Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c26
Secondo il Supremo Collegio, dunque, se le linee guida non sono adeguate al caso concreto oppure (sebbene adeguate) vengono eseguite in
{p. 588}maniera gravemente imperita, l’operatore sanitario non potrà beneficiare della causa di non punibilità delineata dall’articolo 590-sexies.
Il quadro sinora tratteggiato con riguardo al tema, generale, della responsabilità penale dell’operatore sanitario, per quanto semplicistico, può fornire le coordinate necessarie a orientarsi anche rispetto a coloro che si occupano di persone disabili.
Gli esercenti la professione sanitaria cui sono affidate persone con disabilità (sensoriali, motorie, intellettive o psichiche), infatti, sono titolari di una posizione di protezione rispetto alla loro integrità psico-fisica. Ciò significa che essi possono rispondere, sul piano penale, tanto per una condotta attiva quanto per una condotta omissiva (laddove quest’ultima abbia determinato un danno alla salute del paziente).
Sul primo versante, essi potranno essere chiamati a rispondere (non solo, ovviamente, di tutti i reati volontariamente commessi a danno dei pazienti, ma anche) dei trattamenti terapeutici con esito infausto (ossia tali da determinare una compromissione funzionale dell’organismo dei pazienti) eseguiti in violazione delle leges artis che disciplinano la loro attività.
Sul secondo versante, invece, essi potranno rispondere del danno alla salute determinato dalla mancata adozione di quei trattamenti terapeutici che, nel caso concreto, erano necessari per assolvere la funzione cui sono chiamati, ossia preservare l’integrità psico-fisica dei pazienti con disabilità loro affidati.

3. La responsabilità penale per gli atti autolesivi ed eterolesivi del paziente con disabilità psichiche. L’operatore sanitario tra l’incudine e il martello

Come anticipato, nello scenario relativo alla responsabilità penale dell’operatore della disabilità, un tema particolarmente complesso e delicato concerne la specifica situazione di coloro che sono chiamati a occuparsi di persone che presentano malattie psichiche. In taluni casi, infatti, tali malattie potrebbero indurre il paziente a commettere atti lesivi nei confronti di se stesso o di altre persone. Si pone dunque il problema della responsabilità penale (omissiva) dell’operatore sanitario rispetto a tali comportamenti. La questione è stata affrontata con grande fervore dalla dottrina e dalla giurisprudenza con riguardo al medico psichiatra, ma le considerazioni svolte a tal proposito presentano una valenza più ampia, potendo fornire spunti utili a orientarsi con riguardo alla situazione di tutti gli operatori sanitari che trattino forme di disabilità (anche) psichica.
In generale, lo psichiatra è, alla luce di quanto detto in precedenza, titolare di una posizione di protezione nei confronti del paziente: tale {p. 589}conclusione è corroborata – oltre che dalle fonti normative menzionate in precedenza – anche dall’articolo 2, comma 2, lett. g), della l. n. 833/1978.
Di conseguenza, egli ha l’obbligo giuridico di impedire che il decorso della malattia possa pregiudicare l’integrità psico-fisica di colui che gli è affidato: più nello specifico, tale obbligo «si sostanzia nella doverosa realizzazione di interventi terapeutici necessari per migliorare la salute ed evitare eventi dannosi capaci di arrecare ulteriori pregiudizi al paziente» [Gargani 2004, 1401]. Come questa semplice affermazione di principio si estrinsechi con riguardo alle diverse ipotesi sopra menzionate, però, è questione più complessa di quanto potrebbe inizialmente apparire. Occorre, pertanto, procedere operando le dovute distinzioni.

3.1. La responsabilità attiva per condotte autolesive del paziente

Risulta indiscutibile che lo psichiatra possa, in primo luogo, rispondere se l’evento autolesivo è conseguenza di una sua azione (venendosi a configurare in tal caso una responsabilità commissiva). Si pensi al caso in cui lo psichiatra somministri una dose errata di farmaci, da cui deriva uno scompenso psichico e una conseguente condotta autolesiva del paziente.
Tuttavia, va riconosciuto che proprio nell’ambito della medicina psichiatrica, non è sempre agevole la distinzione tra azione (condotta commissiva) e omissione (condotta omissiva). Si è detto, nelle note introduttive del testo, che la responsabilità penale può sorgere sia nel caso in cui l’azione del soggetto agente cagiona l’evento lesivo, sia nel caso in cui egli omette di impedire l’evento lesivo che aveva l’obbligo giuridico di impedire. La causalità tra la condotta dell’autore del reato e l’evento si atteggia, in queste due ipotesi, in modo diverso: nel caso della responsabilità attiva l’azione rappresenta, sul piano naturalistico, una condizione dell’evento (tant’è che, se essa non ci fosse stata, quest’ultimo non si sarebbe verificato); nel caso della responsabilità omissiva, invece, l’omissione non ha, sul piano naturalistico, alcuna valenza causale (poiché, come è ovvio, qualcosa che non accade non può realmente «cagionare» alcunché), ma viene giuridicamente ritenuta rilevante, ai sensi dell’articolo 40, comma 2, c.p., laddove si possa provare (tramite una dimostrazione di tipo ipotetico) che, se l’azione doverosa fosse stata compiuta, allora l’evento lesivo non si sarebbe verificato. Nel primo caso, dunque, ad avere rilevanza penale è l’effettiva incidenza della condotta sulla realtà (viene innescato un nuovo processo causale, viene introdotto un nuovo fattore di rischio), mentre nel secondo caso è proprio la mancanza di qualsiasi impatto fattuale sulla realtà (non viene interrotto un processo causale in corso, non viene neutralizzato un fattore di rischio esistente) a essere sanzionata. Impie{p. 590}gando un criterio discretivo di tipo normativo, si è anche affermato che la condotta è omissiva quando la regola violata è un comando, mentre è attiva quando la regola violata è un divieto [8]
.
Nell’ambito del trattamento delle malattie mentali, però, la distinzione rimane elusiva. In una situazione come quella richiamata in precedenza (erronea somministrazione di farmaci), infatti, non è immediata la distinzione tra l’ipotesi in cui l’errore genera un nuovo decorso causale e l’ipotesi in cui l’errore comporta la mancata interruzione di un decorso causale in essere [9]
. Neanche il criterio normativo pare risolutivo, poiché il dovere di cura dell’operatore sanitario potrebbe essere inteso sia nei termini di un comando («somministra al paziente tutte le cure necessarie per preservare la sua salute») sia nei termini di un divieto («non somministrare al paziente trattamenti che pregiudicano la sua salute»).

3.2. La responsabilità attiva per condotte eterolesive del paziente

Con riguardo all’ipotesi in cui l’azione dell’operatore sanitario determina un comportamento eterolesivo del paziente, l’inquadramento giuridico è ancora più complesso. Teoricamente, se si riesce a dimostrare (oltre ogni ragionevole dubbio) che l’atto aggressivo del malato di mente è effettiva conseguenza dell’erronea terapia somministratagli dal medico, allora si dovrebbe ritenere quest’ultimo penalmente responsabile (in concorso) dell’evento lesivo: in tal senso si è pronunciata la Corte di Cassazione in una recente sentenza [10]
. Astrattamente, versandosi nell’ambito della responsabilità attiva, a tale soluzione si può giungere anche a prescindere dall’esatta individuazione dei confini della posizione di garanzia dell’operatore sanitario. Tuttavia, poiché la distinzione tra condotta attiva e condotta omissiva è, in materia psichiatrica, assai sfuggente e poiché assai complessa è la dimostrazione che la condotta eterolesiva è concretamente causata dall’erronea terapia somministrata dal medico, la questione non può essere risolta senza aver prima affrontato il tema dell’esatta identificazione della posizione di garanzia di quest’ultimo. Se, infatti, si sostiene che essa non comporta il dovere di impedire anche gli atti eterolesivi del paziente, allora pare difficile che in sede giudiziaria si possa giungere ad affermare la responsabilità penale (attiva o omissiva) dell’operatore sanitario. In altri termini, date le difficoltà tecnico-giuridiche appena menzionate, la {p. 591}soluzione del caso pare comunque dipendere dalla configurazione che si decide di attribuire al dovere di cura dell’operatore sanitario della disabilità (anche) mentale.

3.3. La responsabilità omissiva per gli atti autolesivi del paziente

La casistica giurisprudenziale dimostra, infatti, che la responsabilità penale dello psichiatra viene, nella maggior parte dei casi, qualificata come omissiva. Essendo titolare di dovere di cura della salute del paziente, egli deve infatti impedire che la (pregressa) malattia psichica del paziente degeneri, determinando in tal modo un deterioramento della sua salute. Pertanto, rispetto agli atti autolesivi o eterolesivi del paziente, si tende a ragionare nei termini dell’omesso intervento su un fattore di rischio (la psicopatologia, appunto) già esistente.
È proprio su tale versante, però, che il tema manifesta la sua estrema complessità e delicatezza politico-criminale. A seguito della rivoluzione copernicana avvenuta con la cosiddetta legge Basaglia (l. n. 180/1978), infatti, il paradigma custodialistico nel trattamento della malattia mentale è stato abbandonato. Di conseguenza, secondo la dottrina prevalente, non residuerebbero più in capo allo psichiatra obblighi di custodia e sorveglianza. La logica conseguenza di tale impostazione è che egli non dovrebbe essere chiamato a rispondere per gli atti autolesivi o eterolesivi commessi dal paziente. Purtroppo, però, tale conclusione è tutt’altro che scontata, come dimostrano taluni orientamenti giurisprudenziali, anche recenti, che esplicitamente ripropongono una logica custodialista e di istituzionalizzazione.
La ragione delle contraddizioni che, tra breve, si illustreranno è che lo psichiatra si trova tra «l’incudine e il martello» [Zanchetti 2004] o «stretto tra due fuochi» [Manacorda 1988]: fuor di metafora, egli si trova, da una parte, sottoposto alla pressione sociale, che tenderebbe «ad imporgli un più o meno sistematico atteggiamento di repressione preventiva nei confronti di iniziative del suo paziente potenzialmente lesive di beni giuridicamente protetti, a scapito di un’azione realmente terapeutica» [Manacorda 1988]; mentre, dall’altra, egli si trova a dover corrispondere una «speculare controspinta, di matrice normativa e deontologica, che gli impone di rivendicare la finalità esclusivamente terapeutica del suo agire, richiamandolo ai doveri tipici di prevenzione, cura e riabilitazione dei disturbi psichici» [Cupelli 2013, 53]. Questa delicata collocazione dell’attività psichiatrica è rappresentata emblematicamente, sul piano della normativa penalistica, dalla contrapposizione tra l’articolo 591 e gli articoli 605 e 610 c.p.: da una parte, infatti, vi è il rischio che l’operatore, omettendo di prendersi {p. 592}cura del paziente a lui affidato, incorra nella fattispecie di abbandono di persona incapace [11]
mentre dall’altra vi è il rischio speculare che egli, coartandone indebitamente la libertà, integri le speculari incriminazioni di sequestro di persona [12]
e violenza privata [13]
.
Tali fattori ideologici e culturali determinano, nelle loro mutevoli combinazioni, la pluralità di opinioni che costella il dibattito in materia. Di esse occorre in questa sede dar conto, prima di proporre alcuni argomenti volti a un definitivo (e totale) abbandono di qualsiasi rigurgito custodialista nel trattamento della disabilità mentale.
Con riguardo agli atti autolesivi, la giurisprudenza di legittimità tende infatti ad affermare la responsabilità penale omissiva dello psichiatra. Si tratta di un indirizzo risalente [14]
e che ha avuto, anche di recente, significative conferme [15]
. In taluni casi la posizione di garanzia di cui è titolare l’operatore sanitario è qualificata come terapeutica o di protezione [16]
, mentre in altri casi addirittura si parla esplicitamente di obblighi di sorveglianza e di controllo [17]
. L’impressione che si trae dalla lettura di queste sentenze della Corte di Cassazione è che il dovere terapeutico dello psichiatra, il quale – lo si ribadisce – è tenuto a preservare l’integrità psico-fisica del paziente, venga dilatato al punto tale da ricomprendervi anche la tutela di quest’ultimo rispetto a eventuali condotte autolesive. Del resto, non si può negare che anche alcuni autorevoli commentatori ammettono che «la tutela della salute di un malato di mente incapace di autodeterminazione implichi, a fortiori, la tutela della sua vita e della sua incolumità» da condotte autolesive [Fiandaca 1988, 110]. In tal modo, però, in tutti i casi in cui la persona affetta da malattia psichica è in grado di compiere (anche parzialmente) delle scelte terapeutiche consapevoli (e dunque ad eccezione dei casi in cui sia giustificato un TSO), si giustifica un’indebita compressione della sua libertà di autodeterminazione, scaricando sul medico i rischi (che pure dovrebbero essere consentiti) di un rapporto (che dovrebbe essere) consensualistico.
{p. 593}
Note
[8] Per un interessante tentativo definitorio, si v. Cass. pen., sez. IV, 22 luglio, 2011, n. 29476. Cfr., per alcuni riferimenti essenziali, Sale [2011].
[9] Cfr., a tal proposito, la ricostruzione di Cupelli [2013, 25-31].
[10] Cass. pen., sez. IV, 20 aprile 2017, n. 28187, ove però si considerano unitamente le condotte attive e omissive dello psichiatra. Cfr. anche Cass. pen., sez. IV, 14 novembre 2007, n. 10795.
[11] Come avvenuto in Cass. pen., sez. VI, 11 gennaio 2017, n. 8525.
[12] Cass. pen., sez. V, 20 giugno 2018, n. 50497.
[13] Non si ritiene invece integrabile l’abuso di mezzi di correzione o disciplina ex articolo 571 c.p. in quanto gli operatori sanitari non sarebbero provvisti di un vero e proprio ius corrigendi (cfr. Cass. pen., sez. VI, 5 dicembre 2007, n. 6581).
[14] Cass. pen., sez. IV, 6 novembre 2003, n. 10430.
[15] Cass. pen., sez. IV, 27 novembre 2008, n. 48292; Cass. pen., sez. IV, 12 febbraio 2013, n. 16975 (dove, pur affermandosi l’esistenza di una posizione di garanzia dello psichiatra anche rispetto le condotte autolesive del paziente, l’esito è assolutorio); Cass. pen., sez. I, 30 aprile 2015, n. 35814; Cass. pen., sez. IV, 14 giugno 2016, n. 33609.
[16] Ad es. Cass. pen., sez. IV, 27 novembre 2008, n. 48292, dove invero però si parla di «doveri di protezione e di sorveglianza del paziente in relazione al pericolo di condotte autolesive (e, naturalmente, eterolesive)».
[17] Ad es., Cass. pen., sez. IV, 20 aprile 2017, n. 28187; Cass. pen., sez. IV, 18 maggio 2017, n. 43476; e, da ultimo, Cass. pen., sez. IV, 25 maggio 2022, n. 24138.