Marina Calloni (a cura di)
Pandemocrazia
DOI: 10.1401/9788815411297/c7
Tra le parole chiave utilizzate nell’autonarrazione delle partecipanti, ricorrono «accoglienza», «benessere», «prossimità» e, ancora una volta, «cura». «Io penso che perché ci sia una società della cura dobbiamo innanzitutto capire che tutti abbiamo traiettorie di vita diverse e differenziate», dice una delle animatrici del progetto. «La cura è questo:
{p. 164}riconoscere le esperienze di vita e vedere come posso avvicinarmi a quei dolori, a quei piaceri, di cui ha bisogno questo essere umano. Quindi penso che una società della cura richieda innanzitutto capire questo e poi generare spazi sicuri dove possiamo riconoscere l’altro».
Il modo in cui il concetto è declinato presenta forti echi dell’etica femminista della cura, che la declina sia come una disposizione sia come una pratica; come la capacità di preoccuparsi degli altri, ma anche di occuparsi attivamente di loro [Pulcini 2009]. In questo senso, grande valore assumono le attività di condivisione, soprattutto legate al cibo preparato e consumato in comune.
Un’intervistata ricorda i tempi in cui Casa Tina era ancora uno spazio fisico: «A noi piaceva molto fare le ollas (pentole) comunitarie, attente a che non ci fosse troppo grasso, togliere il grasso al pollo, che il cibo fosse bilanciato, avendo cura della nostra salute. Cucinando imparavamo anche la cura». Quella del cucinare insieme è una pratica che, in particolare in America Latina, si è diffusa tra le donne fin dagli anni Ottanta, come forma di collettivizzazione del lavoro riproduttivo, volto a ridurne il costo e così a proteggersi dalla povertà.
L’inizio della pandemia, che in Colombia è stata particolarmente dura, ha coinciso proprio con la fine del finanziamento erogato da Pangea. Le lideresas hanno quindi gestito le attività in maniera virtuale, non senza difficoltà. La connessione Internet in molte zone di Soacha è infatti scarsa e rappresenta comunque un «privilegio, un lusso». Ciononostante, le attività sono proseguite, e accanto alle sfide quotidiane, non sono mancate sorprese positive dovute alla modalità virtuale. Secondo la psicologa del progetto, in questo modo si sono potute raggiungere molte donne di località più lontane, che non potevano recarsi fisicamente alla Casa, perché «avevano solo mezz’ora al giorno senza l’aggressore», ma hanno potuto ricevere assistenza psicologica attraverso il telefono.
Nonostante le difficoltà, vari aspetti permettono di qualificare il progetto come un luogo di partecipazione dal basso e di sperimentazione di nuove pratiche. {p. 165}
Innanzitutto, i laboratori con le donne sono tutti realizzati attraverso l’educazione popolare, una metodologia pedagogica diffusa in America Latina che mette sullo stesso piano chi organizza l’attività e chi vi partecipa, rompendo gerarchie di conoscenza e di classe e riconoscendo, come spiega un’intervistata, «i saperi diffusi tra le donne, nelle comunità: quelli che noi chiamiamo i “saperi altri”». Si può dare il caso, infatti, di «una donna che non sa leggere, ma che sa tantissime cose sul suo territorio, sulle piante, sui saperi ancestrali o popolari». Quindi «l’idea è innanzitutto riconoscere che l’altra già sa» e far sì che tutte imparino da tutte.
Anche all’interno del gruppo che gestisce il progetto, le dinamiche decisionali sono radicalmente democratiche, tra donne di diversa età, classe, provenienza geografica, e con approcci politici diversi: le partecipanti più anziane sono infatti legate a un femminismo più tradizionale, mentre le più giovani si ispirano a forme di transfemminismo contemporaneo. Questa convivenza è frutto di continuo confronto e mutuo apprendimento. La cura delle relazioni a Casa Tina emerge da molte testimonianze e riguarda, come nei casi di studio precedenti, la cura nei confronti delle beneficiarie, ma anche tra le attiviste. Il lavoro che queste svolgono è spesso emotivamente devastante. Soprattutto durante la pandemia, a Soacha c’era un livello di violenza altissimo nei confronti delle donne e arrivò un momento in cui le attiviste sentirono di non farcela.
Il rapporto con le beneficiarie dei servizi apporta poi ulteriori elementi interessanti. Soacha, infatti, è un territorio di immigrazione, dove la maggior parte della popolazione è composta da sfollati interni della guerra e, negli ultimi anni, da migranti venezuelani. Questo territorio così composito fa sì che la Casa si nutra anche di suggestioni provenienti dal femminismo indigeno e afro-colombiano, riconosciuto come una grande ricchezza dalle organizzatrici.
Il rapporto con il territorio rimane comunque difficile. Il progetto opera nella totale assenza di supporto da parte delle istituzioni, che nella zona non forniscono alcun sostegno alla popolazione e con cui la Casa non ha nessuna possibilità di mediare e collaborare. Il contesto è inoltre gravemente problematico. Bande armate dominano la zona, i tassi di {p. 166}violenza – specialmente contro le donne – sono altissimi, e questo fa sì che le esigenze e i bisogni della popolazione siano immensi, ma che allo stesso tempo le donne abbiano difficoltà a seguire le attività della Casa, per la discriminazione che subiscono, la mancanza di autonomia economica e l’eccessivo carico di lavoro di cura che devono svolgere.
La pandemia ha aggravato queste circostanze e messo a dura prova la popolazione locale più povera, portandola a situazioni di mancanza di risorse elementari per alimentarsi e curarsi.
Anche in questo caso Casa Tina è intervenuta a sopperire alle carenze di uno Stato assente e discriminatorio, cosicché l’approccio della cura si è rivelato, in questo frangente, una fonte di sopravvivenza per tante persone senza più alcuna risorsa e costrette a casa senza lavoro. E come scrive Silvia Federici, «dove svanisce l’illusione che lo Stato e il capitale possano sostenere le nostre vite» la «lotta per la sopravvivenza» diventa «un’azione trasformatrice» [Federici 2021, 153].

5. Conclusioni

In questo contributo siamo state interessate a indagare i modi in cui un concetto come quello di cura, che si è imposto come un significante d’uso comune nel discorso politico e quotidiano durante la pandemia di Covid-19, assuma significati radicalmente critici e trasformativi all’interno di pratiche localizzate di solidarietà e costruzione di comunità.
I tre casi di studio che abbiamo analizzato in queste pagine sono accomunati dall’uso politico che fanno di questa nozione, per inscrivere le pratiche messe in atto in una comprensione relazionale dei soggetti e delle collettività. Inoltre, le tre realtà indagate mostrano in pari modo un grado elevato di produttività concettuale, nello sforzo di coniugare la cura con altre categorie feconde per progetti e iniziative che si sviluppano dal basso, come quelle di bene comune, di mutualismo, di sopravvivenza.
Ciò si può leggere come una specificità strettamente legata alla volontà dei tre luoghi o progetti di mettere al {p. 167}centro, fin dal principio, i bisogni relativi alla sfera della riproduzione della vita, sviluppandosi attraverso pratiche di condivisione di lavori di cura come la preparazione del cibo, l’assistenza ai bambini, la pulizia e la manutenzione degli spazi. Con la messa in comune di questa dimensione del vivere, le attività in questione vengono al contempo rese possibili a chi non ne possiede i mezzi, svolte in modalità che alleggeriscono il carico che grava sulle singole persone, de-privatizzate e de-domesticizzate.
In particolare, questi esempi mettono in luce la dimensione collettiva della risposta che viene data alla vulnerabilità e al vincolo di reciproca dipendenza. L’agire collettivo è un aspetto cruciale, perché si contrappone marcatamente all’organizzazione dualistica della riproduzione creata dal capitalismo, basata sul mercato e sulla famiglia.
La nozione di cura che emerge dai tre casi di studio presenta un’accezione molto ampia. È intesa come cura degli altri, delle relazioni, dello spazio fisico, nonché come cura degli stessi attivisti e attiviste, nella consapevolezza dei rischi di logoramento fisico e psicologico.
Nei tre progetti vi è infine molta attenzione al modo in cui vengono prese decisioni, sperimentando nuovi metodi assembleari che hanno a cuore l’ascolto, il rispetto e l’inclusione attiva dell’altro. L’idea è costruire spazi in cui non solo siano presi in carico i bisogni di tutti e tutte, ma in cui tutte e tutti partecipino alla definizione dei bisogni stessi, e delle risposte necessarie. Pur nell’estrema diversità dei contesti, in questi tre spazi l’attenzione alla cura ha anche contribuito allo sviluppo di modalità decisionali più partecipative e democratiche.
Le pratiche di cura sono dunque intese in un significato così esteso da includere tutte le fasi indicate da Joan Tronto. Si tratta di una parte essenziale dell’impegno per analizzare i bisogni, individuare le responsabilità, e ripensare la cura secondo principi democratici di giustizia, eguaglianza, libertà per tutte e tutti.
Così, nelle esperienze di Lucha y Siesta, Ri-Make e Casa Tina, improntate alla concretezza delle piccole azioni quotidiane, si può osservare anche un agire volto alla tra{p. 168}sformazione. Una tensione che altrove abbiamo definito «utopica» [Serughetti e Fano Morrissey 2022], diretta a trasformare – a partire dal qui e ora – lo stato di incuria prodotta dall’impoverimento e privatizzazione delle risorse, e dagli effetti di un’ideologia individualista che patologizza il bisogno e la dipendenza, invece di riconoscerla come parte integrante della condizione umana. Nei luoghi che abbiamo analizzato, al contrario, il punto di partenza dell’agire appare la coscienza della vulnerabilità, dell’interdipendenza e della necessità che le persone hanno l’una dell’altra.
La tensione che infrange il senso di ineluttabilità dello stato di cose presente apre l’orizzonte del possibile, mentre avanza una promessa di futuro per la democrazia, prefigura una caring democracy dove la risposta ai bisogni vitali viene assunta come questione centrale.
Consapevoli che il compito di costruire una «società della cura» non si esaurisce nelle pratiche generate dal basso e nel lavoro volontario e mutualistico, riteniamo però che qui possa nutrirsi l’immaginazione politica necessaria per una politica progressista e trasformativa a tutti i livelli, capace di dare nuovo significato anche al concetto di solidarietà (cfr. il contributo di Sekulić e Duli in questo volume).
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Note