Giulia Guglielmini, Federico Batini (a cura di)
Orientarsi nell'orientamento
DOI: 10.1401/9788815411648/c7
  • gli stereotipi impediscono di raggiungere la parità di genere e limitano il ventaglio di scelte occupazionali e lo sviluppo personale delle donne, impedendo loro di realizzare appieno il proprio potenziale in quanto individui e attori economici;
  • solo il 27% dei lavoratori/professionisti che compaiono nelle pubblicità sono donne e di queste il 60% è rappresentato nell’atto di svolgere attività domestiche o di cura dei figli;
  • i bambini entrano precocemente in contatto con gli stereotipi di genere attraverso modelli promossi da programmi televisivi, giocattoli, videogiochi, pubblicità,
    {p. 194}materiali didattici e programmi di istruzione, nonché dagli atteggiamenti osservati a scuola e in famiglia;
  • i contenuti scolastici sono fattori determinanti che influiscono sulla percezione delle differenze di genere, sulle scelte e sull’accesso ai diritti;
  • nel processo di istruzione, i ragazzi e le ragazze continuano a non essere incoraggiati/e a sviluppare uguale interesse verso tutte le materie, in particolare quelle scientifiche e tecniche;
  • sebbene molti paesi europei dispongano di iniziative di orientamento professionale che tengono conto della dimensione di genere, tali misure sono generalmente rivolte alle ragazze con l’obiettivo di incoraggiarle a intraprendere carriere in campo tecnologico e scientifico, mentre non esistono iniziative atte a incentivare i ragazzi a considerare carriere nel settore dell’istruzione o delle discipline umanistiche;
  • l’impatto degli stereotipi di genere su istruzione e formazione ha forti implicazioni per il mercato del lavoro, confermando la maschilità di alcuni settori (quelli in cui gli uomini sono oltre l’85%) con un livello di retribuzione superiore a quello dei settori femminili (in cui le donne sono oltre il 70%);
  • gli stereotipi di genere nel mercato del lavoro limitano l’accesso delle donne a determinati settori (ingegneria, industria, edilizia, falegnameria, meccanica, professioni tecnico-scientifiche e tecnologiche) e l’accesso degli uomini ai settori di assistenza per l’infanzia (ostetricia, puericultura, ecc.).
In tal senso, nel documento della Commissione Von der Leyen del 5 marzo del 2020, Un’Unione dell’uguaglianza: la Strategia per la parità di genere 2020-2025 [8]
, si legge che l’UE ha registrato immensi progressi sulla parità di genere negli ultimi decenni, in parte inficiati dalla pandemia da {p. 195}Covid-19, ma che comunque nessuno Stato membro ha raggiunto la piena parità di genere [9]
.

5. Agenda 2030 e PNRR

A dispetto degli impegni presi, in più occasioni l’Italia è stata «rimproverata» – in vari rapporti di enti internazionali e agenzie che si occupano di monitorare, descrivere e combattere gli stereotipi – di non fare abbastanza per giungere alla parità di genere [EIGE 2015; European Commission 2017; EACEA Eurydice 2010; OECD 2022]. Manca un progetto omogeneo da parte dello Stato, che demanda a enti locali e a singole istituzioni tale processo. Inoltre, se si analizzano le Linee guida nazionali per l’orientamento permanente [MIUR 2014], si resta colpiti dalla totale assenza di riferimenti alla parità e all’orientamento di genere.
La questione della parità di genere emerge nel PNRR come priorità trasversale declinata in termini di inclusione sociale. Gli obiettivi sono da perseguire con interventi finanziati dal PNRR e dalla legge 234/2021 (art. 1, commi 139-148) che dispone l’adozione di un Piano strategico nazionale per la parità di genere che si propone di:
  • individuare buone pratiche per combattere gli stereotipi di genere;
  • colmare il divario di genere nel mercato del lavoro;
  • raggiungere la parità nella partecipazione ai diversi settori economici;
  • affrontare il problema del divario retributivo e pensionistico;
  • conseguire l’equilibrio di genere nel processo decisionale.
La parità e l’orientamento formativo di genere non sono tuttavia richiamati in modo esplicito nelle Linee guida per l’orientamento (dicembre 2022).{p. 196}

6. Il ruolo dell’identità di genere nell’orientamento formativo

Secondo un’interpretazione diffusa, l’orientamento formativo è la capacità di indirizzare un soggetto verso il percorso che lo porterà a raggiungere la realizzazione professionale nell’ottica del progetto di vita. Il d.m. 9 febbraio 1979, riferendosi alla scuola secondaria di primo grado, mostra come:
la possibilità di operare scelte realistiche nell’immediato e nel futuro, pur senza rinunciare a sviluppare un progetto di vita personale, deriva anche dal consolidamento di una capacità decisionale che si fonda su una verificata conoscenza di sé; in effetti, il processo di orientamento può essere interpretato come percorso nel quale si attribuisce senso e significato all’evoluzione della storia formativa […] in poche parole come un percorso di empowerment, di costruzione dell’identità e di significazione rispetto a sé e al mondo attorno [Batini e Del Sarto 2007, 11-12].
L’orientamento, tuttavia, interessa il rapporto tra la persona e la società e, in virtù di questa interazione, si rischia di incanalare il soggetto verso professioni di cui la collettività ha maggiore necessità (non necessariamente in base alle capacità/attitudini individuali) o di coniugare passione e richiesta di mercato intercettando/prevedendo i bisogni della società in termini di matching tra domanda e offerta di lavoro. L’orientamento, quindi, come conformazione più o meno consapevole degli individui ai bisogni di una società che si riproduce nel dialogo tra conservazione ed evoluzione. Sarebbe invece opportuno parlare di orientamento guardando alla sua etimologia (dal latino orior), intendendolo come nascita dal sé, del sé e delle proprie aspirazioni, piuttosto che limitarsi a seguire le evoluzioni del mercato del lavoro.
Tralasciando le nuove professioni, derivanti dall’intreccio tra social media e creatività, destinate a uno sicuro sviluppo ma ancora slegate dal sistema formativo, appare evidente la polarizzazione (emergente già nella scelta della scuola secondaria di secondo grado) tra studi umanistico-sociali (e di cura) e scientifico-tecnologici che ricalca la dicotomia femminile-maschile. Scegliere un percorso di studi, una {p. 197}professione associata a un genere diverso dal proprio può significare, in alcuni contesti, tradire la propria identità ed esporsi a una critica sociale forse non più esplicita come in passato ma ugualmente giudicante e svilente. Ciò avviene però in una società in trasformazione, nella quale il cambiamento nelle relazioni tra i sessi e nei processi di costruzione delle identità di genere è contraddittorio, marcato da rotture e persistenze, innovazioni nei comportamenti che rivelano inaspettate continuità nelle rappresentazioni, nuovi desideri che emergono in un contesto segnato da un immaginario patriarcale [Ciccone 2016; Ciccone e Nardini 2017].

7. L’inibizione implicita ai lavori di cura per i ragazzi

Come rileva Biemmi [2020] [10]
solo da qualche anno la ricerca pedagogica italiana riflette sulla ridotta presenza maschile nei contesti di cura educativa, a partire dalle università, e sul potenziale effetto trasformativo che gli uomini in tali ambiti potrebbero avere, sia per il genere maschile sia per l’instaurarsi di nuove relazioni, paritarie e nonviolente, tra i generi nella società [Deiana 2012]. Al momento, però, pochi studi indagano le motivazioni che frenano l’accesso maschile alle professioni educative e di cura.
Le scelte effettuate in campo formativo possono essere suddivise in tre macrogruppi: eterodirette (consigliate da famiglia, amici, docenti), espressive (legate alla propria autorealizzazione) o strumentali (per la realizzazione economico-sociale) [Biemmi e Leonelli 2016].
La scelta espressiva è prevalentemente femminile e quella strumentale maschile, ma dovrebbe far riflettere il fatto che nell’eterodiretta le ragazze sono incoraggiate, o non ostacolate, verso corsi di studio STEM, essendo loro concesso di aggredire territori tradizionalmente maschili (sul piano professionale e culturale). Altrettanto non avviene per il genere maschile rispetto a territori femminili, intesi {p. 198}sia come ambito di cura (anche l’insegnamento, soprattutto dall’infanzia alla preadolescenza, è visto come un lavoro di cura), sia come modello culturale alternativo a quello patriarcale ed eteronormativo.
Gli ambiti legati all’idea di cura sono oggetto di una svalutazione simbolica, a causa dalla loro femminilizzazione. Al contempo, tale svalutazione favorisce la loro femminilizzazione. Secondo Biemmi e Leonelli [2018], oltre al basso status sociale e al reddito ridotto è l’eccessiva predominanza di donne nel campo dell’istruzione a respingere gli studenti maschi. Nel momento in cui scelgono la strada da intraprendere dopo il diploma, uno degli elementi dirimenti è l’assenza di modelli maschili in grado di normalizzare i lavori di cura (anche educativa) per gli uomini. La scelta d’intraprendere un percorso per diventare maestri, assistenti sociali o infermieri comporta per i ragazzi il doversi misurare con una percezione di ripiegamento su professioni meno prestigiose e meno retribuite e con il dedicarsi a funzioni femminili, dunque meno autorevoli, tradendo le aspettative sociali legate alla propria identità di genere [Biemmi e Leonelli 2016]. Al contempo, è altresì plausibile che ragazzi con orientamento omo-bisessuale preferiscano professioni femminili per attraversare ambienti di studio e di lavoro meno eteronormati o omofobici [Burgio 2017; 2021].
Inoltre, mentre attraverso misure ad hoc – maggiore partecipazione al mondo del lavoro, tutele di rientro post maternità o di supporto con l’accesso ai nidi, ecc. – si può favorire l’uscita delle donne da casa (luogo tradizionalmente loro assegnato), poco si ragiona sull’incoraggiare gli uomini alla cura dei figli [11]
, alla cura di parenti anziani o malati e alla partecipazione ai lavori domestici (sono le donne che conciliano lavoro e casa con il part-time). Anche se nell’ambito della cornice teorica dei Masculinity studies si comincia a
{p. 199}indagare le nuove forme di maschilità definite caring masculinities [Elliot 2015] e i contributi che la presenza maschile apporterebbe nelle professioni educative e di cura [Arace 2020; Bernacchi e Biemmi 2018; Biemmi 2019; Burgio et al. 2023; Ottaviano e Persico 2020], persiste – soprattutto nei ragazzi – la difficoltà a pensarsi liberamente e a ridefinire sé stessi superando la rappresentazione dicotomica e gerarchica dei generi [Seveso 2022]. Vi è dunque il rischio che le/i ragazze/i si definiscano in modo socialmente accettato/accettabile piuttosto che in uno o più modi rispondenti alle loro peculiarità, sacrificando le loro potenzialità, i loro futuri possibili e il loro speciale contributo alla società per aderire alle norme dominanti [Biemmi e Leonelli 2016].
Note
[9] Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, Un’Unione dell’uguaglianza: la Strategia per la parità di genere 2020-2025, 2020.
[10] Si vedano anche Mapelli e Ulivieri Stiozzi [2012]; Dello Preite [2020].
[11] Legge 53 dell’8 marzo 2000; legge 92/2012, Riforma del mercato del lavoro, a carattere sperimentale per gli anni 2013-2015. I congedi parentali, dopo il primo mese, sono retribuiti al 30% dello stipendio iniziale, per cui si preferisce non prenderli o, se necessario, farli prendere al partner che viene pagato meno: quasi sempre la donna.