Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c3
Ma cosa è successo? È successo che l’educatrice del Servizio ha riferito che Marco un giorno ha detto: «Io uccido». L’assistente sociale, al telefono, è preoccupata: «E se poi prende per il collo qualcuno per strada?». L’operatrice, interrogata dalla mamma su perché non ne avesse parlato con lei, «rivela» ad Agata di essere stata inviata dal Servizio con una funzione prevalente di controllo e di avere avuto indicazione di riferire solo ai suoi superiori. L’episodio – anzi la pericolosità di Marco – diventa il tema di ogni conversazione con il Servizio [Tarantino 2016]. Cosa sia veramente successo non si riesce a ricostruire. Marco ha veramente detto questa frase? L’ha fatto per spaventare l’educatrice? Per scherzare? Per farla andare via? In quale circostanza l’ha detta? Stava riflettendo ad alta voce, come a volte fa? O ripetendo frasi di film, come anche fa alcune volte?
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Nulla di tutto questo si riesce a capire. Pare che sia successo diverse settimane prima, quindi con Marco non si riesce a parlarne. Ma non importa ormai cosa è accaduto: la notizia della pericolosità di Marco si propaga velocemente. La responsabile della cooperativa domanda all’educatrice «Ma secondo te può prendere un coltello e ammazzare qualcuno?». Si inizia a far strada l’idea che Marco vada rinchiuso, in quanto pericoloso; si conferma l’indirizzo degli operatori del Centro diurno, che preferivano non portarlo fuori. L’episodio, così vago e non meglio declinato, resta nell’aria, inserendo un ulteriore tassello che mette Marco a rischio di istituzionalizzazione senza che sia possibile fare niente per modificare la situazione. Agata di nuovo si batte, parla con tutti, lo psichiatra, l’educatrice, l’assistente sociale, la referente della cooperativa fino a che riesce a ottenere dallo psichiatra che tranquillizzi l’assistente sociale. Chiede anche la sospensione dell’intervento, rinunciando al fondo a cui aveva diritto e ritrovandosi in cartella l’ennesimo «rifiuta».

3. Oggi

Marco oggi ha trent’anni e vive nella sua cittadina. Lui e la madre abitano lì da otto anni e Marco è conosciuto da tutti. Il progetto personalizzato con cui è sostenuto prevede un intenso lavoro sul contesto [Curto e Marchisio 2022]: contatti continui con le persone da parte dell’educatore privato che oggi lo segue, finalizzati a consentire di creare un ambiente relazionale che consenta a Marco di partecipare pienamente alla vita della sua comunità. L’educatore sostiene le persone a comprendere le caratteristiche di Marco e, a mano a mano, la comunità si fa più partecipe del suo percorso di vita. La giornata di Marco oggi ha un senso, le sue attività sono finalizzate e gli piacciono, le persone lo riconoscono e lo conoscono: sanno che non sempre si ferma, che cammina in fretta, sanno che capisce che cosa gli si dice anche se non sempre risponde. I suoi concittadini hanno strategie per consentirgli di partecipare, con le sue caratteristiche, alla vita di tutti i giorni. Come il pizzaiolo che ascolta l’ordinazione urlata mentre Marco passa e poi, quando ripassa sempre camminando in fretta, gli porge al volo la pizza che ha chiesto. In questo modo Marco può sperimentarsi, provare cose nuove, esperire quello che desidera, incontrare, tessere legami. Si tratta di un lavoro di traduzione e mediazione, che consente alle persone di superare la naturale diffidenza iniziale: «La differenza spiazza, ma poi invece le persone sono contente» dice Agata. Marco viene conosciuto come individuo, con la sua storia, le sue caratteristiche, anche quelle più particolari, non come «autistico» (schizofrenico, psicotico ciascuno peschi la diagnosi che preferisce...) né in una {p. 88}dimensione di gruppo – «i ragazzi disabili» – che tende necessariamente a letture stereotipate. Le persone riconoscono i frutti del percorso: «Da quando lavorate così ha fatto un cambiamento enorme» dice la segretaria del medico, con la quale Marco non manca di scambiare qualche parola ogni volta che va a ritirare le ricette. Alla costruzione del progetto ormai Marco partecipa pienamente: le riunioni si svolgono in un cortile con un porticato, sotto il quale Marco può camminare mentre ascolta che cosa si dice e dal quale può gridare i suoi interventi, le risposte alle domande, la sua opinione sulle attività proposte, sempre senza fermarsi.
Marco ha una settimana piena e di senso, scelta e modellata sulla base dei suoi desideri e delle relazioni che a mano a mano costruisce. Si occupa della spesa per casa sua e fa anche la spesa all’ingrosso per un piccolo negozio: va a farsi dare la lista, poi va al mercato a fare gli acquisti, compreso il pane che il negozio rivende e, infine, consegna il tutto ai clienti. Poi, porta il pane a un architetto che ha lo studio un po’ fuori dal centro – così gli risparmia il tragitto – e quando è necessario va al mulino a prendere la farina per il gruppo d’acquisto solidale del paese che, a volte, gli chiede anche di dare una mano con la verdura.
Nella primavera 2020, quando c’è stato il lockdown per il COVID-19, Marco si è messo al servizio degli anziani del paese portando la spesa a domicilio a coloro per cui era rischioso uscire. Anche in quell’occasione non ha smesso di camminare tutto il giorno. La falegnameria è ancora un suo interesse, tanto che se ne occupa in un centro di aggregazione cittadino – aperto a tutti, dove ci sono sale studio, sala prove, luoghi di svago e conversazione – in cui fa lavoretti di manutenzione, dove ha messo a posto il giardino e dove tutti lo conoscono: è sereno nel parlare con quelli che incontra e sta in mezzo alla gente rendendosi utile. Non sta mai fermo, come non stava mai fermo prima, ma qualcosa è cambiato: il suo costante muoversi non è più un sintomo da sopprimere – perché incompatibile con la routine della struttura – ma è ciò che gli consente di contribuire alla vita della sua comunità. Ha scoperto che la passione per il cammino non è solo sua: organizza spesso – con il sostegno dei suoi educatori – delle gite in montagna, in estate qualche grigliata. Alle volte si alza al mattino e, mentre si prepara, inizia a pensare ad alta voce alle cose che avrà da fare, camminando avanti e indietro per la casa, mentre aspetta l’educatore. Agata è colpita da quei momenti: dice che è come se lei non ci fosse. Che cambiamento da quando ha iniziato restando nascosta dietro la colonna un minuto alla volta perché lui non riusciva a stare senza di lei!
E mentre gira per il paese portando i sacchi di pane e farina forse nessuno direbbe che è lo stesso ragazzo che stava chiuso in casa senza alzarsi e cambiarsi per dei mesi. Marco oggi è libero. «Se diciamo libertà» – dice {p. 89}Agata – «riassumiamo tutto». Marco oggi sta bene, ed è anche questo suo stare bene che consente di immaginarsi scenari nuovi, di continuare a lavorare per la strada che è ancora da fare. E il futuro?
Marco abita ancora con la madre. Sono questi gli anni in cui si costruisce la sua possibilità futura di vivere una vita da adulto, in un abitare liberamente scelto. In questo senso, la storia di Marco consente di evidenziare alcuni fattori che concorrono a costruire l’imbuto verso l’istituzionalizzazione [Curto infra], che in questa vicenda sono incarnati in modo didascalico dai diversi personaggi. È possibile, infatti, ripercorrendo le vicende di questi dieci anni, individuare sequenze progressive di elementi concatenati uno all’altro, che gradualmente incrementano l’assetto istituzionalizzato della sua esistenza. La scelta, prima solo accennata, poi a mano a mano sempre più univoca, dell’inserimento al Centro come prospettiva di futuro dopo la scuola; il malessere di Marco che viene silenziato, il suo dissenso derubricato a sintomo che la risposta trasforma in uno stare male reale, incontrovertibile, che a sua volta tautologicamente dimostra la necessità dell’istituzionalizzazione ulteriore della sua esistenza.
A questo si aggiungono una serie di elementi coesistenti con questi processi, che ne rendono fluido e stabile il dipanarsi nel tempo. Ci interessa osservarli poiché uno dei principali ostacoli al ricorso all’istituzionalizzazione è l’individuazione di alternative. Osservare solo l’esito del percorso di vita, analizzando la persona in modo individualistico e puntuale al momento della scelta del luogo in cui vivere rende infatti complicato individuare soluzioni di deistituzionalizzazione. Capita di trovarsi davanti una persona che abita magari ancora in famiglia, e si intuisce – spesso non a torto – che anche prendendo in considerazione tutte le opzioni disponibili di abitare, la sua vita non può più svolgersi in modo deistituzionalizzato: l’istituzionalizzazione non è un luogo, ma un sistema di relazioni e di condizioni di esperienza. Si tratta del processo che Agata cerca caparbiamente di contrastare, seguendo l’espressione dei desideri di Marco, quel processo attraverso cui i cluster di graduale esclusione sociale della persona – fin dall’infanzia e talvolta prima della nascita, alla scoperta della diagnosi – vengono riempiti dalla copertura di ruoli e legami sociali da parte di soggetti professionalizzati o di contesti speciali. Si tratta di un irrigidimento da cui è molto complicato tornare indietro, ma è questa direttrice a determinare una divergenza primaria dal concetto «sulla base di uguaglianza con gli altri», affermato dalla Convenzione ONU.
Questo processo può culminare in una sostituzione dell’abitare a casa propria con un abitare in un Servizio (o di un abitare volontario con un abitare involontario) ma inizia molto prima. Nella vita di Marco, il reindirizzamento continuo a Centri e contesti speciali rende visibile e concreto {p. 90}questo meccanismo, evidenziato ancora meglio grazie alla costante e parallela messa in campo di modalità deistituzionalizzanti da parte di Agata, che ricostruisce ogni volta un mondo di relazioni ed esperienze laddove la risposta istituzionale è radere al suolo ogni embrione di capitale relazionale. Le persone con disabilità vivono immerse – e la storia di Marco lo mostra continuamente – in un ambiente in cui fenomeni sistematici di silenziamento e discapacitazione generano le condizioni perché le loro voci non siano necessariamente contraddette o contestate, ma diventino inudibili [Curto 2022]: non siano più neanche riconosciute come voci. È il confluire di tutti questi processi, che sono micro-deviazioni, risposte, rivoli di differenza nella lettura di un comportamento o di una parola, che rende l’istituzionalizzazione un fiume inarrestabile: ci si ritrova, quando la persona ha 40 o 50 anni, a un bivio in cui si ha uno spazio di manovra tanto ristretto da far apparire l’istituzionalizzazione come l’unica strada realmente praticabile.
Per ora, Agata sta riuscendo a tenere in piedi la rete, a tenere l’universo quotidiano del figlio aperto e flessibile. Per farlo, da dieci anni ormai consuma ogni suo capitale: economico, relazionale, culturale. Se la vita di Marco tiene è perché, in modo fortuito, questi capitali partivano da un livello alto: la famiglia era benestante, i genitori più che laureati, la madre capace di mediare e costruire relazioni. Si vede chiaramente, nella storia di Marco, come siano le risorse che lei mette in campo a tenere Marco fuori dall’istituzionalizzazione. Anche Agata lo vede ed è nel vederlo che percepisce chiaramente quanto questo orizzonte individuale sia precario.

4. Epilogo

La battaglia di Agata e Marco non si è fermata nel punto dove si ferma questa storia. La famiglia è sempre rimasta in contatto con il gruppo di ricerca e si è mantenuto costante lo scambio.
Nel gennaio 2023, otto anni dopo l’inizio di questa storia, proprio mentre questa ricerca si sta sviluppando, Agata ci scrive:
Buongiorno,
come vi avevo anticipato, scrivo per aggiornare la situazione del progetto di vita di Marco.
Dal settembre 2022 ho deciso di utilizzare un solo educatore anziché due, per vari motivi. Ma soprattutto perché il mantenimento di due educatori per me stava diventando eccessivamente oneroso, tenuto conto anche dei continui aumenti del costo della vita. Ho scelto di far rimanere M.R. che, come ho avuto modo di osservare, è l’operatore che più si è messo in sintonia col progetto d vita.
Contestualmente sono andata avanti sul piano legale, non voglio annoiarvi con i vari passaggi legali, ora siamo a questo punto: abbiamo chiesto in maniera diciamo «stringente» alla Unità Multidisciplinare di Valutazione della Disabilità {p. 91}di destinare il budget che sarebbe previsto per l’istituzionalizzazione al finanziamento del progetto di vita e contestualmente dare una ufficialità al progetto.
Giovedì 19 gennaio c’è stato un incontro a tre, l’assistente sociale, la dottoressa del Centro autismo ed io.
Il Centro autismo desidera svolgere con Marco una valutazione, l’assistente sociale mi ha posto questo passaggio come necessario per poter portare in UMVD il progetto e dare una ufficialità.
Anche se questo passaggio non mi convince fino in fondo, ho dato l’assenso, altrimenti poi iniziano a dire che la famiglia non collabora, e diventa un cane che si morde la coda...
Marco farà una sola seduta di valutazione (mi hanno detto che gli faranno fare un lavoro di classificazione) e potrà essere accompagnato dal suo assistente personale. Daranno anche un questionario incrociato a me e uno all’educatore [...].
Continua...
Note