Massimo Roccella
I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c2
Il più recente intervento legislativo nella materia non si sarebbe limitato, invece, a consolidare la tendenza a definire in termini amplissimi la nozione di retribuzione imponibile, ma avrebbe fatto un ulteriore, decisivo passo innanzi, abbandonando ogni riferimento all’idea di corrispettivo del lavoro e, perciò stesso, rendendo praticamente inutile il ricorso al concetto di retribuzione. Il rilievo, comune a molti osservatori [27]
, è probabilmente alquanto fuori misura. Se si osserva, infatti, attentamente l’elenco delle voci escluse dalla base imponibile ai sensi dell’art. 12 legge 30 aprile 1969, n. 153, si potrà trovarvi conferma della tendenza a ricomprendervi tutte quelle erogazioni di natura non retributiva (rimborsi a pié di lista) o in cui alla natura retributiva si accompagnano funzioni risarcitorie (diaria o indennità di trasferta in cifra fissa), previdenziali (indennità di anzianità) o assistenziali (indennità di panatica, gratificazioni una tantum) [28]
latamente intese. Da questo punto di vista l’inclusione nell’elenco dell’indennità di cassa appare come una svista del legislatore, una ripetizione tralaticia del divieto di computo già previsto dal d.p.r. 797/1955, comprensibile alla luce degli orientamenti giurisprudenziali forse dominanti negli anni ’50 e poi superati con la ripetuta affermazione della natura retributiva anche di questo emolumento, come di
{p. 107}altri consimili (indennità di rischio, di maneggio denaro) [29]
. La computabilità dell’indennità di trasferta in cifra fissa si limita a ribadire la presunzione legale circa la natura parzialmente retributiva della stessa, mentre l’elevazione al 50% della porzione valutabile risponde, con tutta evidenza, ad esigenze di accrescimento del gettito contributivo. La coerenza del disegno normativo risulta, infine, dalle modifiche apportate in tema di gratificazioni una tantum: di queste viene confermata la non assoggettabilità a contribuzione, purché però si tratti di elargizioni legate ad «eventi eccezionali e non ricorrenti» [30]
, mentre si stabilisce, con disposizione innovativa, l’obbligatoria computabilità di quelle «collegate, anche indirettamente, al rendimento dei lavoratori e all’andamento aziendale», valutabili, quindi, come parte del corrispettivo del lavoro, sia pur latamente inteso [31]
.
Proprio questo sembra essere il nodo della specifica problematica: l’art. 12 legge 153/1969 appare come il momento di massima evoluzione di una tendenza della normativa previdenziale a svincolare la prestazione retributiva da una nozione rigida di corrispettività, tipica dei contratti di scambio, conformandola piuttosto a un’idea ampia di corrispettivo, che tenga in conto il coinvolgimento della persona del lavoratore nel rapporto di lavoro [32]
, del {p. 108}tutto in linea con le indicazioni della costituzione e dell’opinione giuridica più avvertita [33]
. Ad una concezione allargata (o allentata) di corrispettivo appariva informato, per la verità, per testuali riferimenti normativi, già il d.p.r. 797/1955. Stabilendo l’assoggettabilità a contribuzione delle somme corrisposte «nei periodi di assenza dal lavoro qualunque ne sia la durata o la causa», anche il d.p.r. 797, in altre parole, esprimeva un’idea di corrispettività rilevante «esclusivamente sul piano della previsione legislativa o contrattuale» e trascendente «il criterio strettamente economico del legame esistente tra le reciproche prestazioni delle parti» [34]
. Non v’è dubbio, ad ogni modo, che il nuovo intervento legislativo sia giunto opportunamente a troncare persistenti incertezze interpretative [35]
, ascrivibili, peraltro, più che alle ambiguità della precedente normativa, alla difficoltà di leggerla secondo canoni diversi da quelli ultra-consolidati del diritto comune dei contratti. Il tratto maggiormente innovativo della disciplina più recente, in sostanza, sembra risiedere non nell’abbandono del riferimento al concetto di retribuzione, ma in un ulteriore affinamento tecnico dello stesso, volto essenzialmente a contenere al massimo l’area dell’evasione (o dell’elusione) contributiva. Appare difficile contestare, infatti, che, rinunciando ad indicare in positivo gli emolumenti assoggettabili a contribuzione [36]
ed affermando il carattere tassativo degli elementi esclusi dal calcolo della retribuzione imponibile, l’art. 12 legge 153/1969 abbia fornito del{p. 109}la stessa una nozione di massima latitudine, in cui concetto giuridico e sostanza economica del salario appaiono (quasi perfettamente) coincidenti. Non a caso la norma valorizza un elemento di carattere strutturale, quale la provenienza delle erogazioni dal datore di lavoro: si considera retribuzione, appunto, «tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro in danaro o in natura, al lordo di qualsiasi ritenuta, in dipendenza del rapporto di lavoro», cosicché risulta ormai indiscutibile l’attrazione nella stessa non soltanto di somme corrisposte in relazione a periodi di sospensione del rapporto, ma anche di una molteplicità di attribuzioni patrimoniali di incerta connotazione (riduzioni tariffarie, premi scolastici, erogazioni una tantum susseguenti al rinnovo di un contratto collettivo o elargite in riferimento a un periodo di sospensione dell’attività lavorativa per sciopero a singhiozzo) [37]
.{p. 110}

3. Segue: b) nel diritto del lavoro

Al tentativo di riproporre nell’ambito del diritto del lavoro il nesso di identificazione fra sostanza economica e concetto giuridico del salario può farsi risalire l’origine del travagliato dibattito sulla cosiddetta onnicomprensività della retribuzione. Alla scarsa consapevolezza dell’operazione compiuta, sembrano, invece, ascrivibili non pochi degli equivoci sorti attorno ad esso.
In effetti di identificazione fra sostanza economica e concetto giuridico del salario non è possibile parlare, se non allo stato tendenziale, neanche con riguardo alla retribuzione imponibile. Quanto meno con riferimento all’esclusione dalla base di computo delle somme corrisposte a titolo di indennità di anzianità, della cui sostanza economica di salario non si può dubitare, lo scarto risulta evidente. Dal punto di vista giuridico, della coerenza del modello normativo, quell’esclusione è interpretabile come riflesso delle finalità previdenziali sicuramente rintracciabili nell’istituto (pur dopo l’affermazione della sua natura di «retribuzione differita») [38]
. Dal punto di vista economico non trova giustificazione alcuna, o, meglio, ne trova nel carattere «ransattivo» [39]
sovente riscontrabile nelle nozioni di retribuzione ospitate dalle leggi previdenziali, destinate a far fronte alla esigenza primaria di assicurare un adeguato gettito contributivo agli istituti erogatori delle prestazioni, senza trascurare la diversa (e confliggente) esigenza di non pesare oltre misura sui costi del lavoro gravanti sui bilanci delle imprese.
Del resto, in termini più generali, un’identità concettuale fra le nozioni giuridica ed economica di salario risulta sicuramente improponibile. Dal punto di vista economico, infatti, possono ricomprendersi nel salario, come espressione monetaria complessiva del valore della forza-lavoro, anche l’insieme degli oneri sociali e persino delle prestazioni previdenziali corrisposte a titolo di pensione [40]
, quale che sia la natura giuridica loro riconosciuta. Di passata può ricordarsi come proprio ad una valorizzazione della realtà {p. 111}materiale sottostante vada probabilmente ascritta — e in questo senso apprezzata — la concezione, più volte ribadita dalla Corte costituzionale, della pensione dei pubblici dipendenti come retribuzione differita [41]
, peraltro contraddittoria con la persistente negazione di tale natura all’indennità di buonuscita [42]
.
Il concetto economico di salario, inutilizzabile, in senso proprio e rigoroso, per interpretare la pur amplissima nozione di retribuzione fornita dalla legislazione previdenziale, lo è ancor meno nell’ambito del diritto del lavoro, dove, oltretutto, non è possibile effettuare una comparazione precisa, in assenza di una definizione legale univoca. A tale mancanza non sembra poter sopperire il richiamo all’art. 36 Cost., talvolta operato, anche a questo riguardo, dalla giurisprudenza [43]
. In effetti l’art. 36 non fornisce una nozione di retribuzione. Lo stesso termine di «retribuzione», anzi, vi appare utilizzato in senso atecnico o, per meglio dire, come sinonimo non di salario (o stipendio) ma di reddito collegato allo svolgimento di un’attività lavorativa subordinata. È il reddito, in altre parole, che deve risultare complessivamente sufficiente a soddisfare, oltre le esigenze personali, anche quelle della famiglia del lavoratore. In questo senso possono ricomprendervisi anche altri emolumenti, quali gli assegni familiari [44]
, cui pure la giurisprudenza non ha mai riconosciuto natura giuridica di salario.
Prescindendo dal riferimento alla norma costituzionale, «in realtà non necessario», il problema di costruire una nozione giuridica di salario, riconducendovi una molteplicità di «prestazioni diverse, difficilmente tipizzabili e ricomprese tradizionalmente in una zona grigia, di solito tra quelle risarcitone e/o
{p. 112}previdenziali» [45]
, è stato frequentemente affrontato dalle corti (di merito e di legittimità) utilizzando la strumentazione offerta dalle categorie consolidate del diritto civile, valorizzando, quindi, il nesso di dipendenza causale della singola erogazione dal rapporto di lavoro [46]
. L’esito cui conduce questa definizione, meramente concettuale, di retribuzione è stato giustamente considerato di «portata descrittiva e teorico-sistematica indubbia» [47]
. L’operazione, peraltro, non sembra condotta alle estreme conseguenze, risultando, in genere, temperata dal riferimento combinato a una serie di indicatori strutturali (ritenuti) caratterizzanti la prestazione retributiva e individuati nella determinatezza (o determinabilità), nella obbligatorietà, corrispettività e continuità [48]
. Quest’ultimo elemento, soprattutto, ha ricevuto una particolare sottolineatura in giurisprudenza [49]
. Gli altri tre sono stati, in concreto, assai meno utilizzati, non sempre o non sempre contemporaneamente, sia perché presenti, in realtà, nella controprestazione di qualsivoglia contratto di scambio (e quindi insufficienti a individuare {p. 113}l’obbligazione retributiva), sia perché, una volta affermata la continuità di un certo emolumento, se ne è fatta discendere una sorta di «presunzione dell’obbligatorietà e corrispettività dell’erogazione appunto effettuata senza interruzione» [50]
. L’individuazione della continuità come tratto distintivo della prestazione retributiva è derivata, com’è noto, da una generalizzazione del riferimento normativo testualmente previsto nell’ordinamento ai fini della determinazione della base di computo delle indennità di fine rapporto (art. 2121 cod. civ. nel testo anteriore alla novella introdotta dall’art. 1 legge 297/1982). La valorizzazione di tale elemento ha finito col condurre, peraltro, a risultati alquanto contraddittori rispetto alle premesse. Ben lungi dallo sfociare in una nozione di retribuzione effettivamente «onnicomprensiva», più o meno coincidente, in altre parole, con la sostanza economica dell’istituto, ne ha tagliato fuori erogazioni patrimoniali che, pur prive del requisito della continuità, partecipano sicuramente della natura giuridica del corrispettivo salariale, oltre ad essere, assai spesso, di rilievo economico molto maggiore di quegli emolumenti che il riferimento alla continuità di corresponsione permette di attrarre nella nozione giuridica di salario (si pensi ai compensi per lavoro straordinario) [51]
.
Note
[27] Fra i tanti si v. Persiani, Retribuzione di fatto, dovuta, normale, effettiva e contribuzione previdenziale in «Dir. lav.», 1975, I, ora in 1 nuovi problemi della retribuzione, cit., p. 128, 133; Fontana, L’indennità di trasferta, in «Dir. lav.», 1977, I, p. 177 ss.; Id., Note sul vigente sistema retributivo con particolare riguardo al settore bancario, in «Dir. lav.», 1978, I, p. 99 ss.; da ultimo Sconocchia, L’obbligo contributivo e la retribuzione imponibile, Milano, Franco Angeli, 1981, p. 13 ss.
[28] Per rilievi consimili si v. Gentili, Retribuzione del lavoro e contribuzione previdenziale, in «Riv. dir. civ.», 1973, I, p. 174 ss.
[29] Sul punto v. infra nel testo. L’impressione che l’esclusione dalla base di calcolo dei contributi previdenziali dell’indennità di cassa sia da valutare alla stregua di un infortunio del legislatore è avvalorata dal rilievo che nessun riferimento è fatto nell’art. 12 legge 153/1969 all’indennità di rappresentanza, che pure figurava, nella precedente normativa, a fianco dell’indennità di cassa fra le voci escluse.
[30] Dovrà trattarsi, in altri termini, di elargizioni concesse in relazione ad eventi eccezionali, non ricorrenti e del tutto esterni al rapporto di lavoro (rectius all’esecuzione dell’attività lavorativa), quali, in ipotesi, una gratifica attribuita per il raggiungimento di una determinata anzianità aziendale, (da non confondere con i premi di fedeltà previsti da certi contratti collettivi), o per venire incontro alle spese di nuzialità di un dipendente.
[31] Contra, per il carattere non corrispettivo di tali emolumenti, si v. Treu, op. cit., p. 32 e, in termini anche più rigidi. Barassi, op. loc. cit., in relazione alla problematica affine posta all’inizio del secolo dalla nozione di retribuzione accolta nell’art. 13 del regolamento infortuni. Costituendo anche le «elargizioni» una tantum pane del plusvalore estratto dal lavoro, l’assoggettabilità delle stesse a contribuzione può essere considerata, in realtà, come il punto di emersione più evidente della tendenza della normativa previdenziale a far coincidere nozione giuridica e sostanza economica del salario (ma su ciò v. infra nel testo).
[32] Di Majo, Aspetti civilistici dell’obbligazione retributiva, in «Riv. giur. lav.», 1982, I, p. 400. In questo senso va sottolineato ancora il riferimento, fra le voci computabili, alle elargizioni una tantum collegate al rendimento dei lavoratori.
[33] D’obbligo il rinvio a Treu, Onerosità e corrispettività nel rapporto di lavoro, Milano, Giuffré, 1968.
[34] Le citazioni sono da Sconocchia, op. cit., p. 12.
[35] In ordine soprattutto al disposto di cui all’art. 28 d.p.r. 797/1955. Com’è noto giurisprudenza e dottrina dominanti davano di tale norma una lettura restrittiva che escludeva dall’assoggettabilità a contribuzione, in particolare, le somme corrisposte dal datore di lavoro a titolo di integrazione delle prestazioni previdenziali per la malattia del lavoratore. In senso critico di tali orientamenti si v. Treu, op. ult. cit., p. 264 ss.
[36] Secondo il modello normativo del d.p.r. 797/1955: l’elencazione in esso contenuta, peraltro, era considerata di carattere meramente indicativo, con conseguenti, inevitabili incertezze in punto di assoggettabilità a contribuzione del tale o tal’altro emolumento: cfr. Sconocchia, op. cit., p. 12.
[37] Permangono peraltro divergenze interpretative su singoli emolumenti. L’assoggettabilità a contribuzione del valore delle riduzioni tariffarie è negata, ad esempio, da K. Ferrari, La contribuzione assicurativa per l’energia elettrica a tariffa ridotta, in «Mass. giur. lav.», 1977, p. 73; contra v. Orsi, Profili giurisprudenziali in tema di retribuzione assoggettabile a contributi, in «Dir. lav.», 1976, I, p. 307, Sconocchia, op. cit., p. 35, nonché, in genere, la giurisprudenza successiva all’emanazione della legge 153/1969. Per quanto riguarda i premi scolastici in senso affermativo Trib. Roma, 20 ottobre 1982, in «Giust. civ.», 1983, I, p. 1000 e, in dottrina, Sconocchia, op. cit., p. 56 che sottolinea l’irrilevanza ai fini dell’assoggettabilità a contribuzione della «previsione normativa di un’erogazione diretta agli studenti», interpretabile, evidentemente, come un escamotage utilizzato per offuscare il carattere retributivo dell’erogazione; contra Trib. Udine, 10 luglio 1981, in «Mass. giur. lav.», 1982, p. 369 e, in dottrina, Meucci. Nota a Trib. Roma, cit. L’assoggettabilità a contribuzione dei premi scolastici è affermata anche dalla circolare Inps 9 settembre 1978, n. 470. In argomento cfr., da ultimo, Cinelli, «Fringe benefits» e retribuzione: il caso del servizio di mensa, nota a Cass., 28 luglio 1983, n. 5191, in «Riv. it. dir. lav.», 1984, II, p. 572 ss. Affermando la computabilità ai fini del calcolo dei contributi previdenziali del valore dei pasti usufruibili presso la mensa aziendale, la Suprema Corte ha ribadito che la nozione di retribuzione accolta dall’art. 12 della legge 153/1969 è la più ampia presente nell’ordinamento, tracciata nel solco di una concezione latissima di corrispettività. Infatti, mentre il calcolo dell’indennità di anzianità, secondo i criteri fissati dall’art. 2121 cod. civ. (vecchio testo), andrebbe effettuato «con riguardo alle dazioni caratterizzate dal rapporto di diretta corrispettività con la prestazione lavorativa», per la normativa previdenziale «non è richiesto che l’emolumento trovi origine in singole e specifiche prestazioni lavorative, piuttosto che nel rapporto di lavoro nel suo complesso, né che esso abbia il carattere di continuità e periodicità».
[38] Corte cost., 27 giugno 1968, n. 75, in «Giur. cost.», 1968, I, p. 1095.
[39] Così Treu, Problemi giuridici della retribuzione, cit., p. 32.
[40] Per una esatta distinzione delle due nozioni, economica e giuridica, di salario si v., con rilievi consimili, Lyon-Caen, op. ult. cit., pp. 6, 212. Ma la discussione in proposito è già presente in Barassi, op. cit., p. 125 ss.
[41] Corte cost., 22 giugno 1963, n. 105, in «Giur. cost.», 1963, I, p. 812; 3 luglio 1967, n. 78, in «Giust. civ.», 1967, III, p. 200; 19 luglio 1968, n. 113, in «Foro it.», 1968, I, c. 2353; 30 giugno 1971, n. 144, in «Giust. civ.», 1971, III, p. 259; 30 giugno 1971, n. 147, ivi, 1971, III, p. 255; 17 febbraio 1972, n.’ 25, ivi, 1972, III, p. 44. In dottrina si v., per tutti, Persiani, Pensione e retribuzione: un accostamento equivoco, in «Giur. cost.», 1971, I, p. 1632.
[42] Da ultimo si v. Corte cost., 10 marzo 1983, n. 46, in «Giur. cost.», 1983, I, p. 167 con nota critica di Cerri, Incertezze e contraddizioni nella giurisprudenza della Corte costituzionale sulla natura dell’indennità di buonuscita ivi p 180 ss.
[43] Cfr. Treu, op. ult. cit., p. 28; Tosi, l condizionamenti legislativi alla struttura del salario, in «Prosp. sind.», 1978, n. 28, p. 55.
[44] V. più ampiamente retro, cap. I. Rilievi di segno analogo sembrano svolti da Giugni, La riforma del salario, in «la Repubblica», 7 gennaio 1984.
[45] Citazioni da Treu, op. ult. cit., pp. 29 e 28.
[46] Non solo da noi. In Francia, ad esempio, sin dagli anni ’50 la Cassazione, in assenza di una nozione legale di retribuzione, ha affermato che «toutes les allocations stipulées au profit de l’ouvrier en exécution du contrat de travail, lorsqu’elles ne sont pas le remboursement des dépenses mises à sa charge, ont le caractère de rémunération, et comme telles, participent au salaire»: cfr. Lyon- Caen, op. ult. cit., p. 159.
[47] Treu, op. ult. cit., p. 30.
[48] Si v. ad es. con particolare chiarezza Cass., 4 maggio 1979, n. 2558, in «Giur. It», 1979, I, 1, c. 1458, secondo la quale «Il concetto di retribuzione del lavoratore va inteso come l’intero complesso delle voci e delle indennità a carattere fisso, continuativo ed obbligatoriamente gravanti sul datore di lavoro, per legge o contratto, e versate in occasione del lavoro, cioè senza alcuna altra causa specifica che non sia proprio l’attività normale e continuativa del prestatore». Nello stesso senso, fra le tante, Cass., 13 febbraio 1982, n. 914, in «Arch. Civ.», 1982, p. 918; Pret. Parma, 12 febbraio 1979, in «Giur. It.», 1980, I, 2, c. 376; da ultimo Cass., n. 5191/1983, cit. in nota 36.
[49] Le citazioni potrebbero sprecarsi. Per tutte si v., fra le più recenti, Cass., 19 dicembre 1981, n. 6726, in «Riv. giur. lav.», 1982, II, 354, a mente della quale «costituisce parte integrante della retribuzione qualunque prestazione, in denaro o in natura, che il datore di lavoro sia tenuto per legge o contratto a fornire continuativamente al prestatore d’opera in ragione del normale svolgimento del rapporto con questo instaurato». In argomento cfr. in dottrina L. Spagnuolo Vigorita, Gli usi aziendali, Milano, Giuffré, 1965, p. 179 ss., 233 s.; più recentemente Ficari, Continuità, in Dizionari del diritto privato. Diritto del lavoro (a cura di Dell’Olio), Milano, Giuffré, 1981, pp. 38-41.
[50] Alleva, Commento sub art. 26 disc. spec. parte prima, in Aa. Vv., il contratto dei metalmeccanici, Bologna, Zanichelli, 1978, p. 199.
[51] Cfr. Treu, op. ult. cit., p. 32; Persiani, I nuovi problemi della retribuzione, cit., p. XII; da ultimo si v. Bianchi D’Urso, Spunti critici in tema di onnicomprensività e continuità della retribuzione, in «Riv. it. dir. lav.», 1983, I, p. 393 ss.