Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c3
Al Centro dove viene inserito Marco, invece, l’intervento non è di questo tipo: l’attività prevalente è l’intreccio di cestini di vimini, svolta in un piccolo gruppo con altri due ragazzi aggregati per diagnosi. Marco – che ha finito l’ITIS da tre anni seguendo, seppure con obiettivi semplificati, il programma della classe – ha come compito quotidiano quello di dare da
{p. 82}bere alle tre piantine presenti nel centro con un bicchiere d’acqua. Tutte le attività si svolgono all’interno della struttura e in silenzio. All’esterno, sostengono gli operatori interrogati da Agata in proposito, è meglio per Marco evitare di andare prevalentemente a causa della difficoltà di frequentare luoghi pubblici, dove ci sono altre persone e dove ci potrebbe essere – magari – da fare una coda o attendere un turno. Marco, si sa, non sta fermo volentieri.
Non si tratta del percorso riabilitativo che la madre sperava e non risponde a quelli che fino ad ora sono i bisogni e i desideri che Marco ha manifestato, ma almeno è un’attività quotidiana: Agata, inizialmente, non pensa di sospendere la frequenza del Centro perché ha paura che Marco, restando a casa senza impegni, torni a non volersi alzare né vestire. Anche quando Marco inizia a dirsi insoddisfatto delle attività, dunque, la mamma tenta di convincerlo a restare. Marco, però non è di questa idea: fare i cestini con i vimini non gli piace e si annoia a svolgere attività ripetitive, sedentarie e senza contatto con l’esterno. Un giorno prende il cestino di vimini, lo mette in mezzo al tavolo e dice all’educatore: «Mi hai rotto le scatole, voglio andare via». L’episodio crea grande scompiglio e viene fortemente stigmatizzato: gli operatori chiamano subito la madre al telefono per lamentarsi del fatto che Marco – che in quel momento ha 24 anni – ha detto all’educatore «mi hai rotto le scatole».
In seguito a questo episodio, Agata manifesta la volontà di sospendere la frequenza di Marco al Centro, memore di ciò che, solo qualche anno prima, era accaduto quando aveva lasciato che Marco restasse in un contesto dove le relazioni si erano deteriorate. Ne parla con gli operatori che però non concordano: ritengono piuttosto che la frequenza di Marco debba continuare e che possa essere utilizzata una terapia farmacologica per superare le sue resistenze. Propongono, quindi, di contattare il Centro di Salute Mentale territoriale per iniziare a somministrargli una terapia volta a fargli sospendere quelli che vengono definiti «comportamenti di opposizione». Agata, perplessa rispetto alla soluzione proposta, parla con altre famiglie i cui figli frequentano il Centro, che le confermano che questa è la modalità usata di consueto: quando una persona manifesta la volontà di non restare nel Servizio, questa manifestazione viene classificata come «comportamento problema» e come tale trattato [Urbanowicz et al. 2019].
Agata non è contraria, in via di principio, a una terapia farmacologica: ha sempre una grande fiducia nei professionisti. Tuttavia, in questo momento della sua vita, Marco sta bene: non è agitato né nervoso, dice soltanto di non voler andare al Centro. Ma ha detto all’educatore «mi hai rotto le scatole» (usando davvero la parola «scatole», senza neanche una parolaccia) e questo episodio viene portato a testimonianza dell’aggressività del giovane, che va gestita farmacologicamente [Ianes e Cramerotti 2002]. {p. 83}
A questo punto, visto che Marco non vuole più andare a intrecciare i cestini di vimini e che, se resta al Centro, farà necessariamente la terapia, la mamma lo ritira. Neanche questa volta il Servizio sociale offre alcuna alternativa: l’intervento considerato appropriato per Marco è il Centro, e a fronte di un «rifiuto» non è disponibile nessuna altra opzione.

2. Un progetto personalizzato

Inizia così un anno molto difficile. Agata si domanda se ha fatto la scelta giusta a trasferirsi, le sembra di chiedere qualcosa che per tutti è una bizzarria: un progetto personalizzato per il figlio che parta dai suoi bisogni e desideri, che sia inserito nella comunità, che preveda un pensiero sul presente e sul futuro alternativo all’inserimento in struttura. Lentamente, mentre passano i mesi, con una caparbietà infinita, rimette insieme i pezzi. Cerca degli educatori che possano seguire Marco nel suo percorso quotidiano da assumere in forma privata. Da qui in poi la mamma e Marco devono provvedere autonomamente al costo – e all’organizzazione – dell’intervento.
I nuovi educatori lavorano con professionalità e dedizione, cooperando con la mamma, affinché Marco ricostruisca una quotidianità piena, intrisa di senso e in cui il tempo non sia speso sempre con Agata. Gradualmente e lentissimamente si passa da qualche minuto senza mamma (magari nascosta dietro una colonna al centro commerciale) a qualche ora, sempre nei luoghi di tutti: bar, strade, pizzerie. Fino ad arrivare a giornate intere ricche di incontri e impegni che Marco affronta serenamente senza Agata. Operatori e famiglia lavorano confrontandosi continuamente, si seguono i bisogni e i desideri di Marco e via via i risultati arrivano. Marco sembra stare sempre meglio: sempre di più riesce a uscire per i suoi nuovi impegni, sempre meno chiede di stare costantemente con la mamma.
Trascorrono cinque anni in cui Marco continua a lavorare secondo il progetto che gli educatori e la famiglia costruiscono insieme a lui: il progetto sostiene la sua vita che si volge, sempre, nel mondo di tutti.
Intanto, fin da quando Marco ha scelto di non frequentare più il Centro per l’autismo, l’obiettivo di Agata è stato quello di far accompagnare e sostenere dai Servizi sociali il loro progetto di vita. Non si trattava solo di chiedere al servizio di contribuire ai costi: il suo desiderio era far sì che questo percorso non restasse soltanto un’iniziativa privatistica, ma qualcosa di condiviso e – perché no? – che potesse aprire la strada anche ad altri che in quel momento non trovavano risposte nell’offerta tradizionale. Agata sa, inoltre, che i Servizi sociali hanno in carico Marco e costituiscono la migliore forma di garanzia che il suo percorso di vita sia seguito anche in {p. 84}futuro, quando lei non ci sarà più [Curto infra]. Il Servizio, tuttavia, ha sempre mostrato di applicare un modello largamente ancorato a quello medico, rifiutando semplicemente di considerare la volontà di Marco come uno degli elementi rilevanti nella costruzione del progetto [Wehmeyer 2019]: l’intervento si stabilisce in base alla diagnosi e alle valutazioni dei professionisti. L’unico criterio preso in considerazione per la scelta dell’intervento era l’appropriatezza [Curto 2021]: stava al professionista stabilire che cosa andasse bene per Marco. Lui e la famiglia potevano accettare o rifiutare, ma, una volta rifiutato, non vi erano alternative poiché l’unico intervento che il Servizio poteva offrire era quello ritenuto appropriato.
A questo punto, Agata presenta un’istanza all’Unità di Valutazione Multidimensionale (UVM) di sostegno personalizzato a Marco, sostenuta dalla relazione dello psichiatra che lo segue, che racconta il sostegno educativo messo in campo e che sottolinea come Marco abbia caratteristiche non compatibili con una struttura semiresidenziale o residenziale. La risposta scritta che ricevono è che l’UVM prende atto della relazione dello psichiatra, ma che sul territorio esistono strutture adeguate alle persone con le caratteristiche di Marco e quindi l’istanza viene respinta, accompagnata con una nuova proposta di inserimento in un Centro. Agata ne esce sconfortata. Innanzi tutto, le dispiace non riuscire a far prendere in considerazione ai Servizi che il soggetto non è lei, ma Marco. Il ragazzo non partecipa alle riunioni perché non sta fermo e, si sa, per partecipare alle riunioni bisogna stare seduti attorno al tavolo (nessun adattamento viene preso in considerazione per metterlo in condizione di partecipare). E quando Agata riporta il suo punto di vista, le cose che lui le dice a casa, gli episodi passati della sua vita, questi vengono trattati come poco significativi [Fragomeni 2016]. Agata è scoraggiata perché non riesce a uscire dalla posizione di mamma incontentabile in cui l’hanno collocata: «Non è che non voglio il Centro» – dice – «Che discorso è? È che Marco per le sue caratteristiche risponde meglio a un intervento che si svolga nella comunità di tutti, poiché lo scopo dell’intervento stesso è che lui sia inserito nella sua comunità». Nonostante i tentativi della mamma costanti, caparbi, ripetuti, il progetto che Marco sta vivendo quotidianamente per i Servizi socio-assistenziali non esiste.
Agata e Marco si trovano intrappolati in una lotta di potere che non è senza costi per loro. Ci sono i costi economici – Agata spende oltre 13.000 euro l’anno per sostenere l’intervento con Marco – ma non sono gli unici. Ci sono i costi relazionali: sentirsi alzare la voce contro, ripetere continuamente che non capisce, che è testarda e irragionevole. Ci sono i costi emotivi, quella incertezza rispetto al futuro, rispetto al momento in cui lei non ci sarà più a impedire – come ha cercato di fare fino a oggi – che Marco venga inserito in un contesto dove non desidera stare, {p. 85}dove l’espressione della sua volontà viene sistematicamente derubricata a sintomo [Bertani 2015].
Come avviene, ad esempio, per la falegnameria: una delle passioni di Marco che gli educatori raccolgono e attorno a cui organizzano delle esperienze. Questa attività gli piace di più rispetto a quelle frequentate in passato perché è finalizzata: si tratta di arrivare in un luogo per svolgere un lavoro e poi, quando il lavoro è terminato, si può andare via. Per Marco la differenza è enorme. Inoltre, in falegnameria l’oggetto che si condivide con gli altri è il lavoro, non il luogo, né la diagnosi. Questa attività, da sola, costa alla mamma 900 euro all’anno, che si sommano a quelli già spesi per l’accompagnamento educativo. La Regione in cui Marco vive prevede la possibilità di attivare dei percorsi (detti di «attivazione sociale sostenibile») che consentirebbero di dare una cornice formale – riconosciuta dal Servizio sociale – a questo impegno e allo stesso tempo alla madre di risparmiare quei 900 euro. Ma anche per l’attivazione di questa misura è il Servizio ad avere l’ultima parola. Il Servizio, tuttavia, rifiuta di utilizzare quello strumento, sostenendo che per attivarlo sia necessario l’accertamento delle capacità lavorative residue in base alla legge n. 68/1999 e propone di usare il contributo per le attività extra organizzate dal Centro diurno. Agata sa che non è così che è pensata la misura, che la famiglia può scegliere l’intervento, ma il Servizio non vuole sentire ragioni: la signora come al solito insiste! Agli incontri con l’assistente sociale si presentano in tre operatori, di nuovo si alza la voce. Intanto, nei verbali di questi incontri, ciò che viene scritto è che la mamma rifiuta ogni intervento e Agata non ha nessun controllo su quei documenti. Dopo diversi mesi di tentativi, a fronte di un quesito formale alla Regione, l’Ente risponde – com’è ovvio – che no, le capacità lavorative residue non sono richieste per svolgere un’attività che non è lavorativa. Di nuovo Agata è riuscita, da sola, a tenere sul binario della deistituzionalizzazione il percorso di vita del figlio, ma consumando denaro, tempo e fatica.
Agata non desiste nell’investire nel cercare di ottenere il riconoscimento, almeno parziale, del percorso di vita di Marco da parte del Servizio. Ad esempio, poiché il padre di Marco era dipendente pubblico, esiste la possibilità di ricevere un contributo mensile spendibile per attività come la falegnameria. Come per le altre misure, deve esserci il benestare del Servizio socio-assistenziale. La prassi prevista è però che quei fondi siano spesi per un’attività erogata da una cooperativa individuata dal Servizio, che non è quella dove Marco svolge l’attività. L’intervento che si può finanziare ha, inoltre, molti vincoli: non si può scegliere l’operatore, non si può negoziare l’orario, non si può spendere in un’attività precisa, ma in generiche ore di educatore che, inoltre, sono molto poche rispetto a quelle che Marco già utilizza (solo 3 a fronte delle oltre 30 che sono impegnate nel {p. 86}progetto personalizzato). Agata cerca di spiegare che l’accompagnamento educativo Marco ce l’ha già, che quelle 3 ore non servono nel progetto di Marco, mentre le sarebbe utile un aiuto a sostenere alcuni altri costi per le attività. Ma si trova per l’ennesima volta stretta all’angolo: l’intervento previsto dal programma prevede tre ore di educatore alla settimana: accetta o rifiuta? Agata accetta, pensando possa essere un modo per iniziare a far conoscere al Servizio come si svolge la vita di Marco.
Arriva l’educatrice inviata dal Servizio, scelta perché specializzata in autismo. L’unico orario in cui la cooperativa può fornire il servizio è l’ora di pranzo – tutti gli altri orari sono impegnati – ma l’operatrice, per suo mansionario, non può cucinare né mangiare con Marco e Agata. La famiglia si adatta, a volte modificando l’orario consueto del pranzo, a volte mangiando mentre l’operatrice li guarda, seduta al tavolo con loro ma senza toccare cibo e indossando i guanti. C’è poi l’area della relazione, che con Marco è un ambito delicato: lo stile dell’operatrice non sembra accordarsi con i suoi bisogni, ma Marco e Agata si adattano anche a quello. Agata è attenta a non lamentarsi di nulla perché è decisa a togliersi di dosso l’etichetta della «mamma che rifiuta l’intervento» e chiede a Marco di portare pazienza.
Un giorno squilla il telefono: è l’assistente sociale che chiede ad Agata la data del successivo appuntamento di Marco dallo psichiatra che lo segue. Agata glielo dice e poi, quando chiede come mai lo voglia sapere, si sente rispondere che la volta successiva sarebbero andate anche loro: l’assistente sociale e l’educatrice del pranzo. La mamma domanda come mai avessero intenzione di partecipare e subito l’assistente sociale sembra irritata: «Ma come? Chiede ancora perché? Non lo sa cosa è successo?».
No, Agata non lo sa. Ogni settimana, incontrando l’educatrice inviata dal Servizio, alla domanda come andasse con Marco si sentiva rispondere sempre che andava tutto bene.
Ma cosa è successo? È successo che l’educatrice del Servizio ha riferito che Marco un giorno ha detto: «Io uccido». L’assistente sociale, al telefono, è preoccupata: «E se poi prende per il collo qualcuno per strada?». L’operatrice, interrogata dalla mamma su perché non ne avesse parlato con lei, «rivela» ad Agata di essere stata inviata dal Servizio con una funzione prevalente di controllo e di avere avuto indicazione di riferire solo ai suoi superiori. L’episodio – anzi la pericolosità di Marco – diventa il tema di ogni conversazione con il Servizio [Tarantino 2016]. Cosa sia veramente successo non si riesce a ricostruire. Marco ha veramente detto questa frase? L’ha fatto per spaventare l’educatrice? Per scherzare? Per farla andare via? In quale circostanza l’ha detta? Stava riflettendo ad alta voce, come a volte fa? O ripetendo frasi di film, come anche fa alcune volte?
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Note