L'era dell'interlegalità
DOI: 10.1401/9788815370334/c6
La seconda differenza, forse la più
significativa, riguarda il contesto all’interno del quale le due teorie sono state
pensate e, di conseguenza, i problemi che esse cercano di spiegare e correggere. Mentre
la cultura della giustificazio
¶{p. 152}ne nasce all’interno di un
singolo ordinamento nazionale, la teoria dell’interlegalità tenta di spiegare le
relazioni tra Stati e ordinamenti extra-statuali, variamente specializzati. Di
conseguenza, la giustificazione richiesta in relazione al caso concreto nella
culture of justification riguarda la ragionevolezza delle
limitazioni dei diritti fondamentali da parte della pubblica autorità
(dell’amministrazione in particolare). Come si è precedentemente ricordato, l’idea di
cultura della giustificazione nasce nel contesto di un ordinamento, quello sudafricano
durante la transizione post-apartheid, in cui l’obiettivo
principale era, e non poteva che essere, garantire che non vi fossero più restrizioni
arbitrarie dei diritti individuali da parte dello Stato. Il ruolo cruciale assegnato al
giudice è, dunque, funzionalizzato a identificare e rimuovere le violazioni dei diritti
individuali a seguito dell’azione dei pubblici poteri
[36]
. L’intera idea di cultura della giustificazione si basa sulla dialettica
libertà-autorità, un’idea tipica del diritto pubblico, in particolar modo nel secondo
Novecento. Ne segue l’introduzione di oneri di motivazione e di poteri di controllo in
capo al giudice. Quel che semmai la differenzia dalle concettualizzazioni classiche del
rapporto giuridico amministrativo è che la concezione sviluppata dalla culture
of justification non si limita ad invocare la tutela, tipica del
liberalismo, dei diritti individuali nei confronti dell’autorità. Non si tratta
semplicemente di utilizzare i diritti come argini al potere, rights as
trumps
[37]
. Come ricordato in precedenza, i diritti sono concepiti come flessibili e
limitabili, non assoluti
[38]
, ma le limitazioni ai diritti devono essere giustificabili sulla base di una
serie di principi giuridici interni all’ordinamento, in particolar modo attraverso il
test di proporzionalità. Queste limitazioni devono poter essere discusse pubblicamente
in sede giudiziale e, in tal modo, devono poter dare attuazione
¶{p. 153}ai principi di partecipazione e
accountability
[39]
. Attraverso la deliberazione in giudizio si mira ad una
cultura dei diritti democratica oltre che liberale. Seguendo la metafora di Mureinik, la
culture of justification è un ponte che tenta di portare ad un
ordinamento nazionale che resta democratico persino quando comprime i diritti
[40]
.
L’interlegalità, d’altra parte, è
concepita come una descrizione e un tentativo di orientamento dei rapporti tra
ordinamenti giuridici al di là dello Stato, laddove i tentativi di
separazione funzionale falliscono. Ne deriva che l’onere di giustificazione e
argomentazione in capo al giudice avrà come oggetto i rapporti reciproci tra norme
provenienti da ordinamenti diversi e oggettivamente applicabili al caso di specie. Non
c’è un singolo Leviatano al quale l’individuo si rapporti, ma un intreccio di relazioni
giuridiche che tentano di regolare il caso. La composite law ha
natura difficilmente riconducibile a quella di sistema giuridico.
Seguendo la definizione di Bobbio di «ordinamento giuridico» come «insieme strutturato
di norme»
[41]
, dotato dei requisiti di unità, coerenza, completezza e chiusura, abbiamo un
caso paradigmatico dell’immagine di «sistema» giuridico tipica di buona parte del secolo
passato. Contro questa immagine si scaglia l’idea di interlegalità, dotata di un
carattere marcatamente antisistematico: non v’è alcuna norma fondamentale al di là e al
di sopra degli Stati e dei regimi giuridici extra-statuali che ne assicuri l’unità e la
chiusura. Le varie norme rilevanti, ciascuna valida all’interno di un singolo sistema,
sono tutte parte della legalità attinente al caso, ma non perché parte di un sistema
giuridico più ampio
[42]
.
In sintesi, l’interlegalità si
trova ad affrontare problemi di ridefinizione del concetto stesso di diritto, nel
tentativo di slegarlo da quello di sistema, problemi del tutto assenti
¶{p. 154}nella culture of justification. L’una si
pone, dunque, problemi di teoria generale del diritto, ma anche di diritto inter, sopra,
intra e transnazionale
[43]
, che l’altra non affronta. Si potrebbe azzardare che, di conseguenza, la
prima sia più innovativa e accurata della seconda, ma è forse meglio dire che si tratta
di due prospettive sul diritto pensate in contesti diversi e per affrontare problemi
diversi, pur con metodi notevolmente simili.
4. Conclusioni
Possiamo ora cercare di trarre
delle considerazioni conclusive a partire dalla comparazione dell’interlegalità e della
cultura della giustificazione. Come già indicato in precedenza, l’obiettivo di questa
analisi non è consistito nell’individuare un’identità nascosta tra due teorie
apparentemente dissimili. Al contrario, evidenziare le differenze è utile tanto quanto
sottolineare le analogie. Differenze, in effetti, sussistono, in particolar modo per
quanto concerne l’oggetto dell’indagine: come già indicato, le due teorie sono concepite
all’interno di contesti diversi e tentano di spiegare fenomeni solo parzialmente
sovrapponibili, il rapporto tra l’individuo e i pubblici poteri da una parte,
l’interconnessione di legalità diverse al di là dello Stato dall’altro. Tuttavia, è
significativo che, nonostante le significative differenze, entrambe le teorie mirino a
soluzioni ispirate da un «metodo» comune: la giustificazione sostanziale delle ragioni
che portano all’applicazione della norma giuridica all’individuo. Pur con diversi gradi
di «ottimismo» in relazione alla effettiva possibilità dell’argomentazione giuridica di
giustificare razionalmente l’applicazione delle norme, si tratta di teorie del diritto
che condividono un chiaro milieu culturale comune e che mirano ad
una concezione del diritto più «mite» e meno «autoritativa». ¶{p. 155}
La desiderabilità di tale
concezione non è ovvia. Teorie quali il positivismo presuntivo di Schauer
[44]
, ad esempio, sottolineano le ragioni di una definizione del diritto
autoritativa, basata sulla necessità di fornire ai consociati un metodo di
organizzazione sociale celere, che deleghi la produzione e l’applicazione delle norme,
ma anche il bilanciamento delle ragioni sottostanti, a delle autorità appositamente
istituite. I bilanciamenti effettuati dovranno essere considerati almeno presuntivamente
legittimi e non ridiscussi caso per caso.
Indipendentemente dai meriti e dai
difetti dei vari gruppi di teorie, il fatto stesso che concezioni del diritto così
diverse esistano e si confrontino è indicativo del fatto che non v’è accordo unanime su
quale approccio sia preferibile. Ma il confronto aiuta anche a collocare l’emergere di
teorie nuove quali quella dell’interlegalità in un più ampio processo di ridiscussione
di alcuni presupposti impliciti nel modo di ragionare dei giuristi, a partire dall’unità
e dalla chiusura dal sistema giuridico. Come la culture of
justification negli anni Novanta, l’obiettivo è quello di fornire una
teoria del diritto adatta ai tempi e alle esigenze specifiche di un contesto nuovo,
quello dell’interconnessione tra regimi giuridici diversi. In questo senso più profondo,
le due teorie sono, per così dire, gemelle.
Se l’obiettivo di fornire «a new
perspective on law» riuscirà o meno non è facile da prevedere, ma l’esistenza stessa del
dibattito merita di essere salutata favorevolmente.
Note
[36] Cfr. Mureinik, A Bridge to Where, cit., pp. 41-42.
[37] La celebre espressione è di R. Dworkin, Rights as Trumps, in J. Waldron (a cura di), Theories of Rights, Oxford, Oxford University Press, 1984.
[38] Cfr. Mureinik, A Bridge to Where, cit., p. 33.
[39] Cfr. Dyzenhaus, Law as Justification, cit., pp. 32-34.
[40] Mureinik, A Bridge to Where, cit., p. 48.
[41] N. Bobbio, Teoria generale del diritto, Torino, Giappichelli, 1993, pp. 167-169.
[42] Cfr. Palombella, Theory, Realities, and Promises of Interlegality, cit., pp. 372-378.
[43] La tassonomia è ripresa da K. Culver e M. Giudice, Legality’s Borders: An Essay in General Jurisprudence, Oxford, Oxford University Press, 2010, pp. 149-171.
[44] F. Schauer, Playing by the Rules, Oxford, Clarendon Press, 1991; trad. it. Le regole del gioco, Bologna, Il Mulino, 2000, cap. VII.