L'era dell'interlegalità
DOI: 10.1401/9788815370334/c2
La ragione moderna opera
diversamente. L’interprete non si rivolge al caso come per rintracciarvi il giusto e il
bene che vi sarebbe (ontologicamente) sotteso, il diritto non è un’entità preesistente
da ritrovare nelle cose ma è un artificio: la comparsa illuministica dell’idea del
soggetto legislatore distanzia per sempre dagli assunti propri del reicentrismo
medievale. Questo «superamento» impedisce di tracciare una linea continua, nonostante le
istruttive, illuminanti somiglianze, tra due versanti mai totalmente coincidenti, da un
lato gli intrecci di legalità medievale
¶{p. 54}dall’altro il presente
proliferare di interlegalità; da un lato il reicentrismo pre-illuministico dall’altro
quello emergente nel terzo millennio; da un lato l’equità da rinvenire nel caso
dall’altro il principio regolativo che tende a disciplinarlo; da un lato una concezione
della casistica e dell’aggiudicazione come dispersione e contestualità al caso
dall’altro il diritto come artificio ordinatore.
Ciò che nel suo insieme il secondo
versante mostra, spiega anche come in esso la costruzione della regola muova tuttavia
dall’appello dell’interprete ad un ideale normativo: per cui il diritto del caso
concreto non è altro che la concretizzazione di un principio normativo, una forma di
«sintesi», per dir così, cui il senso della insorgente casistica nell’interlegalità
contemporanea non potrà sottrarsi.
Non è dunque il semplice fatto che
l’interlegalità venga dopo l’instaurazione della ragione giuridica
moderna a giustificare l’estraneità di essa alla concezione medievale del diritto come
scoperta di una sostanza pre-esistente. L’interlegalità non è l’aequitas
medievale, è una relazione, è l’idea di interconnessione tra fonti e principi
di qualificazione normativa, e non prefigura i contenuti che l’articolazione delle
legalità può nel concreto assumere. È il riflesso della relazionalità nella definizione
del diritto inter-ordinamentale. La regola del caso concreto non è così oggetto di
rinvenimento o scoperta, ma è costruita quale artificio che l’interprete elabora
nell’identificare il principio normativo in grado di regolare tale relazione.
5.2 L’elaborazione della regola per il caso è il
compito che il ragionamento giuridico persegue, ma nell’ipotesi dell’interlegalità il
caso giuridico come s’è detto non è la semplice articolazione di fatto e diritto. La
regola viene fissata in un contesto in cui i fatti sono giuridicamente costruiti (quali
casi) da angoli di valutazione diversi, ossia dalla disciplina
che ciascuna legalità concorrente ha teso ad imporvi. A differenza del «comune» caso,
quello interlegale è il prodotto di un composito e poliedrico plesso di qualificazioni
normative in genere determinate attraverso le singole legalità rilevanti in modo, per
così dire, autoreferenziale. È ¶{p. 55}questo inevitabile presupposto
che caratterizza l’interlegalità ed è da esso che muove l’elaborazione della
regula iuris, in un ambiente che è già
giuridicamente/normativamente pieno, ma è alla ricerca della misura che può
rintracciarsi solo nel comune «precipitare» delle singole pretese normative.
L’elaborazione della regola adeguata al caso può avvalersi del ricorso al precedente in
termini alquanto lati, in realtà intreccia i riferimenti a «principi» che sono collocati
in ogni luogo della cultura giuridica, e che vengono in rilievo in dipendenza delle
circostanze «di diritto» di cui le legalità sono portatrici (e delle correlative
qualificazioni del fatto che ne discendono).
La decisione dell’ottobre 2020 della
Corte di giustizia dell’Unione europea che dichiara illegittima la legge ungherese che,
per le sue conseguenze pratiche, mette al bando la Central European University (in
Budapest), non riguarda solamente un «fatto» materiale, ma un «caso» già «qualificato»
giuridicamente, all’incrocio tra le regole della World Trade
Organisation (WTO), le norme sulla «libertà di stabilimento», i diritti
protetti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (in particolare: la libertà
accademica, la libertà di finanziare istituzioni di istruzione superiore, e la libertà
di iniziativa economica) e naturalmente le previsioni costituzionali dell’ordinamento
ungherese. La Corte svolge il proprio ragionamento attraverso i diversi profili di
legalità senza utilizzare una delle legalità rilevanti come insuperabile scudo nei
confronti dell’altra. La Corte inoltre evita che l’illegittimità in virtù del contrasto
con una di esse (per es. con il regime di tutela dei diritti nella Carta) assorba quella
derivante dal contrasto con le altre: di fronte alla Corte il «caso» è già «costruito»
in dipendenza delle diverse discipline, ed è il pieno confronto di tali discipline con
la legge ungherese del 2017 ad essere in questione. Ciò non toglie che la Corte
sottolinei poi che l’esercizio della sua giurisdizione con riferimento alle regole
internazionali del WTO e delle regole e principi di diritto internazionale
consuetudinario non può di per sé pregiudicare autonome future valutazioni del
Dispute Settlement Body: ciò anche in considerazione
¶{p. 56}del fatto che la pronuncia di una Corte europea non può essere
invocata al fine di sottrarsi alle obbligazioni nascenti all’interno del WTO a seguito
di una pronuncia del Dispute Settlement Body.
Tuttavia, nonostante la mancanza di
un vincolo nei riguardi di autonome valutazioni future, in questa potenziale catena
l’interlegalità può condurre a principi, capaci di rivelarsi utili «precedenti». Ma
questo sarà tanto più probabile quanto più il ragionamento giuridico abbia dato adeguata
considerazione alla ratio sottesa alle disposizioni proprie
dell’«altra» legalità (come quella del WTO, nel nostro caso) ritenuta necessaria alla
decisione, e che il giudice ne abbia tenuto ben conto in una sorta di
dédoublement fonctionnel
[51]
.
Se ciò è vero, proprio perché
l’interlegalità indica l’instaurazione di una relazione, di cui è la forma, essa non
predica un qualche presupposto sostantivo, che in quella relazione si debba imporre,
quale norma gerarchicamente sovraordinata. In quanto funzione di una relazione,
l’interlegalità conduce al processo di definizione della regola del caso concreto
mediante il concorso di più legalità. La corte esponenziale del singolo ordinamento, nel
dirimere la controversia, deve assumere, lo si ripete, anche il punto di vista
dell’ordinamento concorrente, la cui presenza è imposta dalle peculiarità del caso. Deve
insomma farsi carico delle ragioni dell’altro.
6. Il posto della fonte nell’interlegalità
L’interlegalità, se è comune
definizione della regola del caso concreto, è reciproco riconoscimento di forza
normativa tra legalità plurali. Il tempo della legalità al plurale, come abbiamo detto,
è quello in cui ciascuna legalità riconosce il valore giuridico dell’altra. Ciascuna
legalità assume il punto ¶{p. 57}di vista dell’altra e transita tra il
punto di vista interno e il punto di vista esterno, sino a sbiadirne la pur essenziale
distinzione. Si tratta non di uno stato di fatto, ma di uno stato di
diritto, ossia di un’articolazione che si costruisce e opera sul piano
del diritto. Il reciproco riconoscimento è l’ideale regolativo di una relazione che
sorge quando deve darsi un volto alla regola del caso concreto
[52]
.
Un diritto che sorge non per il solo
fatto storico della sua produzione sembra far pendere l’ago della bilancia a favore di
una concezione interpretativa, anziché tradizionalmente giuspositivista del diritto,
basata sulla fonte
[53]
. Se la corte non applicasse un diritto individuato in base alla sua fonte di
produzione, il diritto varrebbe chiaramente non per la sua fonte, ma per il contenuto
che l’interprete identifica. Ma le «circostanze» dell’interlegalità non si riconducono
linearmente a quelle presupposte dall’una o dall’altra di queste due concezioni.
L’interlegalità non può prescindere dal rilievo necessario della prospettiva della fonte
né può prescindervi l’ideale regolativo del reciproco riconoscimento di forza normativa
che di essa fa parte.
La singola legalità compare in
quanto fonte di produzione del diritto. Il diritto interlegale è l’interfaccia che si
stabilisce fra fonti diverse nel caso concreto. Se la cifra dell’interconnessione è
quella del reciproco riconoscimento, l’interlegalità non è un indifferenziato universo
giuridico nel quale ciascuna fonte perda definitivamente la sua identità senza che la
sua specifica qualità sia riconosciuta. La diversità ¶{p. 58}dei livelli
fra fonti (nazionale, sovranazionale ed internazionale) non dilegua in un’indiscriminata
commistione, né il reciproco riconoscimento conduce a ciò che concezioni «monistiche» si
attendono (o pretendono).
Il peso specifico di ciascuna fonte
non si colloca secondo un ordine formale, instaurando così una forma precostituita di
gerarchia, perché quel «peso» non è determinato in un contesto olistico, che fissi un
comune parametro di misurazione e, di conseguenza, una graduazione. Se così fosse, si
tratterebbe di un ritorno alla legalità al singolare, consegnata ad una norma che
determina la gerarchia in astratto fra legalità. Il peso specifico, inteso come la
qualità di ciascuna fonte, è ciò che la distingue dall’altra e che è oggetto di
riconoscimento, in rapporto alle circostanze del caso. Ovviamente,
il reciproco riconoscimento comporta che la specifica qualità normativa della fonte
possa lasciare la sua traccia nell’iter che conduce alla regola. Può accadere, nella
considerazione di norme concorrenti, che una fonte eserciti per la sua qualità la forza
centripeta, lasciando alla fonte concorrente il ruolo gregario di vincolo o limite di
efficacia. L’interlegalità, in quanto comporti ad esempio un bilanciamento fra principi
costituzionali, è un fenomeno chiaroscurale
[54]
: non ci sarebbe mai un principio o una fonte del tutto vincente, o del tutto
perdente. Le gradazioni del chiaroscuro, più o meno accentuate, dipendono dallo
specifico contatto da un lato tra fonti normative e dall’altro tra queste e la
concretezza del caso, e in quel contatto si determinano i livelli di rilevanza o di
prevalenza, e da esso dipende, come per i principi costituzionali, la loro ordinazione,
nella particolarità della singola controversia che il giudice deve
dirimere.
¶{p. 59}
Note
[51] Su cui si veda A. Cassese, Remarks on Scelle’s Theory of «Role Splitting» (dédoublement fonctionnel) in International Law, in «European Journal of International Law», 1, 1990, pp. 210 ss.
[52] E. Scoditti, Articolare le costituzioni. L’Europa come ordinamento giuridico integrato, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», 2004, pp. 189 ss.
[53] Trattasi, com’è noto, di una delle questioni principali cui si riferisce gran parte della teoria del diritto contemporanea. Si può considerare tale questione come largamente riflessa nel dibattito tra Hart e Dworkin (e forse ancora più tra i sostenitori dell’uno o dell’altro). Tra le moltissime, un’utile via d’accesso resta Scott Shapiro, The Hart-Dworkin debate: a short guide for the perplexed, in «Public Law and Legal Theory» WP series, marzo 2007, n. 7, pp. 1 ss. Sulla evoluzione della questione nel rapporto tra i due autori (e anche per i riferimenti bibliografici) N. Stavropoulos, The Debate that never was, in «Harvard Law Review», 130, 2017, pp. 2082 ss.
[54] Secondo la definizione che ne dà la Corte di Cassazione italiana, Sez. U., 9 settembre 2021, n. 24414, par. 23.1, la quale ha sostenuto, nel caso concernente l’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche, che l’adozione del criterio della proporzionalità comporta la «natura chiaroscurale del bilanciamento del diritto fondamentale».