Pandemocrazia
DOI: 10.1401/9788815411297/c7
un’attività della specie [a species activity] che include tutto ciò che facciamo per mantenere, continuare e riparare il nostro «mondo» in modo da poterci vivere nel modo migliore possibile. Quel mondo include i nostri corpi, noi stessi e il nostro ambiente, tutto ciò che cerchiamo di intrecciare in una rete complessa a sostegno della vita [Tronto 2013, 19].¶{p. 154}
Questa enunciazione appare capace di
rimandare, da un lato, a un insieme variegato di attività cui si può dare il nome di
lavoro di cura, espandendone al massimo i confini. Al suo interno si possono
ricomprendere tanto il lavoro domestico quanto quello educativo, tanto i servizi
sanitari quanto le azioni di tutela dell’ambiente – non solo nelle forme oggi
codificate, riconosciute, e più o meno retribuite, ma in tutte le forme che le persone e
le collettività sono capaci di mettere in campo. Dall’altro lato, la definizione rimanda
all’ideale normativo del perseguire una vita buona, il modo migliore possibile di vivere
nel mondo, con implicazioni etiche, sociali, politiche, culturali.
Un altro aspetto cruciale
evidenziato da Joan Tronto è che la relazione di cura non comincia nel momento in cui
eroghiamo una cura, ma molto prima, quando prendiamo a cuore qualcosa, quando
dichiariamo «mi importa», «I care». L’autrice distingue infatti diverse «fasi» della
cura che corrispondono ad altrettante possibilità che sono contenute in questa parola.
La prima fase è caring about, ovvero il riconoscimento di bisogni
che richiedono attenzione. La seconda è caring for, ovvero
l’assunzione di una responsabilità per rispondere a tali bisogni. La terza fase è quella
più concreta del care-giving, cioè della cura effettiva erogata a
beneficio di chi ne ha bisogno. La quarta è quella del
care-receiving, e riguarda le risposte dei beneficiari alle
cure ricevute [Tronto 2006]. Queste quattro fasi del care
consentono a tutte e tutti di sviluppare capacità, ci rendono «attenti, responsabili,
competenti e reattivi» [Tronto 2015, 8].
Possiamo insomma pensare la cura
come un sistema complesso di attività di manutenzione del vivente. Pensarla come la
risposta che diamo, a livello individuale e collettivo, alla condizione umana e non
umana di vulnerabilità; una risposta basata sul vincolo di reciproca dipendenza, di
interdipendenza, che ci lega tra noi e al mondo che abitiamo. Il dato da cui partire è
che gli esseri umani non sono solo agenti razionali, ma anche soggetti capaci di cura e
bisognosi di cura, in quanto «non possono raggiungere la padronanza di sé da soli»
[Tronto 2017, 31]. ¶{p. 155}
Il concetto di cura è perciò anche
un invito a «disinvestire nella fantasia del soggetto autosufficiente, che vorrebbe
bastare a sé stesso, ignorando la propria dipendenza da altri corpi, da altre forme
viventi e non viventi, incluse le sostanze organiche e i processi chimici alla base dei
combustibili fossili» [Fragnito e Tola 2021, 8]. E, su queste premesse, un invito a
mettere in questione la struttura dei valori nella nostra società, cioè riconoscere che
la cura non è una dimensione secondaria e una preoccupazione particolaristica delle
donne o di altri soggetti subalterni cui è stata tradizionalmente delegata, bensì una
questione centrale, che le istituzioni politiche e sociali sono chiamate a riflettere.
Quello della cura è infatti un
terreno su cui si esercitano forme di potere e si intrecciano, in modi complessi,
diseguaglianze di genere, razziali, sociali, giuridiche. Una visione non edulcorata
della cura, che ne sveli le nervature conflittuali, conduce dinnanzi a una serie di
domande cruciali. È giusto che la società sia organizzata in un modo che consente ad
alcuni di vedere i propri bisogni soddisfatti in virtù del proprio privilegio, mentre i
bisogni fondamentali di altri restano insoddisfatti? È giusto che a prestare le cure
necessarie alla vita siano alcune categorie sociali, mentre altre se ne ritengono
esentate? È giusto che le discussioni sulla cura ignorino il punto di vista di chi la
riceve?
Porre interrogativi simili significa
trattare questa come una materia squisitamente politica: un problema di giustizia e un
ambito di pensiero e azione che riguarda da vicino la nostra idea di eguale libertà.
Joan Tronto ha evidenziato il doppio
deficit, di democrazia e di cura, che discende dall’aver assunto il mercato come
misuratore di performance e mezzo per la soddisfazione dei bisogni umani:
Il deficit di cura si riferisce all’incapacità dei Paesi avanzati di trovare abbastanza personale di cura per soddisfare i bisogni delle persone, dei loro figli, dei genitori e parenti anziani e dei familiari infermi. Il deficit democratico si riferisce all’incapacità delle istituzioni governative di riflettere i valori e le idee reali dei cittadini. Quello che nessuno sembra aver riconosciuto, tuttavia, è che questi deficit sono due facce della stessa medaglia [Tronto 2013, 11]. ¶{p. 156}
Il nesso tra pratica della cura e
cittadinanza democratica è di tipo bidirezionale. Da un lato, poiché la democrazia
riposa sul fondamento dell’eguaglianza tra i cittadini, la politica non può ignorare le
diseguaglianze che ostacolano di fatto la partecipazione sociale di coloro che non
ricevono cure adeguate o che si vedono attribuita una quota sproporzionata dei compiti
di cura. Dall’altro lato, è la stessa democrazia, in quanto forma di governo basata
sulla partecipazione dei cittadini, ad avere bisogno di cura costante [Serughetti 2020].
Una società democratica è quella in
cui tutti, non solo pochi, possono vivere bene. Da cui la necessità di costruire una
caring democracy, una democrazia della cura o una democrazia
che cura, dove la risposta ai bisogni vitali di tutti e tutte, insieme a una
redistribuzione equa delle responsabilità, sia assunta come questione centrale.
Un simile progetto implica
immaginare sistemi di welfare universalistici, non familistici né sciovinisti, elaborare
una visione egualitaria dei ruoli di cura, sotto il rispetto del genere, della classe,
della «razza», della nazionalità, e una politica capace di creare senso di solidarietà,
appartenenza, capacità di agire, così da garantire non solo la presa in carico dei
bisogni di tutte e tutti, ma anche la partecipazione di tutte e tutti alla definizione
dei bisogni stessi e delle risposte.
4. Comunità di cura: tre casi di studio
È muovendo dalla diagnosi di una relazione
biunivoca tra crisi della cura neoliberale e crisi della democrazia che, nella nostra
ricerca, abbiamo provato a interrogarci su come l’attualizzazione pratica dell’ideale di
una cura collettiva e condivisa – sottratta, quindi, sia al dominio del mercato sia alle
gerarchie di genere che organizzano la divisione tra lo spazio pubblico e quello
domestico – possa aprire orizzonti immaginativi per una politica trasformativa.
Per far questo, abbiamo analizzato
alcune pratiche localizzate di auto-organizzazione, orientate a rispondere ai bisogni e
costruire comunità, che fanno un uso ¶{p. 157}politico del concetto di
cura, e che hanno potenziato in particolare questo approccio nel contesto della pandemia
di Covid-19.
I tre casi di studio che abbiamo
scelto di esaminare – Casa delle donne Lucha y Siesta a Roma, spazio Ri-Make a Milano e
Casa Ernestina Parra a Soacha (Colombia) – non pretendono di essere esemplari né
rappresentativi del vasto panorama di esperienze di auto-organizzazione in forma di
mutuo soccorso, reti di vicinato, case delle donne o altre forme di sostegno di
prossimità, sviluppate o potenziate in Italia e in altri Paesi nel contesto della
pandemia di Covid-19.
Si tratta di realtà con cui siamo
entrate in contatto, in modi e momenti diversi, nell’ambito di ricerche e occasioni di
discussione pubblica sul tema della cura, e che abbiamo deciso di esplorare attraverso
interviste a persone che le animano e le vivono
[1]
. In particolare, abbiamo rivolto la nostra attenzione al modo in cui questi
luoghi e progetti si autonarrano, e al significato che assume in questi discorsi il
concetto di cura; ma anche alle pratiche quotidiane, ai rapporti tra chi eroga cura e
chi la riceve, e ai processi decisionali di tipo orizzontale che vengono messi in atto.
4.1. Lucha y Siesta: la cura come bene comune
La Casa delle donne Lucha y
Siesta nasce nel 2008 dall’iniziativa di un gruppo di attiviste, molte delle quali
appartenenti ai movimenti per il diritto all’abitare, volta a «liberare spazi» per
dare ospitalità alle donne che subiscono ogni forma di violenza. Si tratta quindi di
un’esperienza di chiara ispirazione femminista. Ed è attraverso
¶{p. 158}la lente del femminismo che vi troviamo richiamate e
interpretate le nozioni di cura e quella, che a essa si lega, di bene comune
[2]
.
La Casa è gestita da un
collettivo di circa quindici donne – alcune presenti dal momento della fondazione,
altre giunte più tardi. L’assemblea di gestione però comprende, oltre al collettivo,
tutte le persone che vivono nella Casa, avendovi trovato rifugio nei percorsi di
fuoriuscita dalla violenza. Molto negli anni è stato fatto per rendere le pratiche
decisionali inclusive, e lo spazio rispettoso delle diversità e basato
sull’autogestione. Lucha y Siesta, infatti, non offre accoglienza in un’ottica
assistenzialista, bensì in un’ottica di autogestione, funzionale anche alla
costruzione di empowerment e autonomia per le donne che cercano
un proprio percorso di fuoriuscita dalla violenza. Tutte le persone che vi abitano
sono responsabili dell’organizzazione dello spazio, e questo lo rende un luogo che
le ospiti sentono come proprio, a differenza della grande maggioranza dei centri di
accoglienza dove invece prevale una logica assistenzialista. «Questa è stata una
delle cose molto chiare fin dall’inizio, poi siamo diventate più brave a farlo ma
l’idea c’era: non voler essere un servizio assistenziale», spiega una componente del
collettivo. Questo tipo di servizio «sembra un po’ nell’immaginario collettivo la
cosa più “di cura” che puoi fare, invece in fondo è quella in cui hai meno cura, ti
sostituisci, ti metti in una posizione di alterità rispetto alla persona di cui ti
prendi cura».
La cura è un concetto cardine di
questo progetto, ed è declinata in numerose accezioni: come cura delle persone
ospitate; come attenzione alle relazioni interne ed esterne; come cura dello spazio;
come ricerca di modalità decisionali e gestionali che siano più democratiche
possibili, inclusive e vicine alle beneficiarie. Questo si è tradotto in un
regolamento della Casa che è stato rivisto e cambiato innumerevoli volte nel corso
degli anni. Lo stesso vale per le modalità dell’assemblea di gestione. Vi è stata
una particolare attenzione al linguaggio, perché fosse inclusivo
¶{p. 159}ma anche comprensibile da donne migranti, con difficoltà
nel capire l’italiano. Inoltre, si è lavorato molto sul tempo e sull’attenzione a
dare intervalli temporali giusti che permettessero a tutte di partecipare
attivamente.
Note
[1] A questo scopo, sono state realizzate quattro interviste in profondità ad attiviste della Casa delle donne Lucha y Siesta, quattro a promotrici del progetto Casa Tina, un’intervista individuale e una di gruppo (con sette partecipanti) a membri del collettivo di Ri-Make. L’attività di rilevazione si è svolta tra luglio e dicembre 2021. Parte delle attività di rilevazione è stata realizzata in modalità telematica, per impedimenti dovuti all’emergenza sanitaria del Covid-19.
[2] Su femminismo e beni comuni si veda Federici [2021].