Massimo Roccella
I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c2
Prescindendo dal riferimento alla norma costituzionale, «in realtà non necessario», il problema di costruire una nozione giuridica di salario, riconducendovi una molteplicità di «prestazioni diverse, difficilmente tipizzabili e ricomprese tradizionalmente in una zona grigia, di solito tra quelle risarcitone e/o
{p. 112}previdenziali» [45]
, è stato frequentemente affrontato dalle corti (di merito e di legittimità) utilizzando la strumentazione offerta dalle categorie consolidate del diritto civile, valorizzando, quindi, il nesso di dipendenza causale della singola erogazione dal rapporto di lavoro [46]
. L’esito cui conduce questa definizione, meramente concettuale, di retribuzione è stato giustamente considerato di «portata descrittiva e teorico-sistematica indubbia» [47]
. L’operazione, peraltro, non sembra condotta alle estreme conseguenze, risultando, in genere, temperata dal riferimento combinato a una serie di indicatori strutturali (ritenuti) caratterizzanti la prestazione retributiva e individuati nella determinatezza (o determinabilità), nella obbligatorietà, corrispettività e continuità [48]
. Quest’ultimo elemento, soprattutto, ha ricevuto una particolare sottolineatura in giurisprudenza [49]
. Gli altri tre sono stati, in concreto, assai meno utilizzati, non sempre o non sempre contemporaneamente, sia perché presenti, in realtà, nella controprestazione di qualsivoglia contratto di scambio (e quindi insufficienti a individuare {p. 113}l’obbligazione retributiva), sia perché, una volta affermata la continuità di un certo emolumento, se ne è fatta discendere una sorta di «presunzione dell’obbligatorietà e corrispettività dell’erogazione appunto effettuata senza interruzione» [50]
. L’individuazione della continuità come tratto distintivo della prestazione retributiva è derivata, com’è noto, da una generalizzazione del riferimento normativo testualmente previsto nell’ordinamento ai fini della determinazione della base di computo delle indennità di fine rapporto (art. 2121 cod. civ. nel testo anteriore alla novella introdotta dall’art. 1 legge 297/1982). La valorizzazione di tale elemento ha finito col condurre, peraltro, a risultati alquanto contraddittori rispetto alle premesse. Ben lungi dallo sfociare in una nozione di retribuzione effettivamente «onnicomprensiva», più o meno coincidente, in altre parole, con la sostanza economica dell’istituto, ne ha tagliato fuori erogazioni patrimoniali che, pur prive del requisito della continuità, partecipano sicuramente della natura giuridica del corrispettivo salariale, oltre ad essere, assai spesso, di rilievo economico molto maggiore di quegli emolumenti che il riferimento alla continuità di corresponsione permette di attrarre nella nozione giuridica di salario (si pensi ai compensi per lavoro straordinario) [51]
.
La segnalata contraddizione, innegabile sul piano teorico, va in realtà ridimensionata se si tien conto delle esigenze pratiche cui ha cercato di far fronte l’opinione giurisprudenziale in discussione. Mentre nel diritto previdenziale l’affermazione di una tendenziale coincidenza fra sostanza economica e nozione giuridica di retribuzione (di una retribuzione, appunto, «onnicomprensiva») ha sempre risposto ad esigenze funzionali di sottoporre a contribuzione l’insieme delle erogazioni patrimoniali provenienti dal datore di lavoro, nel diritto del lavoro si è trattato piuttosto di determinare gli effetti conseguenti al gioco di reciproche interferenze fra elementi tutti, a vario titolo, rientranti nella struttura del salario. Quando, per richiamare un esempio classico, si vuol {p. 114}accertare l’incidenza dei compensi per lavoro straordinario nella base di calcolo delle mensilità aggiuntive o, per converso, l’incidenza di queste ultime nella base di calcolo dello straordinario, si pone un problema non risolvibile con la sola indagine circa la natura giuridica retributiva dell’uno o dell’altro emolumento. Dietro l’affermazione (o la negazione) del principio di onnicomprensività della retribuzione, in altre parole, si tende, con maggiore o minore consapevolezza, a rispondere all’interrogativo sull’esistenza, o meno, nel nostro ordinamento di una nozione legale di retribuzione unitaria e di generale applicabilità [52]
.

4. Le nozioni contrattuali di retribuzione

La sovrapposizione surrettizia di due diversi piani di discorso — economico e giuridico —, che si sarebbe, invece, dovuto tenere rigorosamente distinti, ha indotto non poca confusione quanto meno nelle argomentazioni con cui l’orientamento in discussione è stato sviluppato. Anche in dottrina, del resto, l’utilizzo incongruo di categorie economiche è intervenuto ad offuscare la limpidezza del dibattito. Una sottolineatura positiva del principio di onnicomprensività elaborato dalla giurisprudenza, ad esempio, è sicuramente legittima: sembra inconferente, peraltro, sostenerla, appoggiandosi alla teoria marxiana, con rilievi che richiamano il carattere del salario quale «forma di una relazione economico-sociale che ha una funzione specifica nella produzione e nella riproduzione» [53]
. Dal punto di vista giuridico tale affermazione non prova nulla (o prova troppo), essendo del tutto irrilevante al fine di risolvere il problema specifico della legittimità, alla luce del diritto positivo, di una pluralità di nozioni di retribuzione funzionalmente differenziata. All’opposto, per negare validità al principio di onnicomprensività, non giova certo contestare la natura di corrispettivo salariale delle cosiddette competenze {p. 115}indirette, riconoscendo alla sola «retribuzione» il carattere di valore di scambio della prestazione lavorativa [54]
.
La dottrina, in larga prevalenza orientata in senso critico [55]
, ha espresso le proprie riserve muovendosi, ad ogni modo, su un piano metodologicamente più corretto. Si è constatato, in primo luogo, l’assenza nell’ordinamento di una nozione legale di retribuzione di generale applicabilità; si è negato carattere espansivo alla nozione (specifica) di retribuzione accolta nell’art. 2121 cod. civ., svalutando in particolare il requisito della continuità in esso previsto, che sarebbe esclusivamente «indicativo di preoccupazioni correlate all’adeguatezza quantitativa della base di calcolo dell’indennità di anzianità» [56]
; si è contestato, in particolare, la possibilità di utilizzare tale nozione per determinare la base di calcolo di istituti legali che fanno solo un generico riferimento alla retribuzione (quali le ferie) e, soprattutto, di istituti la cui fonte di disciplina originaria è rintracciabile nella contrattazione collettiva (quali le mensilità aggiuntive). In tutte queste ipotesi — si è concluso — l’applicazione giurisprudenziale di una nozione di retribuzione «onnicomprensiva», con annullamento di eventuali clausole contrattuali difformi, ben lungi dall’essere imposta da una norma inderogabile di legge, in realtà inesistente, costituirebbe un’arbitraria interferenza negli equilibri legittimamente posti dalle parti attraverso la norma collettiva.
Fin qui l’opinione critica: la quale in taluno si è sostanziata anche del riferimento alle nozioni contrattuali di retribuzione, di cui si è cercato di intendere il significato effettivamente attribuito {p. 116}dalle parti contraenti [57]
. La nozione contrattuale di «retribuzione globale», secondo questo orientamento, esprimerebbe «soltanto l’idea che anche la retribuzione costante può essere composta da più voci, a condizione che spettino indistintamente a tutti e comunque». La nozione di retribuzione «di fatto», per parte sua, starebbe a significare che «si deve tener conto anche di certe voci retributive che — pur essendo previste per tutti indistintamente i lavoratori — possono spettare a ciascuno di essi con entità variabile (come, ad esempio, gli scatti di anzianità)» [58]
. Nell’accezione indicata le due nozioni contrattuali di retribuzione risultano, all’evidenza, tali da escludere dal computo delle competenze che le assumano a parametro di riferimento le voci retributive legate allo svolgimento della prestazione del singolo in particolari condizioni di luogo, di tempo, di modo (indennità di cassa, di rischio, di sottosuolo, di residenza e numerosissime altre). Non a caso cardine della costruzione in esame finisce con l’essere l’altra nozione, frequente nella contrattualistica, di «retribuzione normale», intesa come «la retribuzione ordinaria ed usuale, cioè quella cui tutti hanno diritto indipendentemente dalle condizioni in cui prestano il loro lavoro» [59]
. La retribuzione normale, in altre parole, andrebbe individuata in astratto, e non in concreto, a priori, e non a posteriori, con la logica conseguenza di escludere dal concetto anche le maggiorazioni retributive per lavoro a turni e/o straordinario, ancorché caratterizzate da assoluta continuità di corresponsione [60]
.
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Note
[45] Citazioni da Treu, op. ult. cit., pp. 29 e 28.
[46] Non solo da noi. In Francia, ad esempio, sin dagli anni ’50 la Cassazione, in assenza di una nozione legale di retribuzione, ha affermato che «toutes les allocations stipulées au profit de l’ouvrier en exécution du contrat de travail, lorsqu’elles ne sont pas le remboursement des dépenses mises à sa charge, ont le caractère de rémunération, et comme telles, participent au salaire»: cfr. Lyon- Caen, op. ult. cit., p. 159.
[47] Treu, op. ult. cit., p. 30.
[48] Si v. ad es. con particolare chiarezza Cass., 4 maggio 1979, n. 2558, in «Giur. It», 1979, I, 1, c. 1458, secondo la quale «Il concetto di retribuzione del lavoratore va inteso come l’intero complesso delle voci e delle indennità a carattere fisso, continuativo ed obbligatoriamente gravanti sul datore di lavoro, per legge o contratto, e versate in occasione del lavoro, cioè senza alcuna altra causa specifica che non sia proprio l’attività normale e continuativa del prestatore». Nello stesso senso, fra le tante, Cass., 13 febbraio 1982, n. 914, in «Arch. Civ.», 1982, p. 918; Pret. Parma, 12 febbraio 1979, in «Giur. It.», 1980, I, 2, c. 376; da ultimo Cass., n. 5191/1983, cit. in nota 36.
[49] Le citazioni potrebbero sprecarsi. Per tutte si v., fra le più recenti, Cass., 19 dicembre 1981, n. 6726, in «Riv. giur. lav.», 1982, II, 354, a mente della quale «costituisce parte integrante della retribuzione qualunque prestazione, in denaro o in natura, che il datore di lavoro sia tenuto per legge o contratto a fornire continuativamente al prestatore d’opera in ragione del normale svolgimento del rapporto con questo instaurato». In argomento cfr. in dottrina L. Spagnuolo Vigorita, Gli usi aziendali, Milano, Giuffré, 1965, p. 179 ss., 233 s.; più recentemente Ficari, Continuità, in Dizionari del diritto privato. Diritto del lavoro (a cura di Dell’Olio), Milano, Giuffré, 1981, pp. 38-41.
[50] Alleva, Commento sub art. 26 disc. spec. parte prima, in Aa. Vv., il contratto dei metalmeccanici, Bologna, Zanichelli, 1978, p. 199.
[51] Cfr. Treu, op. ult. cit., p. 32; Persiani, I nuovi problemi della retribuzione, cit., p. XII; da ultimo si v. Bianchi D’Urso, Spunti critici in tema di onnicomprensività e continuità della retribuzione, in «Riv. it. dir. lav.», 1983, I, p. 393 ss.
[52] Cfr. con particolare chiarezza Mannacio, La giurisprudenza della Cassazione sulla non unitarietà della nozione di retribuzione, in «Inform. Pirola», 1980, 4, p. 368; e anche D’Avossa, Nota a Pret. Milano, 6 ottobre 1981, in «Lavoro ’80», 1982, p. 141. Adde, più recentemente, Bianchi D’Urso, Onnicomprensività, cit., p. 71.
[53] Di Majo, op. cit., p. 401.
[54] Così, a quanto sembra, Mannacio, op. cit., p. 368.
[55] Oltre agli autori citati in nota 4, si v. Vallebona, Sul c.d. principio della onnicomprensività della retribuzione, in «Giust. civ.», 1981, I, p. 2513; Treu, Giurisprudenza della Corte di Cassazione e autonomia collettiva, in «Riv. giur. lav.», 1982, I, p. 447 ss; Mannacio, Ancora sulla onnicomprensività della retribuzione, in «Inform. Pirola», 1982, 7, p. 733; Scognamiglio, La retribuzione, negli Atti della giornata di studio organizzata dall’ISPER, Torino, 1982; Zoli, il principio di omnicomprensività della retribuzione fra legge e contratto, in «Riv. trim. dir. e proc. civ.», 1983, p. 326 ss.; Bianchi D’Urso, Spunti critici, cit.; Id., Onnicomprensività, cit., spec. p. 63 ss; Ghera, Nozione di retribuzione ed elementi retributivi, in «Giur. it.», 1984, IV, c. 9 ss. Fra le poche valutazioni di segno positivo, oltre agli scritti di Di Majo e Tosi citt., cfr. soprattutto Meucci, Nullità delle restrizioni contrattuali alla nozione di retribuzione utile per gli istituti di origine legale, in «Giust. civ.», 1983, I, p. 2021.
[56] Treu, Problemi giuridici, cit., p. 32.
[57] Cfr. soprattutto Persiani, I limiti del principio dell’omnicomprensività della retribuzione, in «Mass. giur. lav.», 1982, p. 44; Id., Determinazione delle singole voci retributive ed interpretazione del contratto collettivo, in «Dir. lav.», 1982, I, p. 459 ss.
[58] Citazioni da Persiani, I limiti, cit., pp. 44 e 45. Cfr. anche, in senso parzialmente critico, con riferimento all’interpretazione della nozione di retribuzione globale, Bianchi D’Urso, Onnicomprensività, cit., p. 98 ss.
[59] Persiani, op. ult. cit., p. 45.
[60] Cfr. Persiani, op. citt. in nota 56. Oltre che sulle argomentazioni indicate nel testo, questo autore poggia il suo ragionamento su valutazioni (ancor meno) condividibili. Così è della tesi secondo cui una considerazione a posteriori del concetto di retribuzione normale priverebbe l’oggetto del contratto, contra legem, del requisito della determinatezza, dimentica della circostanza che, a norma dell’art. 1346 cod. civ., è sufficiente che l’oggetto del contratto sia determinabile. Così pure della negazione agli elementi accessori del salario del carattere di controvalore della prestazione lavorativa, dove, ancora una volta, l’utilizzo, di dubbia correttezza, di una categoria economica viene ad inficiare la plausibilità del discorso giuridico: cfr., in proposito, I limiti, op. loc. cit.