Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c11
Nel godimento della condizione di libertà, gli status soggettivi tornano a essere rilevanti quali posizioni (non condizioni) [Fassin 2019, 169] individuali all’interno di una gerarchia sociale che tuttavia, celato il contesto, rimane invisibile. In questo modo, spariscono le meccaniche del potere che determinano quelle posizioni: non rileva all’interno di quali reti di
{p. 266}relazioni quel soggetto, dotato di quello status, è inserito, e diviene insignificante il fatto che all’interno di quel contesto una persona sia posta in condizione di assoggettamento/asservimento e dunque sia – per le più diverse ragioni – nella disponibilità di altri.
Se il contesto scompare, il nesso libertà-soggetto diviene appunto esclusivo e, di conseguenza, l’unica dimensione della libertà che rileva è quella dipendente dall’esercizio dell’autonomia. Non a caso il neoliberalismo iper-valorizza la scelta individuale [17]
: le condizioni in cui si sceglie non contano, poiché chi sceglie è presunto libero [Facchi e Giolo 2020, 23 ss.].
La libertà è così intesa non più quale principio che determina l’assenza di forme di assoggettamento alla volontà altrui, ma come mera espressione della propria autonomia, ovvero della propria «libertà di scelta». Tale operazione «riduzionista» presenta, come è facilmente intuibile, notevoli implicazioni e soprattutto permette di recuperare e rilegittimare – sul piano retorico, ma sempre più spesso anche in ambito giuridico e politico – forme di assoggettamento in cui è fortemente limitata la libertà personale. La tendenza sembrerebbe condurre infatti a una iper-valutazione dell’autonomia individuale sino a permettere che, in ragione di essa e senza alcun sindacato in merito alle modalità della determinazione della scelta, la persona possa decidere di porsi in una condizione di assoggettamento e di autosfruttamento (ad esempio, in ambito lavorativo, [cfr. Moulier Boutang 2012; Mazzone 2021]). Si genera così una libertà paradossale, in cui il soggetto si «abbandona alla libertà costrittiva o alla libera costrizione» [Han 2020, 29].
Nell’assetto neoliberale, pertanto, pare essere divenuta accettabile l’attribuzione ai singoli soggetti di status che ammettono, senza particolare tensione, la compresenza di una titolarità formale della libertà e una condizione (sostanziale, ma sempre più spesso giuridicamente lecita) [18]
di asservimento.
Inoltre, in ragione della «scelta» sembrano divenire irrilevanti, per un verso, l’indagine sull’ingerenza altrui nella determinazione delle decisioni e, per altro verso, il tema dei limiti opponibili alla stessa possibilità di scegliere, probabilmente anche a causa di un progressivo spostamento del tema della libertà dal piano politico a quello morale. Nell’ordine {p. 267}neoliberale, infatti, la sfera politica è a sua volta oggetto di operazioni riduzioniste che comportano lo svuotamento della sua funzione a vantaggio dello spazio privato: lo scivolamento del problema della libertà dalla sfera politica-pubblica a quella esclusivamente morale-privata, con la conseguente scomparsa del tema del potere, appare in linea con tali processi. Sul piano politico, la libertà pone invero la questione del dominio e favorisce l’emersione delle relazioni di potere (pubbliche e private) che si sviluppano all’interno di un dato ordine politico; in ambito morale, invece, questi aspetti passano in subordine, soverchiati dal dilemma valoriale [19]
. Orbene, la «scelta» individuale viene intesa, in questo quadro, principalmente come espressione di una decisione personale (morale e privata), non sindacabile e dunque nemmeno regolabile, limitabile, orientabile dal diritto e dalle istituzioni (pubbliche). Anzi, diritto e istituzioni, in quanto espressione della sfera pubblica, debbono astenersi e lasciare ai singoli il più ampio spazio di manovra.
Tutto ciò può apparire non propriamente come una novità. Relegando le scelte al piano morale, al fine di non renderle controllabili e gestibili dal potere (statale), il pensiero liberale ha inteso difendere con forza la necessità di limitare il più possibile l’intervento pubblico, al fine di scongiurare ogni politica di impianto paternalista e/o autoritario. Eppure, a ben vedere, la nuova concezione della libertà assume toni diversi rispetto alla tradizione classica del liberalismo, e probabilmente per un motivo preciso: essa ignora e/o ridimensiona quel nesso esistente tra libertà, eguaglianza e relazioni di potere evidenziato dall’avvento dei diritti e, a livello teorico, abbondantemente indagato nell’ambito degli studi critici sul diritto [20]
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3. Libertà in relazione

Nella rappresentazione classica della libertà, il soggetto definito libero è colui che non è nella disponibilità di altri (dunque è «proprietario di sé» [Facchi 2018]) e può agire di conseguenza secondo la propria volontà e senza l’interferenza altrui, prescindendo dalla volontà degli altri, e, per estensione, dagli altri [21]
.{p. 268}
La libertà, in questa visione, definirebbe pertanto uno spazio individuale all’interno del quale il soggetto esercita, in solitudine, la propria autonomia.
Questa concezione non presume la relazione bensì la sua assenza. Anzi, la relazione, intesa sempre come dipendenza, sembra caratterizzare la violazione della libertà: nel momento in cui non si è completamente autonomi perché dipendenti da altri – per le più diverse ragioni – non si è tradizionalmente considerati liberi. La libertà massima si concretizzerebbe, pertanto, esclusivamente nel momento in cui non vi sono altri soggetti con cui interagire. Viceversa, la relazione con altre persone implicitamente determina dipendenza e mina costantemente la possibilità di esercitare appieno la propria libertà [22]
. Semmai, nella teorizzazione classica, la relazione assume rilevanza limitatamente in considerazione di quel rapporto intersoggettivo che rileva nella costruzione della comunità politica e che permette la convivenza reciproca, attraverso l’accettazione dell’obbedienza (ai governanti e/o alle leggi). Tuttavia, anche in questo caso, le relazioni vengono intese come produttrici di condizioni di dominio e (auto)asservimento [23]
. In tal senso, è possibile ritenere che il dogma dell’autonomia manifesti in ogni ambito (pubblico e privato) la sua funzionalità in ordine alla gerarchizzazione dei soggetti: prescindendo totalmente dall’eguaglianza, esso sancisce la prevalenza di alcuni (legittimati ad agire liberamente nella sfera pubblica e privata) su altri (incapacitati a tenere i medesimi comportamenti dei liberi), trascurando totalmente il fatto che la libertà dei primi si fonda sull’asservimento dei secondi.
Come evidenziato infatti dalla critica femminista del diritto e della politica [24]
, questo modo di intendere la libertà è ideologicamente orientato alla rimozione, dalla scena pubblica, dell’esistenza di quei soggetti che rendono possibile la libertà stessa, ovvero di tutte le persone dedite a quel lavoro di cura che permette ad altri soggetti di considerarsi autonomi e di godere del proprio spazio di libertà, senza essere soverchiati dalle incombenze quotidiane che tuttavia sono essenziali ai fini della sopravvivenza.
La riflessione, ricca e partecipata, sull’autonomia relazionale va in questa direzione [25]
, così come la critica alla nozione di indipendenza promossa dai Disability studies [Tarantino 2021]: nessun individuo nasce autonomo e {p. 269}indipendente, né tantomeno rimane tale nel corso della propria vita. Ogni persona nasce e vive all’interno di relazioni e dipende quotidianamente, nello spazio privato quanto in quello pubblico, dalle stesse.
Questo modo innovativo di concepire l’autonomia alla luce dell’eguaglianza, come una categoria non opposta a quella della relazione, ha riflessi diretti sulla possibilità di intendere la libertà come una condizione che parimenti non prescinda dalla relazione.
Il soggetto è libero, o non lo è, sempre all’interno di relazioni: anche quando è solo, la sua libertà è determinata dalle relazioni da cui proviene e dipende direttamente dalla rete di relazioni che determina il contesto in cui si trova ad agire [26]
.
La libertà, così intesa, esprime in modo più evidente la sua connessione fondamentale con la responsabilità, la quale non rappresenta, a ben vedere, un mero corollario dell’esercizio della libertà stessa, ma ne costituisce la centrale estrinsecazione.
La responsabilità, nella sua concezione classica, si articola nell’assunzione di colpe o di doveri, il cui espletamento limita la libertà stessa. Se per essere liberi occorre prescindere dalla relazione, occorre quindi, allo stesso modo, prescindere anche dalla responsabilità: si è liberi quando non ci si deve assumere responsabilità di alcun tipo. Al contrario, quando si è chiamati ad assumere qualsiasi responsabilità, si vede ridotto il margine della propria libertà [27]
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In questi termini, libertà e responsabilità sono sempre in opposizione tra loro, e presuppongono le relazioni come rapporti gerarchici, che vedono al vertice i liberi e alla base i soggetti (non liberi) caricati delle responsabilità.
Invece, nell’ambito di una concezione della libertà che contenga la dimensione relazionale, anche la responsabilità assumerebbe nuovi significati. La rappresentazione classica tace sul fatto che le responsabilità, nelle relazioni, esistono comunque, indipendentemente dalla volontà di farle proprie, e vanno espletate. Tuttavia, pur tacendo, la medesima rappresentazione ha determinato la totale delega delle responsabilità in capo ad alcuni/e, appunto, in ragione della gerarchia sociale: i soggetti dominanti (i soggetti paradigmatici) sono sempre stati qualificati come {p. 270}liberi, ovvero liberi dalle responsabilità; i soggetti dominati (quelli non paradigmatici) sono invece sempre stati caricati di responsabilità, in quanto non liberi.
Come già ricordato, è l’intervento del principio di eguaglianza a sparigliare le carte e a impedire di proseguire con questa rappresentazione della libertà. In ragione dell’eguaglianza, tutte le persone devono essere libere in egual misura, e nessuno può essere più libero di qualche altro, perché la schiavitù è stata abolita.
Ma questa redistribuzione della libertà non ha fino ad ora comportato una redistribuzione delle responsabilità. Permane quella originaria contrapposizione e così pure sopravvive la distribuzione diseguale di libertà e responsabilità tra soggetti dominanti e dominati [28]
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Tanto più nel contesto odierno, è significativo il fatto che all’esaltazione della libertà (di alcuni) corrisponda un processo di iper-responsabilizzazione individuale (di altri), che si concretizza nell’arretramento della sfera pubblica, nello smantellamento dello Stato sociale e nella privatizzazione dei servizi [Gallino 2012, 124 ss.], al fine di caricare sui soggetti dominati il maggior numero di doveri e incombenze. Il dilagare delle pratiche dello sfruttamento è l’esito di tali dinamiche [29]
: la mercificazione del lavoro di cura demandato alle donne migranti rappresenta un caso emblematico [Casalini 2009; Sciurba 2016; Sarti 2022], nel quale si esplicitano anche i processi di denigrazione e svalorizzazione che da sempre accompagnano il farsi carico delle responsabilità [30]
, in ragione della compressione dello spazio di libertà individuale [31]
.
L’attenzione alla relazione sulla quale insistono le teorie critiche del diritto, invece, invita a ripensare il binomio libertà e responsabilità in termini non oppositivi. Alla luce dell’eguaglianza, non vi possono essere soggetti più liberi di altri, e dunque, nemmeno soggetti più responsabili
{p. 271}di altri. Le responsabilità che caratterizzano le relazioni umane vanno distribuite tra i soggetti in relazione e non accumulate solamente in capo ad alcuni/e.
Note
[17] Nella retorica neoliberale, la libertà «si riduce all’insieme delle scelte razionali che un individuo può compiere per aumentare quella forma di benessere che si lascia misurare unicamente in termini economici» [Leghissa 2012, 14]. Cfr. Casalini [2018].
[18] In questa fase di transizione, che vede, tra l’altro, la dissoluzione della dimensione normativa del diritto (sempre più incline a orientare le prassi piuttosto che prescriverle) è estremamente difficile distinguere tra ciò che avviene sul piano giuridico e ciò che si sviluppa sul piano fattuale, soprattutto perché molto spesso oramai il secondo piano influenza o determina direttamente il primo. Sulle trasformazioni del fenomeno giuridico nella contemporaneità rinvio, per tutti, a Pastore [2014].
[19] A tal riguardo sono note le tesi di Catharine MacKinnon, nel momento in cui l’autrice ricolloca sul piano delle relazioni di potere alcuni dilemmi classici relativi ai diritti delle donne, sostenendo appunto che non si tratta di «questioni morali», in MacKinnon [2012].
[20] Mi permetto, per una ricostruzione delle principali teorie critiche del diritto, di rinviare alla raccolta di saggi contenuta in Bernardini e Giolo [2017].
[21] Si vedano ad esempio i contenuti della nota distinzione proposta da Isaiah Berlin tra libertà negativa e positiva, che tuttavia convergono su questi aspetti [Berlin 2005, 172].
[22] Sul nesso schiavitù-dipendenza cfr. Casadei [2016, 81].
[23] Sottolinea infatti Marina Lalatta Costerbosa, a proposito della nozione kantiana di libertà e autonomia, che l’uomo «se si trova a convivere con altri uomini, per poter essere libero, ha bisogno di qualcuno che ne soggioghi la volontà, lo costringa a quella ubbidienza che sola può consentire all’insieme degli uomini di provare a essere autonomi. Il dominio sotto un padrone diventa la condizione di possibilità della libertà nella convivenza. Siamo di fronte al paradosso secondo il quale la libertà è attraverso l’ubbidienza» [Lalatta Costerbosa 2021, 97; cfr. Milazzo 2021, 87]. Cfr. in tal senso, a proposito della «libertà civile» Price [2021, 56 ss.].
[24] La letteratura, sul punto è oramai ricchissima. Rinvio, ex multis, a Cavarero [2013].
[25] Cfr. per una ricognizione in merito Mackenzie e Stoljar [2000]; Scamardella [2013].
[26] Cfr. quanto sostenuto da Pierre Bourdieu a proposito dell’analisi del dominio maschile e sulla necessità di una «visione autenticamente relazionale» in grado di coglierne le articolazioni «nell’insieme degli spazi e dei sottospazi sociali» [Bourdieu 1998, 120, corsivo dell’autore].
[27] Si pensi ad esempio all’opposizione libertà/lavoro (corrispondente a quella libertà/schiavitù) che caratterizza le origini della sfera pubblica: l’ammissione alla polis era destinata solamente ai liberi, in quanto non dediti al lavoro: «L’uomo è pienamente uomo soltanto se politikos, un membro della polis. Esclusi da questa condizione politica sono gli schiavi, da un lato, e i barbari, dall’altro, vale a dire coloro che erano soltanto dediti al lavoro [...]. Essere libero ed essere polites, un membro della polis, era un’unica e identica cosa. La forma negativa di tale libertà era la libertà dal lavoro» [Cfr. Arendt 2016, 63].
[28] Si veda quanto riassunto già in Marcuse [(1964) 1999, 138] a proposito della permanenza di una distinzione di classe tra liberi e asserviti: «La società è ancora sempre organizzata in modo tale che procurare le necessità della vita costituisce l’occupazione a tempo pieno, per tutta la vita, di classi sociali specifiche, a cui non è per tale motivo concesso di essere libere e di condurre un’esistenza umana». A proposito dei tre pilastri che determinano la condizione moderna degli oppressi (alienazione, divisione del lavoro, tecnologia), cfr. una lettura recente in Traverso [2021, 303 ss.].
[29] Un’analisi in tal senso è rinvenibile in Rigo [2022], con riferimento alle figure del «liberamente sfruttabile cittadino-lavoratore» e del «suddito-dipendente espropriabile» [ibidem, 97 ss.].
[30] Cfr. ad esempio quanto ricostruito in Pescarolo [2019] a proposito dell’invisibilità del lavoro delle donne.
[31] Tanto è vero che l’assunzione di responsabilità da parte dei soggetti dominanti (ad esempio nell’ambito delle cariche pubbliche, degli incarichi di governo, così come nella dirigenza privata) viene perlopiù rappresentata come l’esercizio di un potere, che, appunto, esalta la capacità del soggetto che ne è titolare di incidere sulla sfera altrui (di chi, a quel potere, è assoggettato), in ragione della gerarchia presupposta.