Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c19
Il problema del maltrattamento
durante il pranzo, tuttavia, è più complesso e persino banale della forzatura
all’assunzione di cibo. In quasi i
¶{p. 452}due terzi delle strutture in
cui sono stati raccolti i dati, la distribuzione dei pasti inizia prima di mezzogiorno,
ovvero circa tre ore dopo la fine della colazione. Si tratta di una tempistica tipica da
struttura ospedaliera, dove però l’alterazione degli orari di pranzo rispetto alla
normalità della vita a domicilio è legata a un periodo molto breve di gestione delle
acuzie. Nelle RSA invece gli ospiti si trovano a vivere per molti mesi, o più spesso per
molti anni. Accade quindi che i tempi della nutrizione si adattano a orari che mai
sarebbero immaginabili nella vita normale, con il paradosso che eventuali problemi di
inappetenza rischiano di essere attribuiti a problemi patologici e non a un’alterazione
delle loro abitudini consolidate nel corso di un’intera esistenza.
Nel primo pomeriggio, nella gran
parte delle strutture sono previste attività prima di riposo e poi di cosiddetta
socializzazione.
Il riposo è una pratica che prevede
l’accompagnamento nelle stanze degli ospiti come routine organizzativa. Per la gran
parte di loro, il riposo fa parte di uno stile di vita pregresso, ma per alcuni che non
erano prima di entrare in struttura abituati a stare a letto dopo pranzo, o che
presentano migliori condizioni fisiche e cognitive, si possono creare forti disagi. Per
esempio, per un soggetto portato in camera con un altro ospite che dorme, e costretto a
stare sveglio con le tapparelle abbassate, il riposo pomeridiano può rivelarsi
estremamente frustrante. Il lavoro organizzato per compiti si basa tuttavia quasi sempre
su routine standardizzate ed economie di scala che rendono difficile la gestione di
eccezioni, o il soddisfacimento delle esigenze di piccoli gruppi. Di fronte a richieste
di eccezione alla routine, la risposta istituzionale è «si deve fare così» e non ci si
pone l’interrogativo del perché una certa domanda è stata posta e quale sia l’effetto di
un determinato diniego.
Dopo il riposo, iniziano le attività
di socializzazione che assumono forme molto variegate. Nelle strutture con animatori o
educatori, si organizzano svariate attività come ginnastica dolce, taglio e cucito,
giochi ricreativi, ecc. Una parte consistente del tempo trascorre tuttavia, per molti
ospiti che non possono partecipare attivamente alle attività di animazione, negli spazi
comuni.
Lo spazio comune è uno dei luoghi
privilegiati del maltrattamento psicologico emotivo e dell’incuria. L’immagine di ospiti
lasciati negli spazi comuni seduti e legati in carrozzina che guardano il vuoto senza
essere stimolati a svolgere attività plausibili e di loro interesse domina le
descrizioni degli operatori su come trascorrono le ore pomeridiane per molte persone.
L’incuria assume in alcune osservazioni tratti che incrociano in modo paradossale il
maltrattamento psicologico ed emotivo, come nel caso degli ospiti in carrozzina lasciati
in una sala comune davanti a una televisione che trasmette programmi di cucina a cui
assistono persone ¶{p. 453}ancora capaci di alimentarsi normalmente e
altri più sfortunati costretti ad alimentarsi con sondino nasogastrico o intestinale.
La sera è l’ultimo momento della
giornata. Agli ospiti è servita la cena e subito dopo sono messi a letto. Anche in
questa fase si assommano una serie di problemi di organizzazione del lavoro, pressione
sul personale e difficoltà a comprendere i bisogni delle persone. Gli operatori seguono
la stessa sequenza della mattina per svolgere le operazioni. Essendo spesso a fine
turno, il personale è più stanco e gli episodi di mancata risposta alle richieste dei
soggetti più fragili e il nervosismo si moltiplicano. «Anche volendo» è la sintesi fatta
da un’operatrice «non è possibile rispondere ai bisogni di tutti, si fa il necessario,
il resto se si riesce».
Questa descrizione di una giornata
tipo non esaurisce la varietà di modelli di organizzazione delle cure delle strutture
residenziali descritte dagli intervistati. Ci sono anche casi in cui le cure sono
centrate sui progetti e non sui compiti o dove sono sperimentati processi di
personalizzazione che contemplano il risveglio naturale, o le politiche di contenzione
zero. Per stimare la diffusione dei modelli bisognerebbe utilizzare campioni più ampi,
ma è opinione ampiamente condivisa dagli intervistati che il sistema di cura dominante
nell’attuale periodo storico sia quello precedentemente descritto e che inevitabilmente
in sé contiene una molteplicità di fattori che aumentano il rischio del maltrattamento
quotidiano, non un maltrattamento espressamente violento ed eccezionale, ma endemico e
lesivo dei diritti di autonomia, privacy, mobilità, rispetto, di molte delle persone che
in tali strutture risiedono e vivono.
4. Il maltrattamento visto dai familiari
La seconda ricerca di cui si
riportano i risultati ha coinvolto attraverso interviste in profondità 80 familiari che
hanno vissuto la pandemia e il periodo post pandemico con i loro congiunti anziani e
disabili ricoverati in RSA. I familiari sono stati contattati attraverso associazioni di
tutela e advocacy e in seguito attraverso un campionamento a
valanga in Veneto, Trentino, Friuli Venezia Giulia ed Emilia-Romagna. Si tratta quindi
di un gruppo di persone con un background di consapevolezza e un
vissuto particolari che non è rappresentativo dell’universo dei parenti delle persone in
struttura, ma che fornisce tuttavia uno sguardo importante sul fenomeno del ricovero in
struttura dal 2020 a oggi.
L’esperienza degli intervistati è
comune a tutti i familiari che avevano un congiunto all’interno delle strutture nel
momento dell’esplosione della pandemia. La ricerca empirica a livello internazionale ha
dimostrato come durante il periodo COVID si è assistito praticamente ovunque a un
in¶{p. 454}cremento netto delle diverse forme di maltrattamento sia a
domicilio che nelle istituzioni [Chaudhry e Ahmad 2022].
Cosa è accaduto in questo periodo
nelle strutture residenziali italiane in parte è stato già descritto e riportato da
fonti autorevoli come Amnesty International e più di recente dal
Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura (CPT) del Consiglio d’Europa che ha
definito la situazione degli anziani (e dei disabili) «segregati nelle RSA italiane» con
condizioni di vita che sono andate ben oltre la fine dell’emergenza pandemica, come
quella dei carcerati privati della libertà personale.
Anche gli intervistati evidenziano
come le chiusure sono state particolarmente pesanti per le persone più fragili che erano
abituate alle visite dei familiari e avevano difficoltà a comunicare telefonicamente a
causa di deficit cognitivi, uditivi o della parola. Le condizioni della gran parte dei
congiunti ricoverati si sono nei primi mesi di totale isolamento spesso aggravate con
perdita di peso, riduzione dell’attenzione cognitiva, depressione e tendenze suicidarie.
Un’intervistata riporta una telefonata con la madre novantaquattrenne in cui l’anziana
ancora lucida mentalmente riferiva di avere vissuto l’esperienza della guerra e della
fame e di avere avuto ciononostante sempre la voglia di sopravvivere mentre, pur essendo
nutrita e assistita regolarmente, aveva chiesto più volte durante l’isolamento al
personale di aiutarla a morire.
Il dramma dell’isolamento come
condizione emergenziale non è tuttavia il vero cuore del problema.
Gli effetti drammatici delle
chiusure sulle persone anziane e disabili sono noti a tutti coloro che hanno vissuto sia
come familiari che come operatori il periodo dei lockdown. La gran
parte dei familiari intervistati è pienamente cosciente che la chiusura era stata
imposta da normative tese ad assicurare la protezione dei fragili. Dopo la prima ondata
e l’inizio della somministrazione dei vaccini le limitazioni sono continuate tuttavia a
oltranza e sono proseguite anche se in forme più blande oltre al
1o gennaio 2023. Nonostante a questa data sia rimasto in
vigore solo l’obbligo delle mascherine per i visitatori esistono ancora strutture dove,
con tutti gli ospiti e il personale plurivaccinati, gli incontri continuano ad avvenire
in spazio neutro, previo distanziamento sociale e compilazione dei moduli di
triage. Queste scelte non hanno una natura esclusivamente
sanitaria e sono dettate da valutazioni più complesse.
Sicuramente molti direttori sanitari
a cui da maggio 2021 è stata delegata un’autonomia di decidere le restrizioni da
adottare per proteggere le persone ricoverate hanno agito anche in forma di autotutela
per evitare denunce e procedimenti da parte dei familiari nel caso di decesso dei
congiunti per COVID. In diversi racconti degli intervistati emerge tuttavia anche un
fenomeno più latente che rimanda alla concezione ¶{p. 455}largamente
diffusa di cosa significhi assistere un non autosufficiente in struttura.
«Per loro – racconta un’anziana madre di un
cinquantenne con disabilità ad alto bisogno assistenziale – conta solo che non si
ammali, se poi muore di solitudine invece che di COVID hanno fatto il loro dovere».
Questa affermazione riflette un vissuto comune a molti familiari e rimanda a quella che
essi interpretano come la difficoltà non necessariamente in cattiva fede di comprendere
da parte di molti direttori e responsabili delle cure la natura stessa dell’oggetto del
loro lavoro. Naturalmente ci sono anche molti esempi di personale che si è prodigato
durante le chiusure per stare vicino ai congiunti. Ma si tratta più di eccezioni e di
scelte individuali degli operatori o dei coordinatori dei servizi, che non di effetti di
decisioni organizzative. Nei racconti degli intervistati, i familiari sono stati
percepiti nella gran parte dei casi come degli ostacoli allo svolgimento delle funzioni
assistenziali e di protezione dei ricoverati. «Questo è assurdo – racconta un’anziana
con il marito ricoverato a seguito di un ictus – io mi sono offerta quando hanno
iniziato ad allentare le restrizioni di dargli da mangiare, ho fatto la quarta dose ed
ero disponibile a fare ogni giorno anche i tamponi ma non c’è stato verso. Dicevano che
non si poteva. La sensazione è che non volevano vedessi cosa succedeva dentro».
Al di là delle opinioni personali
sui motivi per cui si sono verificati problemi a contattare i congiunti, quello che le
interviste rivelano è non solo la difficoltà da parte delle strutture di gestire
l’emergenza a causa di problemi di personale, di gestione caotica delle circolari e
delle procedure e quindi di problemi più che reali e comprensibili. Oltre a ciò, e molto
probabilmente prima e a monte di queste difficoltà, la gestione dell’emergenza ha
palesato in modo plastico due tipologie di atteggiamento ampiamente diffuse.
La prima riguarda una concezione del
rischio di stampo clinico che imputa i danni ai pazienti al mancato adattamento delle
cure ai protocolli istituzionalizzati. Per molti direttori delle strutture, il
principale obiettivo durante la pandemia e anche nel periodo successivo è stato
garantire la conformità dell’organizzazione dei servizi alle prescrizioni e alle
circolari ministeriali, arrivando a fare equivalere implicitamente il benessere delle
persone con l’applicazione dei protocolli. L’idea che esista una qualità di vita oltre
l’organizzazione protocollata del lavoro sicuramente esiste, ma tende a essere messa in
secondo piano da modelli di management e gestione di tipo tecnico che nei momenti di
emergenza si rivelano dominanti rispetto a ogni altra istanza.
La seconda concezione latente che si
è esplicitata durante la pandemia è quella della diffusa scarsa rilevanza attribuita al
ruolo dei familiari per la qualità della vita degli anziani e dei disabili. Questo
atteggiamento è ¶{p. 456}sintetizzato da una frase molto toccante di una
donna adulta che non ha più visto e sentito il padre deceduto in una struttura per
lungodegenti tre mesi dopo il lockdown: «si è preferito che i
nostri parenti vivessero senza microbi invece che con lo sguardo dei loro cari». I
familiari sono visti non sempre ma sicuramente spesso come sostituti funzionali del
personale, per esempio per compiere operazioni di imboccamento o di controllo che
tolgono tempo agli operatori. L’alleanza con le famiglie è percepita di conseguenza non
come una priorità progettuale, ma come un’esigenza principalmente strumentale e la
dimensione della relazionalità emotiva e degli affetti tende a essere largamente
sottostimata, nonostante esista un’ampia letteratura scientifica che evidenzia il ruolo
di supporto psicologico ed emotivo e di sicurezza svolto dai familiari delle persone
anziane e disabili adulte inserite in strutture residenziali [Zambrino e Hedderich
2021]. Questo atteggiamento svela la presenza diffusa di una concezione riduzionistica
dei bisogni degli anziani e disabili adulti in RSA che sono visti principalmente come
portatori di deficit che non come persone con bisogni più articolati e complessi.
La scelta di intervistare familiari
che hanno contatti con associazioni di tutela e advocacy
inevitabilmente crea una distorsione nel campione e probabilmente anche in
alcune risposte. La medesima situazione descritta dagli intervistati di interruzione
delle visite, perdita di contatto con i familiari e frequente peggioramento delle
condizioni psicologiche e fisiche degli stessi è stata confermata tuttavia su scala più
ampia da una recente indagine della comunità di Sant’Egidio effettuata su 240 strutture
in dieci Regioni nella primavera del 2021 che ha evidenziato come il 64% delle RSA non
consentiva ancora le visite e appena il 20% aveva uno spazio di incontro protetto
riservato ai familiari.
5. La normalizzazione del maltrattamento
Le indagini disponibili sia
ministeriali che delle autorità indipendenti, così come l’osservazione di una comune
giornata in una struttura residenziale attraverso le testimonianze di operatori e
familiari e le interviste ai parenti che hanno avuto congiunti ricoverati in struttura
nel periodo pandemico e post pandemico mettono in luce alcuni aspetti della situazione
delle RSA per anziani a disabili adulti in Italia che dovrebbero fare riflettere e
portare ad adottare misure correttive urgenti nel sistema. Innanzitutto, si conferma
quello che la ricerca empirica internazionale ha da tempo rilevato, ovvero che il
maltrattamento è un fenomeno endemico e connaturato all’organizzazione delle cure della
gran parte delle strutture residenziali per anziani e disabili adulti [Yunus
et al. 2019]. Il maltratta
¶{p. 457}mento di cui
si parla non è in genere quello intenzionale e violento che finisce sui media e solleva
sdegno e riprovazione da parte dell’opinione pubblica. Naturalmente anche queste forme
di maltrattamento possono verificarsi ma si tratta di eccezioni, anche se numericamente
non irrilevanti. Se si amplia il perimetro dell’osservazione tuttavia il fenomeno del
maltrattamento assume dimensioni molto più estese e drammatiche e ingloba una
sistematica e diffusa violazione di diritti personali. Così come rilevato nelle più
recenti ricerche internazionali la vera epidemia riguarda due forme di maltrattamento
più difficili da tematizzare e individuare: quello psicologico emotivo, e l’incuria. La
grandissima parte degli operatori intervistati ha ammesso di essere stata protagonista o
di avere assistito con regolarità nel corso delle proprie attività lavorative quotidiane
a episodi di maltrattamento psicologico emotivo e di trascuratezza. Fino a quando i
dirigenti e il personale non sono portati a riflettere su queste tipologie di
maltrattamento, non vi è consapevolezza della gravità del fenomeno. Come hanno segnalato
diversi studiosi, uno dei problemi del maltrattamento è causato espressamente dai troppo
alti livelli di scarsa consapevolezza sugli effetti dei comportamenti quotidiani [Natan
et al. 2010]. In assenza di una comprensione di cosa sia
corretto o meno, chi mette in atto azioni inconsapevoli non prende nemmeno in
considerazione la possibilità di modificarle. Ritardi nella somministrazione di
medicinali, visite mediche prorogate a data da definirsi, violazioni sistematiche della
privacy, contenzioni protratte e non giustificate, infantilizzazioni diventano in questo
modo comportamenti ampiamente diffusi e tollerati e che entrano a fare parte delle
culture organizzative e professionali in modo quasi automatico e irriflesso.