L'era dell'interlegalità
DOI: 10.1401/9788815370334/c10
Secondo chi scrive,
quest’ultima dovrebbe essere la soluzione preferibile e, probabilmente, anche
necessaria. L’art. 51 c.p., nell’affermare che «l’esercizio di un diritto o
l’adempimento di un dovere (…) esclude la punibilità», non implica che la norma sul
diritto o sul dovere prevalga in ogni caso sulla norma incriminatrice. Come già
ribadito, l’interazione nel caso concreto è il quid proprium
del conflitto tra norma incriminatrice e norma sul diritto o sul dovere. E se è vero
che quest’ultima ha una propria ratio e funzione a prescindere
dall’interazione con la norma penale
[36]
– di talché la funzione di giustificazione viene in rilievo solo
eventualmente, quando l’attività permessa o doverosa integri al contempo un fatto
sanzionato – la prevalenza della norma permissiva o cogente rispetto alla norma
incriminatrice deve necessariamente essere argomentata sulla base della specifica
interazione delle due norme nel caso concreto.
¶{p. 259}
Per chiarire tali affermazioni
consideriamo un caso paradigmatico di applicazione dell’art. 51 c.p. nel diritto
interno: un giornalista pubblica un articolo contenente una critica agguerrita nei
confronti di un certo personaggio pubblico. La sua condotta può integrare la
fattispecie di diffamazione in quanto ha leso l’onore e la reputazione altrui.
D’altra parte, però, sembra concretare l’esercizio di un diritto costituzionalmente
tutelato: il diritto di manifestazione del pensiero e, in particolare, il diritto di
critica giornalistica.
Ora, l’art. 21 Cost. è
astrattamente compatibile con l’art. 595 c.p., che incrimina il delitto di
diffamazione. A tal proposito può dirsi che le disposizioni svolgono funzioni
differenti e trovano entrambe giustificazione nel sistema di valori costituzionali.
L’art. 595 c.p., del resto, non incrimina di per sé qualunque manifestazione del
pensiero, bensì, soltanto quella lesiva dell’altrui dignità, ossia di un altro
fondamentale valore costituzionale. Inoltre, tra le due norme non è chiaramente
identificabile un rapporto di genere a specie, e non solo sul piano strutturale:
costituendo espressione di un altro valore costituzionale, la dignità della persona,
presidiata dall’art. 2 Cost., difficilmente l’art. 595 c.p. può essere ritenuto una
specificazione dell’art. 21 Cost.
L’articolo giornalistico,
benché costituisca manifestazione della libertà di espressione e svolga la
fondamentale funzione di informare la collettività, può nondimeno offendere l’altrui
dignità e risultare meritevole di pena ai sensi dell’art. 595 c.p. In particolare,
per stabilire se il diritto prevalga, il giudice è tenuto a verificare in concreto
le modalità di realizzazione del fatto secondo il test, ormai consolidato nella
giurisprudenza, del controllo di verità, pertinenza e continenza della notizia
[37]
. Una simile verifica non incide sulla validità ed efficacia dell’art. 21
Cost. o dell’art. 595 c.p.; essa si limita semmai a consentire l’individuazione
della norma prevalente nel caso concreto. Operazione il cui esito resta aperto alla
valutazione giudiziale, alla luce del rispetto delle condizioni ricordate,
¶{p. 260}circa la preminenza della tutela della libera informazione
o della dignità della persona, sub specie di reputazione.
Ove invece si ritenga che
l’art. 595 c.p. si ponga in contrasto già sul piano astratto con l’art. 21 Cost.,
diverso sarebbe il rimedio da attuare: non l’applicazione dell’art. 51 c.p., sulla
base della preminenza in concreto del diritto di manifestazione del pensiero
rispetto alla reputazione, bensì la proposizione di una questione di legittimità
costituzionale per violazione dell’art. 21 Cost. Questo sarebbe il rimedio più
idoneo, ad esempio, qualora si riconoscesse che la costruzione della fattispecie o
la previsione del relativo trattamento sanzionatorio, già in astratto, definiscano
un bilanciamento irragionevole tra i beni coinvolti della libertà di espressione e
della tutela della reputazione
[38]
.
Il conflitto concreto tra
libertà di manifestazione del pensiero e diffamazione non può accettare dunque, per
ragioni fisiologiche, una soluzione univoca e predeterminata. La giurisprudenza fa
proprio il criterio della «gerarchia assiologica mobile», favorevole alla
realizzazione di un bilanciamento degli interessi sottesi alle norme in conflitto,
anche in relazione alle modalità concrete di svolgimento del fatto
[39]
e verifica di volta in volta il rispetto dei limiti interni del diritto
– cioè l’ambito di operatività dello stesso – e dei limiti esterni – ossia quelli
posti a tutela di altri interessi ¶{p. 261}a fondamento
costituzionale. Così, può arrivare a giustificare la soccombenza del diritto ove lo
stesso esercitato in modo sproporzionato rispetto all’interesse da realizzare, anche
in rapporto alla compressione del bene tutelato dalla fattispecie tipica: la
manifestazione del pensiero, pur se realizzata nell’ambito di un’attività
nell’interesse della collettività quale quella giornalistica, qualora comporti in
concreto un sacrificio eccessivo dell’altrui dignità – in quanto, ad esempio,
vengano divulgate notizie false, prive di interesse pubblico, o in una forma non
continente – soccombe a fronte della norma penale a tutela della dignità della persona
[40]
.
3.2. Ridefinizione dell’ambito di applicazione dell’art. 51 c.p. rispetto ai conflitti interlegali. Tipologia del conflitto
Simili considerazioni possono
essere riproposte nelle situazioni di interlegalità, ossia rispetto ai casi in cui
la norma sul diritto o sul dovere potenzialmente applicabile al fatto provenga
dall’ordinamento sovranazionale.
Anche per questi casi l’art. 51
c.p. trova applicazione soltanto quando il conflitto tra la norma interna e la norma
sovranazionale si ponga in relazione al caso concreto tra norme entrambe valide ed
efficaci; non quando sussista un conflitto tra fonti da risolvere attraverso
predefiniti criteri formali
[41]
sulla base delle norme di coordinamento inter-ordinamentale di cui agli
artt. 10, 11 e 117 Cost.¶{p. 262}
Da questa prospettiva devono
essere rivisitate alcune proposte di giurisprudenza e dottrina di inquadramento
sotto l’art. 51 c.p. dei conflitti tra norma penale nazionale e norma sul diritto o
sul dovere di diritto eurounitario o sovranazionale che paiono sovrapporre
indebitamente la soluzione del conflitto ai sensi dell’art. 51 c.p. con la soluzione
del conflitto ai sensi degli artt. 10, 11 e 117 Cost.
Consideriamo innanzitutto le
norme eurounitarie. La dottrina ha subito inquadrato il rapporto tra norma penale
interna e norma, allora definita comunitaria, sul diritto sotto l’art. 51 c.p.
[42]
e ha giustificato la prevalenza della norma europea sulla norma interna
sulla base della primazia dell’ordinamento dell’Unione e del conseguente
potere-dovere del giudice di applicare direttamente le norme europee dotate di
effetto diretto, con disapplicazione delle norme interne, secondo l’assetto
riconosciuto ormai da tempo dalla giurisprudenza interna e dalla Corte di giustizia
[43]
. Da questa prospettiva l’art. 51 c.p. legittimerebbe o comunque
rafforzerebbe l’operatività, sul piano del diritto penale, del meccanismo di
disapplicazione normativa che regola il conflitto tra norme interne e norme di
diritto UE
[44]
. Per chi sostiene la tesi «dichiarativa» dell’art. 51 c.p. esso
«accoglierebbe», insieme agli altri criteri logico-formali che governano il
conflitto tra le norme, il criterio del primato della norma europea sulla norma interna
[45]
. La produzione ¶{p. 263}di un effetto restrittivo
esclusivamente in bonam partem per l’imputato fugherebbe ogni
dubbio circa il rispetto del principio di legalità penale.
A dispetto di tali
osservazioni, il conflitto tra norma penale interna e norma eurounitaria sul diritto
dovrebbe essere inquadrato di volta in volta sotto soluzioni differenti: talvolta
come conflitto ai sensi dell’art. 51 c.p. tra norma di libertà e norma
incriminatrice tra di loro compatibili ed entrambe applicabili al fatto; talaltra
come conflitto di non conformità in astratto del precetto – o della norma
extrapenale integratrice del precetto – rispetto al diritto eurounitario. Nel primo
caso il giudice è chiamato ad applicare la norma ritenuta prevalente sulla base di
una valutazione assiologica il cui esito, anche qualora determini la prevalenza
della fattispecie incriminatrice interna, non pregiudica la primazia del diritto
eurounitario in quanto non attiene al giudizio di compatibilità tra le norme in
astratto ma a quello di prevalenza degli interessi sottostanti in concreto
realizzati, inevitabilmente condizionato dalle specifiche modalità di realizzazione
del fatto. Nel secondo caso, invece, il giudice tendenzialmente dovrebbe
disapplicare la norma interna confliggente con il diritto eurounitario di cui è
chiamato ad assicurare la primazia.
Così, non dovrebbero rilevare
ai sensi dell’art. 51 c.p., ma dovrebbero essere risolti con la disapplicazione
della fattispecie incriminatrice, quelle ipotesi di incompatibilità astratta tra la
norma extrapenale integratrice del precetto e la norma eurounitaria. E ciò anche ove
la norma eurounitaria autorizzi solo alcuni dei comportamenti puniti e quindi la
fattispecie penale non possa essere disapplicata del tutto.
Si pensi alla questione della
compatibilità della disciplina interna delle scommesse di cui all’art. 4 l. 401/1989
– che sanziona la raccolta e la gestione di scommesse da parte di soggetti privi
dell’autorizzazione di polizia di cui all’art. 88 testo unico delle leggi di
sicurezza (r.d. 773/1931) e della concessione amministrativa rilasciata
dall’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato (AAMS), entrambe richieste a tal
fine – e le libertà di prestazione di servizi e
¶{p. 264}stabilimento di diritto UE. La Corte di giustizia, adita in
via pregiudiziale, ha precisato che tale disciplina costituisce una restrizione alla
libertà di stabilimento e alla libera prestazione di servizi, ammissibile soltanto
se giustificata da esigenze imperative di interesse generale e necessarie,
proporzionate e non discriminatorie
[46]
. In tal modo, essa si è pronunciata sulla compatibilità in astratto tra
la normativa italiana autorizzatoria e la normativa comunitaria richiedendo al
giudice la disapplicazione della prima.
Note
[36] In questo senso, già G. Marinucci, Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, in «Riv. it. dir. e proc. pen.», 1983, n. 2, pp. 1190 ss., spec. 1237, concludendo però in favore della prevalenza «stabile» della norma sul diritto o sul dovere.
[37] Condizioni cristallizzate a partire dalla c.d. «sentenza decalogo» Cass. civ., sez. I, 18 ottobre 1984, n. 5259, in «Foro it.», 1984, n. 1, pp. 2711 ss., con nota di R. Pardolesi.
[38] Peraltro, questo è quanto è stato affermato recentemente dalla Corte cost., ord. 26 giugno 2020, n. 132, che ha riconosciuto l’inadeguatezza del bilanciamento realizzato dall’art. 595 c.p. sul piano del trattamento sanzionatorio tra libertà giornalistica e tutela della reputazione. Con l’innovativo strumento dell’ordinanza di rinvio della trattazione della questione di costituzionalità, la Corte ha concesso al legislatore un termine per riformare la disposizione prevedendo un nuovo bilanciamento trai beni coinvolti costituzionalmente conforme. Alla scadenza del termine, in assenza dell’invocato intervento legislativo di riforma, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 13 l. 8 febbraio 1948, n. 47 in quanto prevede l’applicazione indefettibile della pena detentiva ai casi di diffamazione aggravati dall’uso della stampa e dall’attribuzione di un fatto determinato (sent. 22 giugno 2021, n. 150).
[39] Per una panoramica cfr. anche F. Viganò, art. 51, in E. Dolcini e G.L. Gatta (a cura di), Codice penale commentato, Milano, Giuffrè, 2015, pp. 867 ss.
[40] Sull’individuazione di limiti interni e limiti esterni del diritto sulla base dell’esigenza di tutelare altri controinteressi anche di natura costituzionale, recentemente, Cass. V, 11 febbraio 2020, n. 12485.
[41] Sempreché un simile giudizio aprioristico di prevalenza sia ammissibile tout court. Proprio la teoria dell’interlegalità invita a guardare in modo differente, dalla prospettiva del caso, anche ai conflitti normativi qui definiti «in astratto», in quanto i criteri formali non risultano sempre risolutivi o comunque realizzano un assetto di interessi criticabile sul piano sostanziale. Si rimanda sul punto a G. Palombella, Theories, Realities and Promises of Interlegality: a Manifesto, in Klabbers e Palombella (a cura di), The Challenge of Inter-legality, cit., pp. 363 ss.
[42] Già C. Pedrazzi, L’influenza della produzione giuridica della CEE sul diritto penale italiano, in M. Cappelletti e A. Pizzorusso (a cura di), L’influenza del diritto europeo sul diritto italiano, Milano, Giuffrè, 1982, p. 623.
[43] C. Cost., Granital, 8 giugno 1984 n. 170, in «Foro it.», 1984, n. 1, p. 2062 e CGUE, C-106/77, Simmenthal, 9 marzo 1978. Cfr. G. Tesauro, Diritto dell’Unione europea, Padova, CEDAM, 2012, pp. 165 ss.
[44] Cfr. Spena, Diritti e responsabilità penale, cit., p. 243, secondo cui «l’esistenza dell’art. 51 c.p. permette di dare una forma giuridica consolidata, e senz’altro compatibile con i principi che governano la “materia penale”, ai peculiari meccanismi attraverso i quali (…) si esprime la prevalenza del diritto comunitario sul diritto (anche penale) nazionale».
[45] Cfr. Palazzo, Costituzione e scriminanti, cit., pp. 1033 ss., che sottolinea come «l’effetto giustificante, al di là di ogni altro criterio di prevalenza tra norme, si produca in ragione del primato che la norma comunitaria può vantare rispetto alla fonte interna».
[46] CGUE Grande Sezione 6 marzo 2007, nelle cause riunite C338/04, C359/04 e C360/04, Placanica e altri, e 16 febbraio 2012 C-72/10 e C-77/10, Costa & Cifone, inoltre, ha ritenuto in contrasto con le norme del trattato la previsione di sanzioni nei confronti dell’operatore che raccolga scommesse in assenza dell’autorizzazione o della concessione quando queste gli siano negate in violazione delle norme di diritto UE. Alle sentenze della Corte di giustizia hanno fatto seguito le sentenze della Corte di legittimità, Cass. pen., sez. III, 28 marzo 2007, n. 16928 e 16 maggio 2012, n. 18767. Di recente sul tema C. Cost. 8 marzo 2017, n. 48 che dichiara manifestamente inammissibile la questione di costituzionalità delle norme interne sull’esercizio delle attività di gioco e scommesse in riferimento agli artt. 3, 25 e 41 della Costituzione e agli artt. 49 e 56 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea; il giudice avrebbe dovuto infatti provvedere direttamente alla disapplicazione delle norme interne in contrasto con le norme che riconoscono la libertà di stabilimento e di prestazione di servizi.