Note
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Sulla passione neoliberale per lo «Stato forte», che ha il vantaggio di «eliminare i costi d’intermediazione politica, di rendere superfluo il processo elettorale e quindi di risparmiare sull’attività di lobby» cfr. d’Eramo [2020, 158]. Cfr. anche a proposito del carattere a-democratico della razionalità neoliberale, Dardot e Laval [2013, 469].
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Per una disamina in merito rinvio a Bernardini e Carnovali [2021].
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Cfr., per una ricognizione, Casadei e Pietropaoli [2021] e Vantin [2021].
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Ad esempio, al tempo del COVID, cfr. Leonini [2020].
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Si veda Vida [2016].
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Si veda Butler [2017, 27].
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Sulla «produzione», ad opera di precise politiche nazionali, europee e internazionali, di classi di soggetti che unicamente nello sfruttamento possono trovare una via di fuga dalla condizione di estremo bisogno in cui versano si veda quanto già evidenziato in Santoro [2010].
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«Libertà è senza dubbio una delle parole più “ambigue” e polisemiche del nostro lessico politico. [...] La libertà è un ideale quasi universalmente accettato, ma le sue definizioni sono molto diverse – talvolta incompatibili – e il suo ambito concettuale colmo di paradossi» [Traverso 2021, 289-290].
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La funzione della vulnerabilità è centrale nell’ambito delle trasformazioni in corso, sia in tema di libertà [Giolo 2019], sia con riferimento al ritorno delle pratiche di sfruttamento [di Martino 2019; Santoro 2020].
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Per una lettura complessa della (tutt’altro che pacifica) relazione tra autonomia e libertà cfr. Bagnoli [2019, 227 ss.]
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Si veda ad esempio quanto sostiene Salvatore Veca, criticando la distinzione berliniana, a proposito della rappresentazione triadica della libertà, che non si focalizza solamente sui soggetti (chi è libero) ma anche sui campi (i contesti e i vincoli) e gli scopi [Veca 2019, 84].
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Angela Davis ricorda come gli abolizionisti «più lungimiranti», già nel XIX secolo, sostenevano che la schiavitù non sarebbe certo finita «se ci si fosse limitati ad abolirla e che dunque dovevano essere create istituzioni che integrassero gli ex-schiavi in una nuova democrazia in evoluzione» [Davis 2018, 85-86].
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È del resto chiaro che non esiste un unico modo di concepire la libertà, ma che anzi questa dipenda strettamente «da una qualche idea di io, di persona, di uomo» [Berlin 2005, 184] e dalle impostazioni ideologiche, etiche e politiche sottostanti. Per una ricognizione in merito ai diversi significati di libertà si veda Barberis [2021].
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Sulla «classica» tensione tra libertà ed eguaglianza rinvio, per tutti, a Bobbio [2009].
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Luigi Ferrajoli ritiene, in proposito, che si tratti di una «sorta di postulato ideologico delle culture liberiste: la contrapposizione tra libertà e uguaglianza, tra uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale, tra dignità individuale e giustizia sociale, tra diritti di libertà e diritti sociali, tra sviluppo economico e politiche redistributive e perciò la giustificazione delle diseguaglianze in nome del valore associato alla libertà» [Ferrajoli 2018].
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Si veda, sul ritorno di categorie e concetti premoderni, Geiselberger [2017].
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Nella retorica neoliberale, la libertà «si riduce all’insieme delle scelte razionali che un individuo può compiere per aumentare quella forma di benessere che si lascia misurare unicamente in termini economici» [Leghissa 2012, 14]. Cfr. Casalini [2018].
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In questa fase di transizione, che vede, tra l’altro, la dissoluzione della dimensione normativa del diritto (sempre più incline a orientare le prassi piuttosto che prescriverle) è estremamente difficile distinguere tra ciò che avviene sul piano giuridico e ciò che si sviluppa sul piano fattuale, soprattutto perché molto spesso oramai il secondo piano influenza o determina direttamente il primo. Sulle trasformazioni del fenomeno giuridico nella contemporaneità rinvio, per tutti, a Pastore [2014].
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A tal riguardo sono note le tesi di Catharine MacKinnon, nel momento in cui l’autrice ricolloca sul piano delle relazioni di potere alcuni dilemmi classici relativi ai diritti delle donne, sostenendo appunto che non si tratta di «questioni morali», in MacKinnon [2012].
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Mi permetto, per una ricostruzione delle principali teorie critiche del diritto, di rinviare alla raccolta di saggi contenuta in Bernardini e Giolo [2017].
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Si vedano ad esempio i contenuti della nota distinzione proposta da Isaiah Berlin tra libertà negativa e positiva, che tuttavia convergono su questi aspetti [Berlin 2005, 172].
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Sul nesso schiavitù-dipendenza cfr. Casadei [2016, 81].
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Sottolinea infatti Marina Lalatta Costerbosa, a proposito della nozione kantiana di libertà e autonomia, che l’uomo «se si trova a convivere con altri uomini, per poter essere libero, ha bisogno di qualcuno che ne soggioghi la volontà, lo costringa a quella ubbidienza che sola può consentire all’insieme degli uomini di provare a essere autonomi. Il dominio sotto un padrone diventa la condizione di possibilità della libertà nella convivenza. Siamo di fronte al paradosso secondo il quale la libertà è attraverso l’ubbidienza» [Lalatta Costerbosa 2021, 97; cfr. Milazzo 2021, 87]. Cfr. in tal senso, a proposito della «libertà civile» Price [2021, 56 ss.].
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La letteratura, sul punto è oramai ricchissima. Rinvio, ex multis, a Cavarero [2013].
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Cfr. per una ricognizione in merito Mackenzie e Stoljar [2000]; Scamardella [2013].
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Cfr. quanto sostenuto da Pierre Bourdieu a proposito dell’analisi del dominio maschile e sulla necessità di una «visione autenticamente relazionale» in grado di coglierne le articolazioni «nell’insieme degli spazi e dei sottospazi sociali» [Bourdieu 1998, 120, corsivo dell’autore].
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Si pensi ad esempio all’opposizione libertà/lavoro (corrispondente a quella libertà/schiavitù) che caratterizza le origini della sfera pubblica: l’ammissione alla polis era destinata solamente ai liberi, in quanto non dediti al lavoro: «L’uomo è pienamente uomo soltanto se politikos, un membro della polis. Esclusi da questa condizione politica sono gli schiavi, da un lato, e i barbari, dall’altro, vale a dire coloro che erano soltanto dediti al lavoro [...]. Essere libero ed essere polites, un membro della polis, era un’unica e identica cosa. La forma negativa di tale libertà era la libertà dal lavoro» [Cfr. Arendt 2016, 63].
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Si veda quanto riassunto già in Marcuse [(1964) 1999, 138] a proposito della permanenza di una distinzione di classe tra liberi e asserviti: «La società è ancora sempre organizzata in modo tale che procurare le necessità della vita costituisce l’occupazione a tempo pieno, per tutta la vita, di classi sociali specifiche, a cui non è per tale motivo concesso di essere libere e di condurre un’esistenza umana». A proposito dei tre pilastri che determinano la condizione moderna degli oppressi (alienazione, divisione del lavoro, tecnologia), cfr. una lettura recente in Traverso [2021, 303 ss.].
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Un’analisi in tal senso è rinvenibile in Rigo [2022], con riferimento alle figure del «liberamente sfruttabile cittadino-lavoratore» e del «suddito-dipendente espropriabile» [ibidem, 97 ss.].
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Cfr. ad esempio quanto ricostruito in Pescarolo [2019] a proposito dell’invisibilità del lavoro delle donne.
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Tanto è vero che l’assunzione di responsabilità da parte dei soggetti dominanti (ad esempio nell’ambito delle cariche pubbliche, degli incarichi di governo, così come nella dirigenza privata) viene perlopiù rappresentata come l’esercizio di un potere, che, appunto, esalta la capacità del soggetto che ne è titolare di incidere sulla sfera altrui (di chi, a quel potere, è assoggettato), in ragione della gerarchia presupposta.
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Nell’accezione classica, la libertà è tendenzialmente rappresentata quale aspettativa negativa, dunque quale situazione soggettiva alla quale corrisponde un’astensione. Ma come sottolineato dalla letteratura teorico-giuridica, anche le libertà, in ragione della loro natura complessa, per la loro concretizzazione, necessitano di prestazioni e doveri. Cfr. ad esempio quanto sostenuto in proposito in Barberis [2011] in tema di «macro-diritti».