Marina Calloni (a cura di)
Pandemocrazia
DOI: 10.1401/9788815411297/c7
La cura è un concetto cardine di questo progetto, ed è declinata in numerose accezioni: come cura delle persone ospitate; come attenzione alle relazioni interne ed esterne; come cura dello spazio; come ricerca di modalità decisionali e gestionali che siano più democratiche possibili, inclusive e vicine alle beneficiarie. Questo si è tradotto in un regolamento della Casa che è stato rivisto e cambiato innumerevoli volte nel corso degli anni. Lo stesso vale per le modalità dell’assemblea di gestione. Vi è stata una particolare attenzione al linguaggio, perché fosse inclusivo
{p. 159}ma anche comprensibile da donne migranti, con difficoltà nel capire l’italiano. Inoltre, si è lavorato molto sul tempo e sull’attenzione a dare intervalli temporali giusti che permettessero a tutte di partecipare attivamente.
Un’attenzione particolare è rivolta poi alle relazioni all’interno del collettivo di gestione. Se infatti negli anni questo non è stato esente da conflitti, le attiviste che lo compongono hanno sempre prestato molta attenzione a sorreggersi a vicenda, soprattutto in occasione di eventi traumatici per la comunità. A questo fine hanno istituito anche una «riunione di cura», separata dall’assemblea di gestione e da quelle del collettivo, dove poter dare spazio alle necessità di ascolto e relazione, e di emersione dei conflitti e dei bisogni di ognuna. «Ci siamo date uno spazio e un tempo un po’ più dilatato: non è la riunione settimanale, è la riunione di cura».
Un grande lavoro è stato prestato negli anni anche alla cura dello spazio fisico, dalla casa al giardino, dalle fogne all’orto, dalla sartoria agli spazi comuni, perché divenisse un luogo accogliente e inclusivo. Queste pratiche interne, modificatesi nel tempo, sono andate infine di pari passo con il processo di interazione e mediazione con lo spazio esterno, inteso sia come istituzioni che come territorio circostante.
Rispetto al territorio, la Casa delle donne rappresenta un luogo aperto, un punto di aggregazione per il quartiere, e di condivisione di strumenti e risorse, che è rimasto attivo anche durante la pandemia. Nella fase più acuta del contagio, quando il tasso di violenza contro le donne da parte di mariti e compagni è aumentato notevolmente, la Casa ha continuato a funzionare come uno spazio di accoglienza, ma ha dovuto ridurre il numero delle stanze disponibili per proteggere le donne dal virus.
Con le istituzioni locali il rapporto è stato sempre difficile, tuttavia la Casa è riuscita ad affiancare al conflitto con le istituzioni – elemento necessario per la propria sopravvivenza e affermazione come luogo nato dal basso – una costante mediazione. Ne è derivata nel 2021 l’acquisizione dell’immobile, precedentemente di proprietà dell’Azienda {p. 160}municipale dei trasporti di Roma, da parte della Regione Lazio, che ha allontanato i rischi di sgombero e fornito speranze di radicamento e ulteriore crescita allo spazio. La prospettiva è quella di rendere la Casa il primo «bene comune femminista» in Italia, attraverso decisioni prese in forma assembleare e un regolamento di auto-governo che ne sancisca il carattere alternativo sia rispetto alla logica del mercato privato, sia a quella del sistema pubblico dei servizi di cura.

4.2. Ri-Make: il mutualismo come cura

Ri-Make è stato uno spazio autogestito che, fino allo sgombero del luglio 2022, aveva sede in un ex liceo recuperato all’uso comune [3]
. Il fine con cui nasce è quello di attuare pratiche mutualistiche [4]
nel quartiere in cui era situato, come forma di risposta ai bisogni fondamentali in alternativa alla logica assistenzialista sia delle istituzioni, sia delle associazioni del settore privato. Questo approccio si è rivelato particolarmente importante durante la pandemia, quando i bisogni alimentari, lavorativi e psicologici delle persone sono drasticamente aumentati, spesso senza trovare risposta presso la rete dei servizi territoriali.
Le attività principali ruotavano intorno alla rete di distribuzione alimentare Fuorimercato, con un pranzo popolare ogni domenica, un mercatino e un gruppo di acquisto solidale. Vi erano poi una scuola di italiano per donne straniere e uno sportello di «alfabetizzazione sindacale» volto a prendere in carico anche le tante situazioni che non trovano risposta nel sindacalismo ufficiale, e a tenere al centro non solo il {p. 161}lavoro produttivo ma anche quello riproduttivo, andando a intercettare, come spiega un’attivista, «gli effetti della divisione sessuale del lavoro sul mercato, la collocazione delle donne in tutti i contesti di lavoro di cura e la condizione delle donne come lavoratrici tra le mura di casa». Lo sportello di «alfabetizzazione sindacale» si è sviluppato soprattutto durante la pandemia con il progetto «Non Sei Sola, Non Sei Solo», quando le problematiche lavorative si sono acuite enormemente.
La pandemia ha cambiato anche il lavoro sul cibo, che è diventato consegna a domicilio della spesa, con una esplosione di partecipazione nel quartiere; e ha indotto a costruire una serie di servizi di aiuto alla genitorialità: babysitter solidale, doposcuola, centri estivi autogestiti. Durante il lockdown, infatti, è emerso un bisogno di supporto a tutte quelle famiglie che non riuscivano a gestire l’isolamento e la cura dei bambini, la didattica a distanza, o le attenzioni particolari a figli disabili. Ri-Make creò dunque un network di babysitter, che potesse offrire supporto e riposo a genitori – in particolare madri – esauste o impossibilitate alla cura perché impegnate in smart working o in lavori «essenziali».
Questa pratica di messa in comune del lavoro di cura e riproduttivo è stata acquisita dal collettivo negli anni passati, grazie alla collaborazione con il nodo milanese del movimento femminista «Non Una di Meno». La collaborazione si è poi interrotta e i collettivi femministi una volta presenti a Ri-Make ne sono usciti. Tuttavia, nel collettivo ancora esistente (nonostante la mancanza della sede) che è a prevalenza maschile è rimasta forte la convinzione che forme di socializzazione della cura e del lavoro riproduttivo debbano essere al cuore dell’azione.
Ciò spiega anche la centralità assunta dalla parola «cura» nell’autonarrazione dei partecipanti. Gli intervistati parlano di un «patto di cura» per descrivere sia i contenuti delle pratiche di mutualismo – inteso come la capacità di «rispondere ai bisogni sociali e ai desideri di tutt* attraverso la solidarietà reciproca» e la messa a disposizione di «tempo, competenze, beni, saperi, arti e qualsiasi strumento {p. 162}sia necessario alle pratiche e ai progetti» [5]
–, sia le modalità di decisione e azione, basate sui principi di autogestione, orizzontalità, inclusività e partecipazione – elementi ritenuti necessari alla sfida quotidiana per creare alternative ai modelli di tipo assistenziale. La riflessione sulla cura, mutuata dal femminismo, si è poi trasformata in pratica quotidiana nell’esperienza della pandemia.
Quello di cura viene ritenuto il concetto adeguato a descrivere una pluralità di pratiche che vanno dal lavoro sul cibo come «ecologia della cura» al pranzo popolare come «cura nello stare assieme»; dal mettere in comune «conoscenze per aiutare persone che da sole non ce la farebbero sul lavoro o sulla casa», alla scuola di italiano, al centro estivo, al doposcuola. L’idea è, dice un intervistato «rispondere dal basso a degli aspetti di cui vieni privato o privata soprattutto in una città come questa, quando non sei solvibile»; o, nelle parole di un’altra, «portare al di fuori delle mura di casa tutto un pezzo di riproduzione sociale e riorganizzarla in termini collettivi e condivisi».
La dimensione collettiva, democratica e partecipativa è poi ciò che distingue questo modo di intendere la cura da una visione limitata alla relazione dualistica di «un soggetto che si prende cura di un altro soggetto». L’intenzione è rompere quell’isolamento tipico della società capitalista e cresciuto esponenzialmente a causa della pandemia. Questo ha riguardato anche la cura delle relazioni tra i membri del collettivo. La questione del prendersi cura di sé stessi è emersa ancor di più durante la pandemia quando le fatiche divenivano difficili da sopportare e l’isolamento rendeva tutto più pesante. Come afferma un’attivista, «questo periodo di lockdown ha fatto emergere anche le solitudini emotive e l’affrontarle insieme penso sia una cosa molto importante».
Le relazioni interne al collettivo e le relazioni con quelli che il linguaggio convenzionale chiamerebbe «beneficiari» di Ri-Make si sviluppavano attraverso i momenti assembleari, ovvero l’assemblea di coordinamento settimanale {p. 163}e l’assemblea mensile «Ri-Make bene comune» con tutti i soggetti che animavano lo spazio, per far sì che lo spazio stesso fosse vissuto come un bene del quartiere e che le pratiche di mutualismo dal basso fossero veramente tali, non percepite come dei meri servizi. È, come afferma un attivista, «creare delle forme di cura collettiva in cui queste persone siano protagoniste di questa cura, utilizzando questo luogo come mezzo collettivo».

4.3. Casa Tina: la cura per la sopravvivenza

Casa Ernestina Parra (Casa Tina) è il nome dato nel 2019 alla casa delle donne creata grazie a un progetto di cooperazione a Soacha, vicino a Bogotá, dall’Ong italiana Pangea. Con la fine del progetto realizzato in collaborazione con il Ministero degli Esteri italiano, e con l’esplodere della pandemia di Covid-19, sono venuti a mancare i fondi per mantenere lo spazio fisico iniziale. Tuttavia, il progetto di Casa Tina, gestito da donne locali in collaborazione con l’Ong colombiana Centrap e dotato ora di una piccola sede, rimane uno spazio simbolico e un centro di risorse importante per il territorio [6]
.
Il team è composto da leader comunitarie locali, che lavorano insieme a professioniste stipendiate (psicologa, avvocata, esperta in comunicazione) per offrire alle donne della municipalità sostegno psicologico e legale in caso di violenza, informazioni sulla salute sessuale e riproduttiva, strumenti di empowerment e autonomia economica.
Tra le parole chiave utilizzate nell’autonarrazione delle partecipanti, ricorrono «accoglienza», «benessere», «prossimità» e, ancora una volta, «cura». «Io penso che perché ci sia una società della cura dobbiamo innanzitutto capire che tutti abbiamo traiettorie di vita diverse e differenziate», dice una delle animatrici del progetto. «La cura è questo:
{p. 164}riconoscere le esperienze di vita e vedere come posso avvicinarmi a quei dolori, a quei piaceri, di cui ha bisogno questo essere umano. Quindi penso che una società della cura richieda innanzitutto capire questo e poi generare spazi sicuri dove possiamo riconoscere l’altro».
Note
[3] Anche dopo lo sgombero di luglio 2022, molte delle attività sono ancora in essere. Continua il mercato domenicale, mentre è iniziato un progetto con le case popolari di via Senigallia per realizzare attività sindacali e di supporto al diritto alla casa. Per quanto riguarda il doposcuola e la scuola di italiano, si sta esplorando la possibilità di realizzarli nella biblioteca comunale.
[4] Sul mutualismo si vedano Cannavò [2018]; Spade [2020]; Mazzone [2021].
[5] Così si legge nella bozza del Patto per l’autogestione e cura condivisa di un bene comune, che è stata condivisa con le ricercatrici.
[6] Attualmente, grazie al contributo della Ong svizzera Focus Frauen, è stato possibile ottenere una nuova sede dotata di spazi adeguati a tutte le attività.