L'era dell'interlegalità
DOI: 10.1401/9788815370334/c2
Ad entrare in gioco non è dunque una
qualche idea di un presupposto, unitario, bene comune, ma la prospettiva della
giustizia: il giusto inteso come eguale considerazione e rispetto delle sfere di libertà
di ciascuno, e riferito allo status della nostra coesistenza; il giusto inteso come
priorità rispetto alla varietà delle preferenze e delle concezioni del bene
[61]
, volto ad assicurare che le pretese possano avere «voce» ed essere trattate
su un piano di correttezza giuridicamente garantita.
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In fondo l’ideale del rule
of law si intreccia con quello dell’interlegalità nel punto in cui tende
ad evitare l’ingiustizia
[62]
, più che a realizzare un qualche universale bene comune. L’interlegalità non
è così solo un risultato del moderno processo di moltiplicazione dei vincoli normativi,
ma è anche un fattore di diffusione e di approfondimento delle dinamiche della
civilizzazione affidata al diritto.
Note
[61] Come John Rawls (Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 1984) sostiene: «I principi di diritto e della giustizia limitano le soddisfazioni cui si dà valore, impongono restrizioni sulle concezioni ragionevoli del proprio bene». I principi della giustizia «specificano i confini che il sistema dei fini umani deve rispettare» (ibidem, pp. 42-43). La rilevanza del giusto si studia anche nella Critica della ragion pratica, nella quale Kant sostiene che il nostro concetto di «bene» non dovrebbe determinare ciò che è «giusto» e definire ciò che vale come «legge morale», ma al contrario «è la legge morale che anzitutto determina e rende possibile il concetto del bene» (Critica della ragion pratica, Roma-Bari, Laterza, 1982, p. 79).
[62] Sul diritto come condizione epistemica per riconoscere l’ingiustizia, che in uno stato di natura mancherebbe di essere riconoscibile (e nessuna obiezione potrebbe essere sollevata contro di essa), I. Kant, La metafisica dei costumi, Roma-Bari, Laterza, 1983, pp. 134-135.