Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c16
Inoltre, l’intervento del giudice tutelare in ambito sanitario, sulla base della normativa come ricostruita nel precedente paragrafo, appare limitato – come si è detto – alla decisione in particolari contingenze circa la necessità di compiere un singolo trattamento sanitario, ma in nessuna disposizione la legge n. 219/2017 conferisce al giudice tutelare il potere di intervenire forzando un ricovero prolungato della persona in una struttura sanitaria. Ciò in considerazione del fatto che, anche laddove venga posto in essere un internamento non volontario, questo non potrà implicare di per sé un’autorizzazione incondizionata e generale al trattamento sanitario senza il consenso della persona [47]
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In questo senso, non si vede come il provvedimento di autorizzazione del giudice tutelare potrebbe superare il dissenso espresso dal beneficiario all’ingresso in una struttura di cura e assistenza, se non ponendosi in contrasto con le norme esistenti e, in particolare, con la ratio ispiratrice della legge n. 180/1978 che ha abolito i cosiddetti ricoveri coatti, consentendoli esclusivamente nell’ambito del trattamento sanitario obbligatorio per persona affetta da malattia mentale e comunque limitandoli entro una finestra temporale particolarmente breve e predeterminata per legge (sette giorni).
Gli assunti su cui si basa l’orientamento in contestazione, infine, risultano fallaci anche per quanto concerne il superamento del dissenso della persona beneficiaria, in quanto presunto assente in certi casi (ad esempio nelle ipotesi di disabilità per ritardo mentale grave) o ritenuto viziato in altri (ad esempio in presenza di una grave malattia psichiatrica), nell’errata convinzione dell’ammissibilità di un potere sostitutivo del rappresentante con riguardo alla libertà personale.
Occorre, infatti, non cadere nella trappola di interpretare la volontà e la libertà secondo il vecchio retaggio della validità giuridica: affermare che il paziente psichiatrico o disabile non ha un’autodeterminazione e non subisce restrizioni alla libertà personale per il solo fatto che la sua opposizione non è giuridicamente valida significa riproporre il fondamento caratterizzante dell’ordinamento manicomiale, che la c.d. legge Basaglia aveva inteso abrogare [Dalla Balla 2022].
Va, dunque, negata in radice qualsivoglia possibilità di delegare a terzi una decisione attinente la sfera della libertà personale di un soggetto al di fuori dei limiti costituzionali sanciti dall’articolo 13, ai sensi del quale la libertà personale è inviolabile e può essere limitata solo nei casi e modi previsti dalla legge e su apposita decisione di un’autorità giudiziaria (riserva di legge assoluta e riserva di giurisdizione).
A ben vedere, i limiti sanciti dall’articolo 13 Cost. non possono essere superati mediante il ricorso a interpretazioni analogiche degli articoli 358 e 371 c.c. come quelle utilizzate dai giudici tutelari che ammettono la pratica del cosiddetto ricovero coatto. Gli unici casi espressamente disciplinati in materia sono quelli del trattamento sanitario obbligatorio per salute mentale sopra analizzato.
Una simile interpretazione risulta, peraltro, inevitabilmente contraria allo spirito della Convenzione di New York e, in particolare, all’articolo 19, che sancisce il «diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella società con la stessa libertà di scelta delle altre persone».
Medesime considerazioni devono, ad ogni modo, valere per quanto concerne la misura dell’interdizione. Nella misura in cui si afferma l’asso{p. 402}lutezza del principio per cui non è ammessa la sostituzione in materia di libertà personale al di fuori dei limiti di cui all’articolo 13 Cost. non vi è ragione, infatti, di ritenere che tale principio debba subire delle eccezioni per effetto dell’applicazione della misura dell’interdizione. In tal senso, va pertanto censurata la decisione di taluni Giudici di applicare la predetta misura per il solo fatto che la stessa è «l’unico strumento che legittimi una collocazione protratta, anche contro la volontà dell’interessato e che legittimi una sostituzione al paziente nel consenso a terapie e trattamenti sanitari e chirurgici [...] ovvero nella scelta di modalità assistenziali» [48]
. Si tratta di un orientamento che va assolutamente contrastato in quanto – oltre che basato su argomentazioni giuridiche del tutto censurabili per le ragioni sopra indicate – si denota per il demerito di ritornare alla preferenza per modelli prettamente sostitutivi, in contrasto con la più recente evoluzione giuridica ricordata nei precedenti paragrafi.
Come si vedrà meglio nel proseguo, precisi limiti alla possibilità di disporre l’internamento di un soggetto incapace contro la sua volontà sono, peraltro, stabiliti anche in ambito sovranazionale dall’articolo 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come interpretati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo [49]
. {p. 403}

5.3. L’amministrazione di sostegno come nuova forma di istituzionalizzazione

Il diffondersi di interpretazioni errate della normativa sopra richiamata rischia, dunque, di legittimare un utilizzo strumentale dell’amministrazione di sostegno, volto unicamente a consentire l’istituzionalizzazione del soggetto beneficiario.
Risulta, invero, sempre più frequente la presentazione di ricorsi, specie su segnalazione dei servizi socio-sanitari territoriali, volti all’apertura dell’amministrazione di sostegno, affinché il rappresentante legale esprima, in nome e per conto del beneficiario, il consenso a un inserimento in una struttura di assistenza e/o di cura [50]
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È stato osservato [Dalla Balla 2022] che l’amministrazione di sostegno si palesa, di fatto, come una forma di coercizione terapeutica, al pari del TSO, con possibilità di conferire all’amministratore di sostegno un potere meno formalizzato, ma potenzialmente molto più penetrante di quello altrimenti esercitabile per mezzo del trattamento sanitario obbligatorio [51]
. Prova di ciò si rinviene nel fatto che, talvolta, l’amministrazione di sostegno è stata utilizzata per imporre il ricovero e le cure psichiatriche in proroga del TSO, oltre i limiti previsti dall’articolo 34 della legge n. 833/1978 [52]
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È il caso della decisione del Tribunale di Cosenza, ove si è ritenuto che
ove il beneficiario, affetto da patologie mentali, manifesti il proprio dissenso [...] in ipotesi di T.S.O. nulla osta [...] acché – prossima a cessare l’urgenza che ha imposto il trattamento [...] – l’amministrazione di sostegno valuti, d’intesa con i responsabili del Centro di Salute Mentale, la necessità di richiedere una temporanea protrazione del ricovero in regime volontario, presso la stessa struttura ovvero altra extra-ospedaliera, prestando all’uopo il proprio consenso [53]
. {p. 404}
È stato osservato che una simile decisione, da un lato, «appare di fatto ampiamente elusiva della normativa sui ricoveri psichiatrici» riaprendo la strada «alla realtà della lungodegenza coatta» [Pelazza 2013], e dall’altro, si pone in contrasto con il principio di determinatezza di cui all’articolo 32, comma 2, Cost. secondo cui nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Su tale ultimo aspetto va, in particolare, rammentato che la legge deve prevedere in modo sufficientemente preciso il tipo di trattamento sanitario a cui il soggetto è obbligato a sottoporsi: con la conseguenza che si profila illegittimo obbligare un malato psichiatrico a sottoporsi a un trattamento di lungodegenza di sei mesi sulla base della legge istitutiva dell’amministratore di sostegno, la quale non contempla alcuna tipologia, individuata in modo sufficientemente preciso, di trattamento sanitario [Daly 2020] [54]
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Se in molti casi pratici quella dell’istituzionalizzazione forzata, suggerita dall’amministratore di sostegno ovvero dal personale socio-sanitario, risulta prospettata come l’unica via percorribile per un’effettiva tutela del soggetto beneficiario dell’amministrazione di sostegno, altre volte i presupposti determinanti la decisione vengono rinvenuti in una presunta pericolosità del soggetto per se stesso o per gli altri.
La valutazione sulla pericolosità, tuttavia, come è noto, non rientra nelle competenze del giudice tutelare, ma appartiene esclusivamente al giudice penale secondo le norme che disciplinano l’applicazione delle misure di sicurezza. Solo il giudice penale dispone, peraltro, dei poteri coercitivi necessari ad avvalersi – nel caso delle misure custodiali – della forza pubblica ai fini della loro applicazione. Una simile considerazione, peraltro non di pertinenza del giudice tutelare, non può dunque fondare alcuna misura coatta: al più – in caso di sospetta pericolosità sociale del soggetto beneficiario dell’amministrazione di sostegno – la situazione potrà essere segnalata alla Procura della Repubblica per la richiesta di un’eventuale misura di sicurezza penale, anche in via provvisoria.
Va allora evitato che l’amministrazione di sostegno si presti a diventare una forma di coercizione (anche terapeutica) del tutto avulsa dai principi costituzionali, sempre tenendo conto che i provvedimenti coercitivi in questione sono raramente gravati avanti all’autorità giudiziaria, a fronte della posizione di sostanziale subordinazione del beneficiario e dalla limitata capacità di questi di azionare i propri diritti, posto che chi lo rappresenta {p. 405}giuridicamente per l’accesso alla giustizia è lo stesso titolare del potere coercitivo che si intenderebbe sottoporre a gravame [55]
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Occorre, a completamento dell’argomentazione, evidenziare che in talune ipotesi il ricovero presso una struttura di cura e/o assistenza è proposto non solo laddove vi sia necessità di garantire una piena aderenza alla terapia da parte del soggetto, ma anche nel caso in cui non siano o non possano essere efficacemente attivati quei servizi (per esempio, di tipo domiciliare) che consentirebbero alla persona di rimanere in un contesto abitativo autonomo, con la presenza di un adeguato supporto di cura e assistenza.
Proprio sulla scorta di tali considerazioni, si intuisce il rischio di un utilizzo fortemente incapacitante della misura dell’amministrazione di sostegno, rischio maggiormente accentuato con riguardo a soggetti con disabilità che non rientrano nel circuito prettamente psichiatrico e, dunque, nei limiti comunque tracciati dalla legge per le misure più prettamente coercitive (TSO e misure di sicurezza), le uniche a essere assistite da un quadro di garanzie legislative e costituzionali. Per questi soggetti – che non rientrano nel circuito psichiatrico – l’amministrazione di sostegno può potenzialmente assumere effetti estremamente limitanti per la libertà personale, consentendo un ricovero ad libitum, con forme di controllo del tutto discrezionali rimesse alla sensibilità del singolo giudice tutelare, non essendo previsto alcun obbligo di revisione giurisdizionale del provvedimento di c.d. ricovero coatto: revisione a cui lo stesso beneficiario non sa spesso di aver diritto.
Su tale ultimo aspetto, merita brevemente soffermarsi sulla conformità di tali pratiche alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), così come interpretata dalla Corte di Strasburgo.
In primo luogo, merita citare la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Stanev c. Bulgaria [56]
: in questa pronuncia la Corte, oltre a ritenere la sussistenza del trattamento inumano o degradante nei confronti di una persona con disabilità psichica, parzialmente interdetta e posta sotto tutela, con internamento coattivo in istituto per
{p. 406}pazienti psichiatrici in luogo di montagna remoto, con cibo insufficiente e di cattiva qualità, in edificio con riscaldamento inidoneo, con toilette in stato non dignitoso e docce prive di minimi requisiti di igiene e disponibili una sola volta a settimana, ha considerato violate anche varie disposizioni contenute nell’articolo 5 in tema di libertà e sicurezza. In particolare, la detenzione è stata ritenuta non giustificata ai sensi dell’articolo 5, par. 1, lett. e), della CEDU non emergendo che si trattasse di «alienato», dato il biennio trascorso tra la perizia psichiatrica e il ricovero, senza che il tutore si interessasse di accertare se vi fossero cambiamenti nelle condizioni di salute; inoltre, non vi era stata per l’interessato la possibilità di richiedere il riesame in sede giudiziaria della misura (art. 5, par. 4) né di richiedere un indennizzo (art. 5, par. 5).
Note
[47] Consiglio d’Europa, Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT), Internamenti forzati negli istituti psichiatrici, estratto dall’8o rapporto generale del CPT, pubblicato il 1998, reperibile sul sito: https://rm.coe.int/16806cd433.
[48] Cfr. Tribunale di Savona, 12 febbraio 2021.
[49] Articolo 5 CEDU: «1. Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge: a) se è detenuto regolarmente in seguito a condanna da parte di un tribunale competente; b) se si trova in regolare stato di arresto o di detenzione per violazione di un provvedimento emesso, conformemente alla legge, da un tribunale o allo scopo di garantire l’esecuzione di un obbligo prescritto dalla legge; c) se è stato arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi all’autorità giudiziaria competente, quando vi sono motivi plausibili di sospettare che egli abbia commesso un reato o vi sono motivi fondati di ritenere che sia necessario impedirgli di commettere un reato o di darsi alla fuga dopo averlo commesso; d) se si tratta della detenzione regolare di un minore decisa allo scopo di sorvegliare la sua educazione oppure della sua detenzione regolare al fine di tradurlo dinanzi all’autorità competente; e) se si tratta della detenzione regolare di una persona suscettibile di propagare una malattia contagiosa, di un alienato, di un alcolizzato, di un tossicomane o di un vagabondo; f) se si tratta dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento d’espulsione o d’estradizione. 2. Ogni persona arrestata deve essere informata, al più presto e in una lingua a lei comprensibile, dei motivi dell’arresto e di ogni accusa formulata a suo carico. 3. Ogni persona arrestata o detenuta, conformemente alle condizioni previste dal paragrafo 1c del presente articolo, deve essere tradotta al più presto dinanzi a un giudice o a un altro magistrato autorizzato dalla legge a esercitare funzioni giudiziarie e ha diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere messa in libertà durante la procedura. La scarcerazione può essere subordinata a garanzie che assicurino la comparizione dell’interessato all’udienza. 4. Ogni persona privata della libertà mediante arresto o detenzione ha il diritto di presentare un ricorso a un tribunale, affinché decida entro breve termine sulla legittimità della sua detenzione e ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegittima. 5. Ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione di una delle disposizioni del presente articolo ha diritto a una riparazione».
[50] Cfr. sul punto: Tribunale di Chieti, 22 gennaio 2022; Tribunale di Chieti, 28 gennaio 2023.
[51] L’autore ritiene, in particolare, che l’amministrazione di sostegno e il TSO, sebbene abbiano presupposti diversi, «non si pongono, tuttavia, nel senso di reciproca indipendenza ed esclusione, sicché i relativi perimetri applicativi arrivano ad intersecarsi, ponendo in capo all’amministratore di sostegno un potere meno “formalizzato” (in quanto attivabile senza che debbano ricorrere tutti i presupposti di cui all’art. 34), ma potenzialmente più penetrante (in quanto assistito da un minore apparato di garanzie, in ordine alla durata, al controllo giudiziario ed alla ricorribilità delle misure in questione».
[52] Ex multis: Tribunale di Catania, 22 settembre 2006; cfr. in particolare: Tribunale di Bari, 27 dicembre 2006, ove il giudice tutelare ha autorizzato l’amministratore di sostegno di una ragazza, che manifestava depressione e anoressia grave, ad esprimere il consenso al ricovero in ospedale in sostituzione della beneficiaria. Il giudice barese ha disposto «l’immediato ricovero coatto» della beneficiaria, prevedendo contestualmente «il divieto di contatto e/o colloqui anche telefonici» con i familiari, ed incaricando i Carabinieri del luogo di prestare «prontamente ogni collaborazione all’a.d.s. [...] per l’inserimento coatto in idonea struttura» e «ricondurre prontamente» la beneficiaria in ospedale in caso di allontanamento non autorizzato.
[53] Tribunale di Cosenza, 28 ottobre 2004.
[54] L’autore rileva, altresì, che nella fattispecie sottesa alla decisione del Tribunale di Cosenza in commento, anche l’applicazione della misura dell’interdizione sarebbe stata elusiva della c.d. legge Basaglia nonché «passibile delle medesime critiche in ordine al rispetto del principio costituzionale di determinatezza dei trattamenti sanitari obbligatori [...] poiché le norme che disciplinano l’interdizione non individuano certo una precisa tipologia di trattamenti sanitari a cui il soggetto interdetto possa essere obbligatoriamente sottoposto».
[55] Sul punto va rammentato che la Corte di Cassazione, con la recente ordinanza n. 5380 del 27 febbraio 2020, ha chiarito che, anche nel caso di amministrazione di sostegno in cui sia prevista la rappresentanza necessaria per il compimento di atti di straordinaria amministrazione, il beneficiario conserva «un’autonoma legittimazione processuale non solo ai fini dell’apertura della relativa procedura ma anche per impugnare i provvedimenti adottati dal giudice tutelare nel corso della stessa, essendo invece necessaria l’assistenza dell’amministratore di sostegno e la previa autorizzazione del giudice tutelare, a norma del combinato disposto degli articoli 372, n. 5, e 411 c.c. per l’instaurazione dei giudizi nei confronti di terzi estranei a tale procedura».
[56] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Grande Camera, Stanev c. Bulgaria (n. 36760/06), 17 gennaio 2012.