Pandemocrazia
DOI: 10.1401/9788815411297/c7
La cura è un concetto cardine di
questo progetto, ed è declinata in numerose accezioni: come cura delle persone
ospitate; come attenzione alle relazioni interne ed esterne; come cura dello spazio;
come ricerca di modalità decisionali e gestionali che siano più democratiche
possibili, inclusive e vicine alle beneficiarie. Questo si è tradotto in un
regolamento della Casa che è stato rivisto e cambiato innumerevoli volte nel corso
degli anni. Lo stesso vale per le modalità dell’assemblea di gestione. Vi è stata
una particolare attenzione al linguaggio, perché fosse inclusivo
¶{p. 159}ma anche comprensibile da donne migranti, con difficoltà
nel capire l’italiano. Inoltre, si è lavorato molto sul tempo e sull’attenzione a
dare intervalli temporali giusti che permettessero a tutte di partecipare
attivamente.
Un’attenzione particolare è
rivolta poi alle relazioni all’interno del collettivo di gestione. Se infatti negli
anni questo non è stato esente da conflitti, le attiviste che lo compongono hanno
sempre prestato molta attenzione a sorreggersi a vicenda, soprattutto in occasione
di eventi traumatici per la comunità. A questo fine hanno istituito anche una
«riunione di cura», separata dall’assemblea di gestione e da quelle del collettivo,
dove poter dare spazio alle necessità di ascolto e relazione, e di emersione dei
conflitti e dei bisogni di ognuna. «Ci siamo date uno spazio e un tempo un po’ più
dilatato: non è la riunione settimanale, è la riunione di cura».
Un grande lavoro è stato
prestato negli anni anche alla cura dello spazio fisico, dalla casa al giardino,
dalle fogne all’orto, dalla sartoria agli spazi comuni, perché divenisse un luogo
accogliente e inclusivo. Queste pratiche interne, modificatesi nel tempo, sono
andate infine di pari passo con il processo di interazione e mediazione con lo
spazio esterno, inteso sia come istituzioni che come territorio circostante.
Rispetto al territorio, la Casa
delle donne rappresenta un luogo aperto, un punto di aggregazione per il quartiere,
e di condivisione di strumenti e risorse, che è rimasto attivo anche durante la
pandemia. Nella fase più acuta del contagio, quando il tasso di violenza contro le
donne da parte di mariti e compagni è aumentato notevolmente, la Casa ha continuato
a funzionare come uno spazio di accoglienza, ma ha dovuto ridurre il numero delle
stanze disponibili per proteggere le donne dal virus.
Con le istituzioni locali il
rapporto è stato sempre difficile, tuttavia la Casa è riuscita ad affiancare al
conflitto con le istituzioni – elemento necessario per la propria sopravvivenza e
affermazione come luogo nato dal basso – una costante mediazione. Ne è derivata nel
2021 l’acquisizione dell’immobile, precedentemente di proprietà dell’Azienda
¶{p. 160}municipale dei trasporti di Roma, da parte della Regione
Lazio, che ha allontanato i rischi di sgombero e fornito speranze di radicamento e
ulteriore crescita allo spazio. La prospettiva è quella di rendere la Casa il primo
«bene comune femminista» in Italia, attraverso decisioni prese in forma assembleare
e un regolamento di auto-governo che ne sancisca il carattere alternativo sia
rispetto alla logica del mercato privato, sia a quella del sistema pubblico dei
servizi di cura.
4.2. Ri-Make: il mutualismo come cura
Ri-Make è stato uno spazio
autogestito che, fino allo sgombero del luglio 2022, aveva sede in un ex liceo
recuperato all’uso comune
[3]
. Il fine con cui nasce è quello di attuare pratiche mutualistiche
[4]
nel quartiere in cui era situato, come forma di risposta ai bisogni
fondamentali in alternativa alla logica assistenzialista sia delle istituzioni, sia
delle associazioni del settore privato. Questo approccio si è rivelato
particolarmente importante durante la pandemia, quando i bisogni alimentari,
lavorativi e psicologici delle persone sono drasticamente aumentati, spesso senza
trovare risposta presso la rete dei servizi territoriali.
Le attività principali ruotavano
intorno alla rete di distribuzione alimentare Fuorimercato, con un pranzo popolare
ogni domenica, un mercatino e un gruppo di acquisto solidale. Vi erano poi una
scuola di italiano per donne straniere e uno sportello di «alfabetizzazione
sindacale» volto a prendere in carico anche le tante situazioni che non trovano
risposta nel sindacalismo ufficiale, e a tenere al centro non solo il
¶{p. 161}lavoro produttivo ma anche quello riproduttivo, andando a
intercettare, come spiega un’attivista, «gli effetti della divisione sessuale del
lavoro sul mercato, la collocazione delle donne in tutti i contesti di lavoro di
cura e la condizione delle donne come lavoratrici tra le mura di casa». Lo sportello
di «alfabetizzazione sindacale» si è sviluppato soprattutto durante la pandemia con
il progetto «Non Sei Sola, Non Sei Solo», quando le problematiche lavorative si sono
acuite enormemente.
La pandemia ha cambiato anche il
lavoro sul cibo, che è diventato consegna a domicilio della spesa, con una
esplosione di partecipazione nel quartiere; e ha indotto a costruire una serie di
servizi di aiuto alla genitorialità: babysitter solidale, doposcuola, centri estivi
autogestiti. Durante il lockdown, infatti, è emerso un bisogno di supporto a tutte
quelle famiglie che non riuscivano a gestire l’isolamento e la cura dei bambini, la
didattica a distanza, o le attenzioni particolari a figli disabili. Ri-Make creò
dunque un network di babysitter, che potesse offrire supporto e riposo a genitori –
in particolare madri – esauste o impossibilitate alla cura perché impegnate in smart
working o in lavori «essenziali».
Questa pratica di messa in
comune del lavoro di cura e riproduttivo è stata acquisita dal collettivo negli anni
passati, grazie alla collaborazione con il nodo milanese del movimento femminista
«Non Una di Meno». La collaborazione si è poi interrotta e i collettivi femministi
una volta presenti a Ri-Make ne sono usciti. Tuttavia, nel collettivo ancora
esistente (nonostante la mancanza della sede) che è a prevalenza maschile è rimasta
forte la convinzione che forme di socializzazione della cura e del lavoro
riproduttivo debbano essere al cuore dell’azione.
Ciò spiega anche la centralità
assunta dalla parola «cura» nell’autonarrazione dei partecipanti. Gli intervistati
parlano di un «patto di cura» per descrivere sia i contenuti delle pratiche di
mutualismo – inteso come la capacità di «rispondere ai bisogni sociali e ai desideri
di tutt* attraverso la solidarietà reciproca» e la messa a disposizione di «tempo,
competenze, beni, saperi, arti e qualsiasi strumento ¶{p. 162}sia
necessario alle pratiche e ai progetti»
[5]
–, sia le modalità di decisione e azione, basate sui principi di
autogestione, orizzontalità, inclusività e partecipazione – elementi ritenuti
necessari alla sfida quotidiana per creare alternative ai modelli di tipo
assistenziale. La riflessione sulla cura, mutuata dal femminismo, si è poi
trasformata in pratica quotidiana nell’esperienza della pandemia.
Quello di cura viene ritenuto il
concetto adeguato a descrivere una pluralità di pratiche che vanno dal lavoro sul
cibo come «ecologia della cura» al pranzo popolare come «cura nello stare assieme»;
dal mettere in comune «conoscenze per aiutare persone che da sole non ce la
farebbero sul lavoro o sulla casa», alla scuola di italiano, al centro estivo, al
doposcuola. L’idea è, dice un intervistato «rispondere dal basso a degli aspetti di
cui vieni privato o privata soprattutto in una città come questa, quando non sei
solvibile»; o, nelle parole di un’altra, «portare al di fuori delle mura di casa
tutto un pezzo di riproduzione sociale e riorganizzarla in termini collettivi e
condivisi».
La dimensione collettiva,
democratica e partecipativa è poi ciò che distingue questo modo di intendere la cura
da una visione limitata alla relazione dualistica di «un soggetto che si prende cura
di un altro soggetto». L’intenzione è rompere quell’isolamento tipico della società
capitalista e cresciuto esponenzialmente a causa della pandemia. Questo ha
riguardato anche la cura delle relazioni tra i membri del collettivo. La questione
del prendersi cura di sé stessi è emersa ancor di più durante la pandemia quando le
fatiche divenivano difficili da sopportare e l’isolamento rendeva tutto più pesante.
Come afferma un’attivista, «questo periodo di lockdown ha fatto emergere anche le
solitudini emotive e l’affrontarle insieme penso sia una cosa molto importante».
Le relazioni interne al
collettivo e le relazioni con quelli che il linguaggio convenzionale chiamerebbe
«beneficiari» di Ri-Make si sviluppavano attraverso i momenti assembleari, ovvero
l’assemblea di coordinamento settimanale ¶{p. 163}e l’assemblea
mensile «Ri-Make bene comune» con tutti i soggetti che animavano lo spazio, per far
sì che lo spazio stesso fosse vissuto come un bene del quartiere e che le pratiche
di mutualismo dal basso fossero veramente tali, non percepite come dei meri servizi.
È, come afferma un attivista, «creare delle forme di cura collettiva in cui queste
persone siano protagoniste di questa cura, utilizzando questo luogo come mezzo
collettivo».
4.3. Casa Tina: la cura per la sopravvivenza
Casa Ernestina Parra (Casa Tina) è
il nome dato nel 2019 alla casa delle donne creata grazie a un progetto di cooperazione
a Soacha, vicino a Bogotá, dall’Ong italiana Pangea. Con la fine del progetto realizzato
in collaborazione con il Ministero degli Esteri italiano, e con l’esplodere della
pandemia di Covid-19, sono venuti a mancare i fondi per mantenere lo spazio fisico
iniziale. Tuttavia, il progetto di Casa Tina, gestito da donne locali in collaborazione
con l’Ong colombiana Centrap e dotato ora di una piccola sede, rimane uno spazio
simbolico e un centro di risorse importante per il territorio
[6]
.
Il team è composto da leader
comunitarie locali, che lavorano insieme a professioniste stipendiate (psicologa,
avvocata, esperta in comunicazione) per offrire alle donne della municipalità sostegno
psicologico e legale in caso di violenza, informazioni sulla salute sessuale e
riproduttiva, strumenti di empowerment e autonomia economica.
Tra le parole chiave utilizzate
nell’autonarrazione delle partecipanti, ricorrono «accoglienza», «benessere»,
«prossimità» e, ancora una volta, «cura». «Io penso che perché ci sia una società della
cura dobbiamo innanzitutto capire che tutti abbiamo traiettorie di vita diverse e
differenziate», dice una delle animatrici del progetto. «La cura è questo:
¶{p. 164}riconoscere le esperienze di vita e vedere come posso
avvicinarmi a quei dolori, a quei piaceri, di cui ha bisogno questo essere umano. Quindi
penso che una società della cura richieda innanzitutto capire questo e poi generare
spazi sicuri dove possiamo riconoscere l’altro».
Note
[3] Anche dopo lo sgombero di luglio 2022, molte delle attività sono ancora in essere. Continua il mercato domenicale, mentre è iniziato un progetto con le case popolari di via Senigallia per realizzare attività sindacali e di supporto al diritto alla casa. Per quanto riguarda il doposcuola e la scuola di italiano, si sta esplorando la possibilità di realizzarli nella biblioteca comunale.
[4] Sul mutualismo si vedano Cannavò [2018]; Spade [2020]; Mazzone [2021].
[5] Così si legge nella bozza del Patto per l’autogestione e cura condivisa di un bene comune, che è stata condivisa con le ricercatrici.
[6] Attualmente, grazie al contributo della Ong svizzera Focus Frauen, è stato possibile ottenere una nuova sede dotata di spazi adeguati a tutte le attività.