a tempo pieno sono passate in Italia da 296 mila nel 2017 a più di 360 mila nel 2022, con un boom nel periodo post-pandemico. Nonostante negli ultimi anni siano stati introdotti alcuni interventi come la legge n. 17/2019, volti a prevenire e contrastare il fenomeno del maltrattamento di anziani e disabili adulti nelle RSA, gli studi sull’argomento in Italia sono – quasi un unicum a livello internazionale – ancora praticamente assenti. La prima ricerca è stata svolta attraverso interviste in profondità, gruppi di lavoro, focus group e osservazione partecipante. La seconda ricerca di cui si riportano i risultati ha coinvolto attraverso interviste in profondità 80 familiari che hanno vissuto la pandemia e il periodo post pandemico con i loro congiunti anziani e disabili ricoverati in RSA. La grandissima parte degli operatori intervistati ha ammesso di essere stata protagonista o di avere assistito con regolarità nel corso delle proprie attività lavorative quotidiane a episodi di maltrattamento psicologico emotivo e di trascuratezza. I fattori che contribuiscono ad aumentare i rischi di maltrattamento nelle RSA sono, come rilevato in letteratura, plurali. Oltre che a contrastare le forme più manifeste di maltrattamento, è necessario avviare dunque una seria riflessione sui maltrattamenti meno visibili e che prendono forma nella vita quotidiana delle strutture in quanto connaturati, non solo e non tanto ai sistemi di finanziamento, ma ai modelli e alle culture dominanti di cura e assistenza.
1. Un’introduzione
Le persone ricoverate in strutture
residenziali tra anziani non autosufficienti e disabili che necessitano di assistenza
medica infermieristica e riabilitativa a tempo pieno sono passate in Italia da 296 mila
nel 2017 a più di 360 mila nel 2022, con un boom nel periodo post-pandemico [Vetrano
2023].
L’interesse nei confronti della
situazione delle strutture residenziali è aumentato nel periodo pandemico durante il
quale diversi studi hanno evidenziato una condizione di debolezza organizzativa
strutturale delle stesse [Tarantino e Bernardini 2022]. La difficoltà di approntare
misure rapide di prevenzione, l’assenza di dispositivi di sicurezza e la rigidità
nell’organizzazione dei servizi hanno contribuito in modo non secondario agli alti tassi
di decessi. Terminata la fase pandemica e con il lentissimo ritorno alla normalità, la
percezione è che si voglia girare il più velocemente possibile pagina per dimenticare
gli eventi drammatici accaduti. Il modo con cui sono gestite le cure e l’assistenza
all’interno delle strutture residenziali merita tuttavia un’analisi che va oltre il
momento contingente, per mettere a fuoco problematiche che durante la pandemia si sono
aggravate, ma rischiano di essere congenite e durature.
Una tra queste riguarda sicuramente
il fenomeno del cosiddetto maltrattamento degli operatori nei confronti delle persone
che essi dovrebbero assistere e curare. Il maltrattamento può essere definito come un
insieme di azioni intenzionali e non intenzionali che causano danno a persone
vulnerabili da parte di chi è deputato alla loro cura o assistenza. Questa definizione
molto generale si sofferma su tre concetti importanti. Il primo è l’intenzionalità. Il
maltrattamento non necessariamente ha natura intenzionale. Si possono avere casi di
maltrattamento sia consapevoli che inconsapevoli, e i secondi in genere sono molto più
diffusi rispetto ai primi [Pillemer et al. 2016]. Il secondo
concetto da evidenziare è che ¶{p. 448}il maltrattamento ha un esecutore
e una vittima, e l’esecutore è chi dovrebbe prestare aiuto e la vittima chi invece lo
dovrebbe ricevere. Il focus dell’osservazione è indirizzato a evidenziare di conseguenza
un rapporto caratterizzato da asimmetria di potere e dipendenza strutturale tra un
soggetto più forte e uno più debole. In terzo luogo, il maltrattamento è costituito da
una variegata serie di comportamenti che non hanno un’unica matrice, ma possono assumere
forme differenziate. Questo significa che non esiste un unico tipo di maltrattamento, al
contrario, l’analisi del fenomeno deve confrontarsi con un insieme di comportamenti
variegato e, anche per questo motivo, non sempre facile da tematizzare.
Gli studi sul maltrattamento degli
anziani e dei disabili adulti hanno una ormai relativamente lunga tradizione a livello
internazionale. Dalla fine degli anni Ottanta soprattutto negli Stati Uniti sono state
svolte ripetute indagini finalizzate a una migliore comprensione del fenomeno, a
definire standard di ricerca e ad analizzare le diverse sfaccettature del fenomeno
[Fulmer 2002].
Rimangono ancora oggi diversi
interrogativi concettuali aperti come, per esempio, il ruolo del significato di
«maltrattamento» che varia da cultura a cultura e comporta una ridefinizione non
indifferente del perimetro dell’analisi. In generale, la ricerca individua tuttavia
alcuni punti fermi su cui il consenso della comunità scientifica è diffuso, che hanno
permesso di dipanare quello che Pillemer e Finkelhor [1988, 52] chiamavano «definitional
dissaray» – lo scompiglio definitorio che regnava ancora all’inizio degli anni Novanta.
Innanzitutto, il maltrattamento è un
fenomeno sfaccettato e multidimensionale che non si esaurisce nella sola violenza fisica
[Pasqualini e Savioli 2001]. Esistono diverse classificazioni del maltrattamento, la più
comune delle quali distingue tra cinque tipologie: il maltrattamento fisico, il
maltrattamento sessuale, il maltrattamento economico, il maltrattamento psicologico ed
emotivo e l’incuria. Nonostante questi comportamenti rientrino tutti sotto la categoria
del maltrattamento, essi si manifestano in modo variegato e hanno conseguenze molto
difformi. Il maltrattamento fisico si compone di comportamenti come gli strattonamenti,
percosse, spinte ma anche contenzioni non giustificate che limitano i movimenti e
producono lesioni, ferite e dolore. Il maltrattamento sessuale si riferisce ad atti
sessuali o atteggiamenti di prevaricazione a sfondo sessuale (irrisioni, ammiccamenti,
ecc.). Il maltrattamento economico riguarda la sottrazione di beni appartenenti alle
persone fragili (portafogli, oggetti di valore, vestiario, ecc.). Il maltrattamento
psicologico ed emotivo è costituito da comportamenti e atteggiamenti che creano ansia,
stress e perdita di autostima mentre l’incuria consiste nel ritardare e non fornire
assistenza, medicine, o venire incontro ad altre necessità; comprendendo anche
l’ab¶{p. 449}bandono. Le diverse forme di maltrattamento possono
presentarsi da sole o unitamente, dando luogo a un quadro molto articolato del fenomeno.
In secondo luogo, le ricerche
evidenziano come il maltrattamento sia ampiamente diffuso non solo fuori, ma anche
dentro le strutture residenziali [Lim 2020]. L’istituzione delle strutture residenziali
per anziani e disabili con elevati bisogni assistenziali ha lo scopo di garantire cura e
protezione, rispetto a situazioni in cui le problematiche socio-sanitarie della non
autosufficienza sono delegate al nucleo familiare. A domicilio i tassi di maltrattamento
più gravi sono più alti che in struttura, e sono spesso i familiari i primi responsabili
di tali atti. Tuttavia, se nelle strutture le forme più gravi di maltrattamento fisico e
sessuale in particolare sono molto meno frequenti, non per questo gli ambienti
istituzionalizzati sono scevri da pericoli. Al contrario, è proprio all’interno delle
strutture che si registrano livelli molto elevati di incuria e maltrattamento
psicologico ed emotivo.
Infine, l’investimento nella
conoscenza del fenomeno è cruciale per fare prevenzione: ancora oggi si fatica a parlare
di maltrattamento per motivi culturali, sociali e, non da ultimo, politici. Le forme del
maltrattamento sono plurali e anche i meccanismi che sottendono al fenomeno presentano
articolazioni variegate. È dunque fondamentale tematizzare il maltrattamento e indagare
come, quando e in che condizioni esso si manifesta oltre che le sue conseguenze non solo
sulle persone non autosufficienti ma anche per i familiari, i servizi e la società nel
suo insieme.
2. Cosa accade nelle RSA italiane
Nonostante negli ultimi anni siano
stati introdotti alcuni interventi come la legge n. 17/2019, volti a prevenire e
contrastare il fenomeno del maltrattamento di anziani e disabili adulti nelle RSA e,
quindi, ci sia un certo riconoscimento dell’esistenza del problema, gli studi
sull’argomento in Italia sono – quasi un unicum a livello
internazionale – ancora praticamente assenti. Il tema rischia così di assumere una
visibilità solo attraverso i media, o come effetto di situazioni eccezionali come la
pandemia. Una delle poche indagini disponibili realizzata dal Ministero per la salute
nel 2020 registrava in Italia oltre 9 mila casi di maltrattamenti con un incremento
costante nel tempo. Questo dato è indicativo di uno stato precario di sicurezza nelle
RSA. Nell’immaginario collettivo, il focus del maltrattamento è tuttavia la violenza
fisica deliberata. Questo tipo di maltrattamento è un problema che diventa tanto più
drammatico, quanto più le vittime sono persone incapaci di difendersi. Tuttavia, i
maltrattamenti fisici o sessuali, ovvero le forme più conclamate di maltrattamento, non
¶{p. 450}esauriscono il quadro del fenomeno e si rischia, facendo solo
riferimento a essi, di fornire un’immagine distorta dello stesso.
Il materiale utilizzato per
approfondire di seguito il problema proviene da due indagini: una svolta tra il 2018 e
la fine del 2020 tra circa 180 dirigenti, operatori e familiari di anziani residenti in
RSA [Fazzi 2021] e la seconda in fase di realizzazione su un campione complessivo di 80
familiari di anziani e disabili adulti ricoverati in RSA durante il periodo delle
restrizioni COVID nelle Regioni del Nord-Est.
3. Il maltrattamento nella quotidianità delle cure
La prima ricerca è stata svolta
attraverso interviste in profondità, gruppi di lavoro, focus group
e osservazione partecipante. Sono stati trattati diversi aspetti del maltrattamento e la
conclusione principale dell’indagine riguarda la bassa consapevolezza del fenomeno che è
spesso parte integrante della quotidianità delle cure e la diffusione più che allarmante
dello stesso. Metodologicamente, il problema principale delle ricerche sul
maltrattamento è rappresentato dalla ritrosia degli intervistati ad ammetterne
l’esistenza per timore di ritorsioni istituzionali, o di biasimo morale [Barboza 2016].
Cercare di accedere a informazioni relative a episodi di maltrattamento conclamato è
dunque molto difficile, soprattutto se gli interlocutori sono gli operatori in servizio
che hanno la maggiore possibilità di essere testimoni degli accaduti. Per sopperire a
questo ostacolo alla ricerca, si possono adottare diverse strategie: coinvolgere i
direttori e il personale in progetti di riorganizzazione che affrontano in modo
costruttivo il tema del maltrattamento, intervistare persone che hanno lavorato in
struttura e successivamente hanno cambiato lavoro e sono quindi più libere di parlare di
cosa hanno visto, oppure ascoltare i familiari, anche se in questo caso possono
sussistere remore a fornire informazioni in particolare se i congiunti sono ancora
ricoverati.
Attraverso l’incrocio delle diverse
fonti si può ricostruire tra le altre cose come in una giornata tipo sono svolte le
operazioni di cura in una normale struttura (quindi non in strutture degradate, senza
controlli o con personale violento). Le giornate tipo sono nella gran parte delle
strutture molto simili e rimandano a un lavoro caratterizzato da un alto livello di
ripetitività e routinizzazione, e da un’organizzazione del lavoro basata sulla divisione
di compiti.
L’alzata e l’igiene mattutina
costituiscono il primo campo di prova per verificare cosa significa maltrattamento nella
quotidianità delle cure. Nei reparti e ai piani delle RSA, la procedura utilizzata più
frequentemente per svolgere le operazioni di alzata e igiene si basa sulla distribuzione
¶{p. 451}di compiti in base a tempistiche predefinite. Il tempo medio
dedicato dagli operatori per ogni persona fragile è standard e varia tra i sei e gli
otto minuti. Cosa accade in questo lasso di tempo è qualcosa che alcuni operatori
definiscono come «ordinaria amministrazione» delle cure. Per esempio se da alzare e
lavare è un soggetto collaborativo e relativamente autosufficiente, l’operazione è
svolta senza particolari problemi. Se al suo posto c’è un malato di Alzheimer o una
persona con problemi cognitivo comportamentali, si possono ingenerare reazioni inattese.
La persona fragile può non riconoscere l’operatore e agitarsi, oppure può spaventarsi e
diventare aggressivo. La reazione degli operatori varia in base a molti fattori: la
preparazione professionale, l’esperienza, la pressione che in quel momento è esercitata
dal contesto per svolgere nei tempi prestabiliti l’operazione. Un professionista
competente e non stressato dalla tempistica tendenzialmente uscirà dalla stanza e
continuerà il proprio lavoro aspettando di tornare in un momento successivo in una
situazione di maggiore calma. Spesso accade però che per scarsa esperienza del
personale, o per la pressione sui tempi, gli operatori cerchino egualmente di svolgere
l’operazione di alzata e igiene. In questi casi è da mettere in conto un gesto
involontario o una reazione aggressiva da parte del soggetto fragile, sia verbale che
fisica, che può facilmente fare scattare comportamenti maltrattanti da parte del
personale che lo immobilizza con forza per eseguire i compiti, oppure lo apostrofa con
male parole, come sfogo in una situazione di stress.
Quanti operatori di reparto
assistono in modo regolare o abbastanza regolare a episodi del genere? Le risposte che
si ottengono più frequentemente a questa domanda dopo avere descritto l’esempio agli
operatori è «tutti o quasi tutti», «sì, può succedere», «succede per forza».
Dopo l’alzata, un’ora critica è
quella del pranzo. Il pranzo è un momento particolarmente atteso dagli ospiti delle RSA
sia perché rompe una routine quotidiana altrimenti molto noiosa, che per il valore
rituale di un periodo del giorno che è stato centrale per tutta la loro vita passata. Il
problema principale del pranzo è che in moltissime strutture manca il personale per
imboccare le persone meno autosufficienti. In alcuni casi le direzioni delle strutture
incentivano la presenza di familiari, ma in molti altri i parenti sono considerati più
un intoppo allo svolgimento dei compiti che non un aiuto. Così l’imboccamento procede in
base a ritmi che per molti soggetti fragili non sono adeguati. Alla domanda se sono
rispettati i tempi degli ospiti una risposta comune tra il personale è che questo «non è
sempre possibile» e che «capita di dovere chiudere gli occhi e girarsi dall’altra parte»
mentre si imbocca qualcuno controvoglia o forzando la deglutizione.
Il problema del maltrattamento
durante il pranzo, tuttavia, è più complesso e persino banale della forzatura
all’assunzione di cibo. In quasi i
¶{p. 452}due terzi delle strutture in
cui sono stati raccolti i dati, la distribuzione dei pasti inizia prima di mezzogiorno,
ovvero circa tre ore dopo la fine della colazione. Si tratta di una tempistica tipica da
struttura ospedaliera, dove però l’alterazione degli orari di pranzo rispetto alla
normalità della vita a domicilio è legata a un periodo molto breve di gestione delle
acuzie. Nelle RSA invece gli ospiti si trovano a vivere per molti mesi, o più spesso per
molti anni. Accade quindi che i tempi della nutrizione si adattano a orari che mai
sarebbero immaginabili nella vita normale, con il paradosso che eventuali problemi di
inappetenza rischiano di essere attribuiti a problemi patologici e non a un’alterazione
delle loro abitudini consolidate nel corso di un’intera esistenza.