Giulia Guglielmini, Federico Batini (a cura di)
Orientarsi nell'orientamento
DOI: 10.1401/9788815411648/c7
Quello dell’intersezione tra orientamento e genere è un tema relativamente recente sia in Europa che in Italia, successivo ai movimenti femministi degli anni Settanta del secolo scorso. Fino a quel momento, infatti, era indiscusso, naturale, quando non decretato per legge, che alcune professioni fossero inaccessibili alle donne e altre lo fossero per gli uomini. Oggi, invece, in Italia nessun lavoro è precluso per motivazioni legate al genere: eppure, tuttora il linguaggio riflette la difficoltà di definire al femminile lavori storicamente svolti dagli uomini (si pensi al dibattito linguistico sul corrispettivo femminile di ministro, sindaco, assessore, così come sul femminile di professioni ormai svolte senza una prevalenza di genere, come architetto, avvocato, medico). Da notare, inoltre, l’assenza del maschile (senza connotazioni canzonatorie) di attività di cura domestica, giacché termini come casalingo, massaio – insieme al più comune mammo (il cui naturale equivalente sarebbe papà) – sono usati in maniera parodistica: esiste insomma un lessico dispregiativo per gli uomini che si dedicano alla casa o alla cura, manifestazione evidente di una concezione tuttora patriarcale della società e del lungo cammino da affrontare per la parità [2]
. Per definire la prostituzione maschile,
{p. 189}invece, si preferisce ricorrere al francese gigolò, in origine riferito al maschio mantenuto da ricche signore e non alla prostituzione tout court [Burgio et al. 2023].
A quanto detto vanno collegate poi due specifiche dinamiche che colpiscono il genere femminile, soprattutto in ambito tecnologico e scientifico: la segregazione orizzontale [3]
e verticale [4]
, quest’ultima può essere poi descritta attraverso tre metafore:
  • il leaky pipeline (tubo che perde) [Blickenstaff 2005], ossia la progressiva diminuzione del numero delle donne in possesso di una laurea STEM che intraprendono un percorso professionale scientifico [5]
    ;
  • il ceiling glass (soffitto di cristallo), barriera invisibile emergente dai dati, purtroppo ancora limitati, sulla presenza femminile nelle posizioni apicali delle carriere accademiche, scientifiche e di ricerca [Avveduto 2019];
  • l’effetto Matilda, ossia il mancato riconoscimento del lavoro compiuto da una donna, il cui risultato è in tutto o in parte attribuito a un uomo [Rossiter 1993].{p. 190}

3. Segregazione formativa, curriculum implicito ed esplicito, bias e stereotipi

Quanto detto è, purtroppo, solo la parte manifesta di una forte divisione di genere del lavoro, presente in Italia, in Europa e nel resto del mondo. Le donne rappresentano attualmente, ad esempio, la maggioranza assoluta degli insegnanti in tutti gli ordini di scuola, con percentuali vicine al 100% nelle scuole dell’infanzia, che decrescono fino al 66% nelle scuole secondarie di secondo grado [OECD 2017] [6]
. Inoltre, il numero di studentesse iscritte all’università è già da molti anni superiore a quello degli studenti: in base ai dati quello dell’istruzione sembra essere, dunque, il regno delle donne. Eppure, a uno sguardo più attento, le statistiche sulle iscrizioni (secondarie di secondo grado e università) mostrano una non casuale correlazione tra genere e indirizzo scelto [Morana e Sagramora 2022]. Si tratta del fenomeno della segregazione formativa di genere, una suddivisione sessista che, nel nostro ordinamento scolastico, conduce gli/le alunni/e a convogliare gli uni verso indirizzi considerati maschili (ambito tecnico-scientifico) e le altre verso indirizzi femminili (umanistico-sociali, in modo particolare per gli ambiti educativi e di cura) [Biemmi 2020].
Sebbene siano molteplici le variabili socio-economiche da tenere in considerazione nelle scelte che conducono l’individuo, a prescindere dal genere, a un determinato percorso formativo e benché esistano numerose eccezioni, queste non sconfessano tale evidenza, che resta correlata al modo in cui si fa orientamento a scuola.
Gli ambiti in cui avviene l’orientamento formativo si suddividono in tre macrocategorie [Di Nubila 2003]:
  • formale: indica tutte le forme di orientamento, a opera di istituti scolastici, centri di formazione e università, che sostengono il soggetto nel percorso di istruzione-formazione formale e che fanno parte integrante di esso;{p. 191}
  • informale: è il corollario naturale della vita quotidiana [Commissione delle comunità europee 2000] e si sviluppa senza intenzionalità precisa nelle istituzioni che non hanno una vocazione specifica per l’orientamento (famiglie, associazioni, ecc.). Il più delle volte assume forma implicita e latente;
  • non formale: esplicita un’intenzionalità orientativa, finalizzata al rafforzamento delle capacità di scelta e alla loro sostenibilità in momenti di transizione della vita. Si caratterizza per l’a-specificità dei soggetti attori (enti, associazioni, canali non istituzionali e non tradizionalmente deputati a tale compito), comunque capaci di offrire opportunità ed esperienze significative anche se non specifiche professionalità. Ne sono un esempio i luoghi di lavoro, le organizzazioni, i gruppi della società civile, le associazioni, la Chiesa, ecc.
È proprio in queste agenzie, famiglie in primis, che si costruisce il concetto di genere, attraverso ogni aspetto della vita quotidiana e si producono bias e stereotipi:
dai giochi infantili all’abbigliamento, ai ruoli sociali, al linguaggio, il genere connota le nostre vite in modo multiforme, più o meno sottile, più o meno eclatante, a tal punto che, come la respirazione, finisce per scomparire ai nostri occhi per la sua assoluta auto-evidenza [Ricchiardi e Venera 2005, 82; cfr. Corsini e Scierri 2016].
L’ambiente si comporta, insomma, da terzo insegnante [Borghi 2021; Malaguzzi 1995] e ciò influisce in maniera invisibile sulle opinioni comuni, che si insinuano nella coscienza collettiva. Ancora nel 2014 [ISTAT 2016], in Italia, secondo il 54% degli uomini per la famiglia è meglio che l’uomo si dedichi prevalentemente alle necessità economiche e la donna alla cura della casa, le donne sono più capaci nello svolgere i lavori domestici e – per un terzo degli intervistati – non è giusto dividere equamente i lavori domestici, indipendentemente dal fatto che entrambi i partner abbiano un lavoro a tempo pieno. Inoltre, il 40% degli uomini ritiene le donne più capaci di occuparsi dei figli piccoli e circa il 25% che, in caso di malattia dei bambini, sia la donna a dover assisterli anche se lavoratrice. Le risposte {p. 192}delle donne intervistate sugli stessi argomenti convergono del resto, con quelle degli uomini confermando che l’ambito della genitorialità è quello in cui si riscontra non solo una resistenza al cambiamento, ma anche una progressiva ri-tradizionalizzazione delle pratiche [Cannito, Falzea e Torrioni 2022; Grunow et al. 2016].
Sembrerebbe naturale che gli attori che operano nell’ambito dell’orientamento formale – come scuole e università – in virtù della loro responsabilità educativa orientino sulla base della predisposizione, delle capacità e dei livelli di competenze di studenti/esse. Eppure, numerosi studi testimoniano come, parallelamente a quello definito come curriculum esplicito – gli obiettivi, le competenze e le abilità che ogni alunno/a dovrebbe raggiungere secondo le Indicazioni nazionali – agisca un curriculum implicito [Gasparrini 2020; Mapelli, Bozzi Tarizzo e De Marchi 2001; Venera 2014], attraverso i valori, i comportamenti e le aspettative che ogni educatore trasmette in modo differenziato ad alunni/e. Si tratta di un orientamento latente, agito inconsapevolmente e legato a stereotipi di genere introiettati anche tra le studentesse e (soprattutto) gli studenti, che spesso sentono la pressione del conformarsi alle aspettative riservate al loro genere, per evitare il giudizio dei pari [EIGE 2016].
Come rileva Guerrini [2022], la percezione del curricolo implicito in relazione al genere non è semplice né scontata, perciò è necessario promuovere, per/con i docenti, una formazione orientata alla consapevolezza di tutto ciò che passa in maniera inconsapevole attraverso la loro relazione educativa con la classe. L’insegnamento/apprendimento scolastico aiuta il soggetto a ricercare la sua vera identità, lo pone nelle condizioni di sperimentare/verificare le sue possibilità di pensiero, risveglia gli interessi profondi della sua personalità e – attraverso il progressivo sviluppo della capacità di valutazione e di oggettivazione – gli consente di raggiungere i propri obiettivi. La scuola è dunque investita di un ruolo fondamentale nel processo di radicamento/sradicamento degli stereotipi che portano alla segregazione orizzontale e verticale e alle disuguaglianze in tutte le sfere della vita sociale, tanto più se l’azione educativa inizia nella {p. 193}primissima infanzia [De Maria e Montorsi 2023; Giugni 1973; Traverso 2015]. Nessun obiettivo, infatti, può essere raggiunto facilmente se l’ambiente in cui si è immersi pone degli ostacoli, ancora più insormontabili perché invisibili.

4. Verso la parità di genere?

Già dagli anni Settanta, in concomitanza con il femminismo di seconda ondata, in Italia e in gran parte del mondo occidentale si sviluppano idee e movimenti contro gli stereotipi sulle donne e per la parità di genere che sfociano – anche attraverso proteste e mobilitazioni – in progetti, convenzioni e leggi. Nel sistema scolastico nazionale, però, tali tematiche sono state portate avanti in modo non omogeneo solo da alcune insegnanti-pioniere, avviando un cambiamento di sensibilità parziale [Biemmi e Leonelli 2016] e circoscritto ad alcune regioni del Centro-Nord [7]
.
La Risoluzione del Parlamento europeo del 12 marzo 2013 sull’eliminazione degli stereotipi di genere nell’Unione è un documento estremamente interessante che si concentra sul più vasto contesto costituito dal rapporto tra stereotipi di genere, società e vita quotidiana. I punti più significativi sono quelli che indagano il rapporto tra stereotipi e vita professionale. Nello specifico, si rileva che:
  • gli stereotipi impediscono di raggiungere la parità di genere e limitano il ventaglio di scelte occupazionali e lo sviluppo personale delle donne, impedendo loro di realizzare appieno il proprio potenziale in quanto individui e attori economici;
  • solo il 27% dei lavoratori/professionisti che compaiono nelle pubblicità sono donne e di queste il 60% è rappresentato nell’atto di svolgere attività domestiche o di cura dei figli;
  • i bambini entrano precocemente in contatto con gli stereotipi di genere attraverso modelli promossi da programmi televisivi, giocattoli, videogiochi, pubblicità,
    {p. 194}materiali didattici e programmi di istruzione, nonché dagli atteggiamenti osservati a scuola e in famiglia;
  • i contenuti scolastici sono fattori determinanti che influiscono sulla percezione delle differenze di genere, sulle scelte e sull’accesso ai diritti;
  • nel processo di istruzione, i ragazzi e le ragazze continuano a non essere incoraggiati/e a sviluppare uguale interesse verso tutte le materie, in particolare quelle scientifiche e tecniche;
  • sebbene molti paesi europei dispongano di iniziative di orientamento professionale che tengono conto della dimensione di genere, tali misure sono generalmente rivolte alle ragazze con l’obiettivo di incoraggiarle a intraprendere carriere in campo tecnologico e scientifico, mentre non esistono iniziative atte a incentivare i ragazzi a considerare carriere nel settore dell’istruzione o delle discipline umanistiche;
  • l’impatto degli stereotipi di genere su istruzione e formazione ha forti implicazioni per il mercato del lavoro, confermando la maschilità di alcuni settori (quelli in cui gli uomini sono oltre l’85%) con un livello di retribuzione superiore a quello dei settori femminili (in cui le donne sono oltre il 70%);
  • gli stereotipi di genere nel mercato del lavoro limitano l’accesso delle donne a determinati settori (ingegneria, industria, edilizia, falegnameria, meccanica, professioni tecnico-scientifiche e tecnologiche) e l’accesso degli uomini ai settori di assistenza per l’infanzia (ostetricia, puericultura, ecc.).
Note
[2] Diversamente le professioni di nuova generazione, soprattutto quelle legate al mondo dei social media e definite da termini inglesi neutri (influencer, hairstylist, coach), non pongono il problema di stabilire una differenziazione maschile/femminile.
[3] «L’effetto di maggior rilievo non consiste tanto nella perdurante caratterizzazione di genere di alcune occupazioni (il sex typing in base al quale una segretaria o una collaboratrice domestica non possono che essere donne, così come un idraulico o un muratore non possono che essere uomini), quanto nelle caratteristiche complessivamente meno vantaggiose delle occupazioni a prevalenza femminile, associate spesso a profili professionali non elevati, posizioni subordinate, retribuzioni basse, scarse opportunità di carriera» [Pruna 2007, 65].
[4] «Fenomeno per cui nell’ambito di organizzazioni di natura pubblica o privata, le donne sono presenti massicciamente nei livelli bassi e medi dell’inquadramento, salvo diradarsi per poi sparire nei livelli più alti e nei ruoli dirigenti» [Del Re 2008, 423].
[7] Cfr. la legge della Regione Toscana 16/2009, Cittadinanza di genere.