I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c2
b) esistono invece vincoli per l’autonomia privata (collettiva e
¶{p. 197}individuale) posti da specifiche discipline legislative che regolano il trattamento economico di determinati istituti;
c) l’autonomia privata conserva piena libertà di determinare misura e modalità di computo di emolumenti dalla stessa introdotti, ferma restando la possibilità di ricorrere all’accezione «onnicomprensiva» della retribuzione, e in particolare al criterio della continuità che ne costituisce il tratto fondamentale, in funzione interpretativa di clausole collettive ambigue o che facciano riferimento alla retribuzione senza ulteriori specificazioni.
Tutti e tre gli assunti, tenuto conto di quanto detto in precedenza, meritano di essere condivisi. Si è visto, infatti, come di onnicomprensività della retribuzione, in senso proprio e rigoroso, non possa parlarsi neppure con riferimento alla nozione accolta nell’art. 2121 cod. civ. (vecchio testo): tanto meno può parlarsi di un principio di onnicomprensività costruito in via di generalizzazione di quella nozione. Il massimo punto di accostamento alla sostanza economica (onnicomprensiva) dell’istituto retribuzione resta rintracciabile, sul piano delle definizioni positive, nella normativa previdenziale
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; diversamente, ricorrendo ai principi generali, nella nozione di retribuzione-corrispettivo.
Quando, invece, si tratti di determinare la base di calcolo di istituti del rapporto di lavoro, il riferimento all’onnicomprensività va inteso solo in senso atecnico e, comunque, più circoscritto: tenendo conto, cioè, della distinzione, che si è tracciata, fra parte diretta e parte indiretta della retribuzione e considerando onnicomprensive quelle nozioni che comprendano (quanto meno) tutti gli elementi della prima.
Anche in questi casi, peraltro, occorre distinguere. L’onnicomprensività, infatti, pur in quest’accezione più limitata, è suscettibile di colorarsi in modo differente in relazione a ciascun istituto rispetto al quale venga in rilievo, essendo, ad esempio, cosa ¶{p. 198}ben diversa la questione del computo dell’indennità di anzianità, su cui giocano anche le mensilità aggiuntive, da quella della determinazione del trattamento delle ferie, che dagli emolumenti corrisposti in ragione di anno prescinde.
Nei termini appena indicati si comprende in qual senso sia opportuno valorizzare la distinzione, forse presente fra le righe della sentenza n. 5887/1981 delle Sezioni Unite e comunque affiorata in altre decisioni della Cassazione, fra istituti contrattuali e istituti legali
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: non perché rispetto a questi ultimi sia possibile applicare un indifferenziato principio di onnicomprensività retributiva, ma perché si rende necessario ricercare quale sia stata l’intenzione del legislatore nella conformazione della relativa disciplina e quali vincoli ne derivino all’autonomia privata nella determinazione del trattamento retributivo delle competenze indirette (e delle maggiorazioni).
Si comprende altresì la correttezza del richiamo operato dalla giurisprudenza alla continuità di corresponsione per identificare gli emolumenti computabili nella base di calcolo delle diverse competenze indirette. Quel criterio, infatti, resta il più adatto ad isolare il nucleo stabile della parte diretta della retribuzione, quello cioè che viene in rilievo quando si voglia individuare il reddito normalmente percepito dal lavoratore (retribuzione feriale), e che, verosimilmente, le parti collettive hanno avuto come punto di riferimento, assumendo come parametro la «retribuzione», o utilizzando espressioni parimenti indeterminate, e non diversamente interpretabili alla luce del complesso delle clausole negoziali.
Il richiamo alla continuità, del resto, proprio in ragione della specifica attitudine di tale criterio selettivo, è stato utilizzato dal legislatore anche in fattispecie diverse da quella inerente al calcolo dell’indennità di anzianità (indennità sostitutiva del preavviso, tredicesima mensilità dei portieri). Contrariamente, inoltre, a quanto si è sostenuto in dottrina
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, il criterio non è affatto sconosciuto alla contrattualistica, la quale anzi, come si è visto, mostra ¶{p. 199}di servirsene di frequente per la quantificazione delle diverse competenze indirette.
Il criterio alternativo proposto in dottrina, basato sulla distinzione fra indennità «intrinseche» ed «estrinseche», risulta, invece, privo di significativi punti di appoggio nei contratti collettivi e comunque, a parte le incertezze interpretative cui darebbe luogo una sua generalizzata applicazione, si presta a molteplici valutazioni critiche.
Inaccettabile, innanzitutto, è da considerare l’ambiguo recupero di una qualificazione in termini risarcitoti della gran parte (o di tutti?) gli emolumenti accessori che esso implica
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. Egualmente arbitraria la connessa separazione, all’interno del corrispettivo salariale, fra tali emolumenti ed altri elementi retributivi, che sarebbero «essenziali all’oggetto del contratto di lavoro ovvero al suo modello legale»
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, in quanto erogati a fronte della messa a disposizione di energie professionali particolarmente qualificate.
Rispetto a tale artificiosa costruzione va ribadito che il valore di scambio della prestazione lavorativa non è espresso dai soli compensi legati alla professionalità, ma dall’insieme delle erogazioni patrimoniali di natura retributiva corrisposte dal datore di lavoro. Le particolari modalità di esecuzione della prestazione, in altri termini, non costituiscono un mero accidente, ma agiscono necessariamente sulla specifica qualità della stessa, accrescendone il valore di mercato: come tali sono riconosciute dalle parti collettive e remunerate con l’attribuzione di determinati compensi. Si pensi, per fare un esempio, alle prestazioni di lavoro notturno a turni alternati che potrebbero, a norma di legge, essere retribuite non differentemente dal lavoro diurno, ma che i contratti collettivi hanno sempre reputato di valore superiore e compensato in misura maggiorata.
Nessun rilievo, a favore della tesi criticata, può trarsi, d’altro canto, dalla circostanza che le modalità della prestazione siano remunerate con compensi aggiuntivi rispetto alla paga base, trat¶{p. 200}tandosi di un mero accorgimento di tecnica contrattuale, peraltro necessario a fronte di emolumenti destinati a non essere percepiti da tutti i lavoratori interessati dalla singola disciplina collettiva.
L’opinione restrittiva si è servita anche di argomenti che, pur apparentemente suggestivi, finiscono col provare troppo. L’espunzione delle voci accessorie dalla base di calcolo delle competenze indirette sembra, ad esempio, difficilmente sostenibile muovendo dal rilievo che esse «sono, più delle altre, intimamente connesse all’effettiva prestazione di lavoro»
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. Tutta la retribuzione, infatti, a ben vedere è intimamente legata alla prestazione di lavoro, cosicché, una volta ammesso, per legge o per contratto, l’obbligo di corrisponderla anche in assenza di attività lavorativa o, per meglio dire, senza un legame diretto con specifiche prestazioni di lavoro, il problema di individuare il parametro di riferimento quantitativo di tale obbligo resta ancora al punto di partenza. Quando occorra determinare un certo valore monetario, in altre parole, la specifica funzione di ciascuna voce presente in busta paga perde di significato, dovendosi, piuttosto, avere riguardo al complessivo coacervo salariale (in tutto o in parte, a seconda dei casi).
Non più convincente appare il richiamo al principio di parità, non soltanto per le ragioni già illustrate (retro, par. 6), ma anche quando risulta sostenuto dalla considerazione che le esigenze che devono essere soddisfatte dal trattamento retributivo delle ferie o dalle mensilità aggiuntive sono le medesime per tutti i lavoratori, cosicché sarebbe conseguente prescindere nella rispettiva quantificazione da compensi che vengono erogati soltanto a quelli, fra essi, che si trovano a svolgere la propria prestazione in condizioni particolari
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.
Anche tale ragionamento, a un esame più attento, si mostra costruito su un salto logico. Se si afferma, in omaggio al principio di parità, la necessaria espunzione delle indennità accessorie dalla base di calcolo delle competenze indirette, bisognerebbe poi portare la tesi alle estreme conseguenze: sostenere, cioè, che, a fronte di esigenze identiche per tutti i lavoratori, la retribuzione feriale, ad esempio, andrebbe a tutti corrisposta in cifra fissa indifferen¶{p. 201}ziata, senza alcun collegamento con le retribuzioni contrattuali agganciate ai livelli di inquadramento. Siffatta conclusione, naturalmente, non è sostenuta da nessuno. L’inattendibilità dell’esito cui condurrebbe, se coerentemente sviluppata, la tesi in discussione sembra, peraltro, di per sé tale da inficiarne la credibilità
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.
Vero è che la dottrina, come si è già rilevato, ha finito con l’impegnarsi nell’enucleazione di una nozione contrattuale unitaria di retribuzione, più ristretta di quella che parte della giurisprudenza ha ritenuto di rintracciare nell’ordinamento legale ma, al pari di questa, inaccettabile. In contrasto con questa opinione dottrinale va ancora sottolineato che il riferimento alla retribuzione «normale», cruciale in essa, risulta inutilizzabile sul piano della costruzione teorica generale, non foss’altro perché, come si è visto, la nozione è assunta con significati differenti nei diversi contratti collettivi.
Sul piano delle definizioni contrattuali, d’altro canto, sembra più corretto attribuire rilievo centrale alla nozione di retribuzione di fatto, espressiva del riferimento al salario (o stipendio) individuale (anche se non necessariamente inteso nella sua accezione «onnicomprensiva»).
La ragione per la quale i contratti collettivi mostrano di privilegiare il richiamo alla nozione di retribuzione di fatto per determinare il parametro di calcolo delle competenze indirette è, del resto, facilmente comprensibile. Essa va ascritta alla volontà sindacale di esercitare uno stretto controllo sull’insieme delle erogazioni salariali, scoraggiando la propensione dei datori di lavoro all’elargizione selettiva di compensi aggiuntivi alla paga base attraverso la previsione della loro incidenza riflessa.
Tale intento è esemplarmente rispecchiato da discipline collettive, come quella dei tessili, che, dopo aver elencato analiticamente le componenti della retribuzione di fatto, impongono, con clausola di chiusura, di computarvi anche «tutti gli altri elementi retributivi comunque denominati di carattere continuativo». Pe
¶{p. 202}raltro, anche laddove i contratti collettivi si limitino a richiamare la nozione di retribuzione di fatto, senza esplicitarne ulteriormente il significato, interpretazioni di segno restrittivo non sembra possano essere avallate. La mancata specificazione della nozione, infatti, può essere frutto dell’utilizzo di una tecnica contrattuale imperfetta. Più verosimilmente è sintomo di divergenze non compiutamente superate fra le parti collettive.
Note
[316] Alla quale è da accostare, adesso, la nozione di retribuzione contenuta nella legge 29 maggio 1982, n. 297 sulla disciplina del trattamento di fine rapporto. Per l’interpretazione di tale nozione e, in particolare, del riferimento al requisito di «non occasionalità» di corresponsione degli elementi computabili, non puramente omologabile a quello di continuità previsto dalla vecchia normativa, si v., per tutti, il commento alla legge di Giugni, De Luca Tamajo e Ferraro, in «Nuove leggi civ. comm.», 1983, p. 265 s.
[317] Cfr., ad esempio, Cass., 21 giugno 1980, n. 3918, in «Rep. Foro it.», 1980, c. 1692. Il criterio è ripreso, da ultimo, in Pret. Roma, 23 marzo 1985, citata in nota 184.
[319] Cfr. Bianchi D’Urso, op. ult. cit., p. 121, che parla di «indennità volte a compensare (o forse meglio a “risarcire”) alcune qualità estrinseche ed eventuali della prestazione», contraddicendosi, peraltro, subito dopo, laddove afferma che la distinzione proposta «non incide sulla natura sostanzialmente retributiva dell’uno e dell’altro gruppo di compensi» (ivi, p. 123).
[320] Ibidem, p. 121.
[321] Persiani, op. ult. cit., p. 467.
[322] Cfr. ancora Persiani, op. loc. ult. cit.
[323] Limitatamente alla retribuzione feriale va comunque ricordato che l’esistenza di rigidità legislative nella determinazione della relativa quantificazione è comprovata dall’art. 98 delle disposizioni di attuazione del codice civile, che legittima l’intervento dell’autonomia collettiva solo per quanto riguarda la durata del periodo di riposo annuale, mentre non pone limitazioni di sorta, ad esempio, alla definizione contrattuale dell’insieme del trattamento di malattia.