Edoardo Chiti, Alberto di Martino, Gianluigi Palombella (a cura di)
L'era dell'interlegalità
DOI: 10.1401/9788815370334/c10
La questione è stata affrontata in un recente caso giurisprudenziale in cui era contestata la fattispecie di sottrazione e trattenimento di minore all’estero di cui all’art. 574 bis c.p. [13]
al padre che aveva portato con sé in Pakistan i propri figli minori di nazionalità pakistana impedendo alla madre l’esercizio della potestà genitoriale. Per risolvere questo
{p. 249}caso è necessario stabilire se gli elementi normativi della «sottrazione del minore al genitore esercente la responsabilità genitoriale» e dell’«impedimento dell’esercizio della responsabilità genitoriale» debbano essere qualificati sulla base dell’ordinamento italiano avente giurisdizione ai sensi dell’art. 6 c.p. oppure dell’ordinamento straniero – nella specie pakistano – chiamato a regolare i rapporti familiari, in quanto legge nazionale dei figli, dall’art. 36 della l. 31 maggio 1995 n. 218 di diritto internazionale privato.
Qualora trovi applicazione la legge pakistana, la quale riserva al padre ogni decisione riguardante la potestà sui figli, la scelta dell’imputato di condurre i figli in Pakistan al suo seguito non integrerebbe una «sottrazione» né impedirebbe l’esercizio della potestà genitoriale materna – insussistente secondo la legge pakistana – o comunque costituirebbe manifestazione di un diritto che la legge pakistana riconosce al padre.
La soluzione della Cassazione di escludere la rilevanza normativa della legge pakistana ai fini del giudizio di responsabilità penale pare condivisibile nel risultato ma lascia alcuni dubbi con riguardo al metodo.
Deve infatti criticarsi l’idoneità dell’affermazione della Corte, secondo cui le norme di diritto internazionale privato «sono dirette ad individuare la legge applicabile nel proprio ambito di disciplina ovvero nei rapporti tra privati», ad escludere l’applicazione della legge pakistana: anche nel caso di specie, la legge straniera è richiamata non in quanto legge penale bensì come norma extrapenale applicabile ai rapporti privatistici a loro volta integranti la tipicità della fattispecie. La Corte avrebbe potuto semmai escludere il richiamo per violazione dei limiti posti dall’ordinamento all’ingresso della legge straniera: la stessa legge di diritto internazionale privato prevede che la norma straniera non trovi applicazione ove sia violato il limite dell’ordine pubblico (art. 16 l. 218/1995) – in questo caso rinvenibile nel principio di eguaglianza dei coniugi anche nei rapporti con i figli, desumibile dagli artt. 29 e 30 Cost. – e qualora le norme interne concorrenti con quelle straniere nella qualificazione del rapporto siano «ad applicazione necessaria», come, ai {p. 250}sensi dell’art. 36 bis l. 218/1995, le norme che attribuiscono ad entrambi i genitori la responsabilità genitoriale.
Oltretutto, ad escludere la legge pakistana sarebbe stata dirimente già la corretta descrizione del fatto. Consistendo nel trasferimento del minore in un Paese differente da quello di residenza, non in un «mero» atto di esercizio della potestà genitoriale, esso andrebbe qualificato, come la stessa Cassazione ammette, secondo la Convenzione dell’Aja del 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale dei minori: quest’ultima, all’art. 3, individua nella legge dello Stato in cui il minore aveva la propria residenza abituale immediatamente prima del suo trasferimento (nel caso di specie, l’Italia) la legge da applicare per valutare l’eventuale illiceità del fatto.

2.3. Fatto (anche solo parzialmente) extraterritoriale e limiti territoriali delle norme prevenzionistiche integratrici della colpa

L’efficacia normativa del diritto straniero pare forse più facilmente argomentabile con riguardo al fatto realizzato, in tutto o in parte, sul territorio estero.
L’esame di tale ipotesi interseca il dibattito sulla necessità della «doppia qualificazione penale» – sia secondo l’ordinamento interno sia secondo l’ordinamento straniero – ai fini della punizione del fatto commesso fuori del territorio nazionale [14]
; come anche quello, in parte connesso, sui limiti territoriali dell’efficacia precettiva delle fattispecie penali, in relazione alla loro struttura e al bene giuridico protetto [15]
. {p. 251}
Si discute innanzitutto se l’applicazione della legge italiana ai fatti commessi all’estero da cittadini o stranieri ai sensi degli artt. 9 e 10 c.p. [16]
sia subordinata al requisito della doppia incriminazione; ossia alla previsione del fatto come reato tanto nell’ordinamento italiano, quanto nell’ordinamento straniero in cui il fatto è realizzato. La rilevanza della lex loci per la valutazione dei fatti realizzati all’estero pare necessaria per assicurare tanto il rispetto del principio di sovranità territoriale, quanto la ratio garantistica del principio di legalità in materia penale, volta a consentire al soggetto di determinare il proprio comportamento sulla base della prevedibilità delle conseguenze delle proprie azioni [17]
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La questione dell’efficacia normativa del diritto straniero e dell’integrazione di conflitti interlegali si può porre anche nei casi di giurisdizione territoriale fondata sul principio ubiquitario di cui all’art. 6, co. 2, c.p. secondo cui il locus commissi delicti può determinarsi tanto con riguardo al luogo di realizzazione della condotta, quanto con riferimento al luogo di verificazione dell’evento. Una questione problematica riguarda la sussistenza di limiti territoriali rispetto alle fattispecie colpose d’evento ove la condotta sia commessa all’estero e l’evento non voluto si verifichi successivamente nel territorio italiano di talché è nel territorio straniero – e quindi secondo le leggi ivi vigenti – che il soggetto ha orientato il proprio comportamento e agito. Rispetto a queste ipotesi risulta cruciale stabilire se l’elemento normativo che integra la tipicità colposa, ossia l’inosservanza della regola cautelare generica o specifica volta ad impedire l’evento, {p. 252}debba essere regolato dal diritto del luogo in cui è realizzata la condotta o da quello del luogo in cui si verifica l’evento non voluto. A favore della prima opzione milita l’osservanza dei principi di legalità e prevedibilità in materia penale e la vocazione domestica delle norme cautelari che definiscono le fattispecie colpose [18]
.
Simile interrogativo è stato recentemente affrontato dalla giurisprudenza con riguardo alla configurabilità della responsabilità amministrativa da reato prevista dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 in capo all’ente che abbia la propria sede principale all’estero ma che si trovi ad operare anche in Italia e ivi sia commesso, nel suo interesse o vantaggio, il reato della persona fisica soggetto apicale o sottoposto di cui l’ente è chiamato a rispondere ai sensi dell’art. 5 d.lgs. 231/2001.
L’art. 4 d.lgs. 231/2001 [19]
prevede la giurisdizione italiana rispetto all’illecito dell’ente avente la «sede principale» nel {p. 253}territorio dello Stato anche qualora il reato nel suo interesse o a vantaggio sia commesso all’estero. Nulla dice invece dell’ipotesi del reato territoriale realizzato nell’interesse o a vantaggio di un ente privo di sede principale nel territorio dello Stato per cui ci si è chiesti se esista la giurisdizione italiana in questo caso.
La risposta dipende dall’orientamento sostenuto circa la struttura dell’illecito dell’ente. Il «confinamento» all’estero del fatto dell’ente e la sua valutazione alla stregua delle norme ivi vigenti è più agevolmente sostenibile se si ritiene l’autonomia dell’illecito dell’ente rispetto a quello della persona fisica e se ne individua la tipicità nell’inosservanza di una condotta diligente – l’adozione e attuazione dei modelli prevenzionistici richiamati dalla legge – idonea ad impedire il reato della persona fisica [20]
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Ove si aderisca a questa opzione, la commissione in Italia del reato della persona fisica nell’interesse o a vantaggio dell’ente non potrebbe fondare, in assenza di un’espressa previsione di legge in tal senso, la giurisdizione italiana anche rispetto al fatto, autonomo, dell’ente che abbia la propria sede principale all’estero. Proprio l’art. 4 d.lgs. 231/2001, fissando il criterio giurisdizionale della sede principale dell’ente, costituirebbe espressione della scelta legislativa di individuare il locus commissi delicti ai fini del radicamento della giurisdizione nel luogo in cui si è verificato il difetto di organizzazione [21]
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La giurisdizione italiana sembrerebbe dover essere negata, inoltre, proprio per i limiti territoriali dell’illecito derivanti
{p. 254}dalla tipicità colposa; ossia per l’impossibilità di riconoscere efficacia precettiva alle norme prevenzionistiche interne nei confronti della condotta di organizzazione tenuta all’estero.
Note
[13] Ci si può domandare a tal proposito se, qualora il fatto di reato presenti degli elementi normativi riferibili a rapporti giuridici dotati di elementi di estraneità rispetto all’ordinamento interno, la legge di diritto internazionale privato n. 218/1995 o le convenzioni di diritto internazionale privato possano rendere rilevanti norme straniere ai fini della valutazione di tipicità del fatto o, come interessa in questa sede, di antigiuridicità, cfr. Cass. pen., sez. III, 20 novembre 2019, n. 7590, in banca dati Dejure.
[14] Sul tema già I. Caraccioli, L’incriminazione da parte dello Stato straniero dei delitti commessi all’estero e il principio di stretta legalità, in «Riv. it. dir. proc. pen.», 1962, n. 2, pp. 998 ss. Più recentemente D. Micheletti, Delitti commessi all’estero e validità extraterritoriale della legge penale: profili sistematici e questioni interpretative, in «Ann. Univ. Ferrara – Sc. Giur.», 1999, pp. 148 ss.; A. di Martino, La frontiera e il diritto penale, Torino, Giappichelli, 2006, passim.
[15] Il tema è stato affrontato da F. Dean, Norma penale e territorio. Gli elementi di territorialità in relazione alla struttura del reato, Milano, Giuffrè, 1963; più recentemente di Martino, La frontiera e il diritto penale, cit.; D. Micheletti, Reato e territorio, in «Criminalia», 2009, pp. 579 ss.
[16] Maggiori dubbi riguardano il rispetto della doppia incriminazione per i casi di giurisdizione extraterritoriale fondata sul criterio della difesa di cui agli artt. 7 e 8 c.p. Sul tema cfr. Micheletti, Delitti commessi all’estero e validità extraterritoriale della legge penale, cit., pp. 148 ss.
[17] Sul tema cfr. di Martino, La frontiera e il diritto penale, cit., pp. 120 ss. Recentemente riconosce la problematica anche Cass. pen., sez. V, 10 marzo 2016, n. 13525, su cui T. Trinchera, Limiti spaziali all’applicazione della legge penale italiana e maternità surrogata all’estero, in «Riv. it. dir. e proc. pen.», 2017, n. 4, pp. 1392 ss.
[18] Si ricorda che recentemente le Sezioni unite della Suprema Corte hanno riconosciuto che la legge penale applicabile al fatto nei reati caratterizzati da uno «iato temporale» tra la condotta e l’evento sia quella vigente al momento della realizzazione della condotta. Il tempus commissi delicti ai fini dell’individuazione della legge penale applicabile in caso di successione di leggi nel tempo ai sensi dell’art. 2 c.p. va quindi individuato nel momento in cui viene realizzata la condotta, e non in quello in cui si verifica l’evento, a garanzia dell’individuo dal momento che «è la condotta il punto di riferimento temporale essenziale a garantire la “calcolabilità” delle conseguenze penali e, con essa, l’autodeterminazione della persona: ed è a tal punto di riferimento temporale che deve essere riconnessa l’operatività del principio di irretroattività ex art. 25 Cost.» (Cass. Sez. Un. 19 luglio 2018, n. 40986, § 7.1). La Cassazione ricorda comunque come invece l’art. 6 c.p. accolga un criterio alternativo ai fini della determinazione del tempus commissi delicti a legittimazione del criterio ubiquitario di giurisdizione territoriale (§ 6.2). Peraltro, le stesse argomentazioni della Corte a favore del criterio della condotta per il caso in cui sussista uno «iato temporale» tra condotta ed evento possono essere riproposte per il caso in cui sussista tra gli stessi uno «iato spaziale».
[19] Per un commento sulla dimensione internazionale della responsabilità dell’ente si rimanda, anche per la dottrina ivi citata a G. Di Vetta, Commento art. 4 (Reati commessi all’estero), in Compliance. Responsabilità da reato degli enti collettivi, Milano, Wolters Kluwer, 2019, pp. 62 ss. Si veda anche S. Manacorda, Limiti spaziali della responsabilità degli enti e criteri d’imputazione, in «Riv. it. dir. proc. pen.», 2012, pp. 91 ss.
[20] Tra i vari, O. Di Giovine, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo, in G. Lattanzi (a cura di), Reati e responsabilità degli enti. Guida al d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Torino, Giappichelli, 2010, pp. 3 ss. Sul modello unitario, in particolare per la tesi della fattispecie plurisoggettiva, cfr. C.E. Paliero, La responsabilità degli enti: profili di diritto sostanziale, in Impresa e giustizia penale: tra passato e futuro, Milano, Giuffrè, 2009, pp. 277 ss. e recentemente Id., La colpa di organizzazione tra responsabilità collettiva e responsabilità individuale, in «Riv. trim. Dir. pen. ec.», 2018, n. 1-2, pp. 175 ss.
[21] Cfr. P.M. Gemelli, Società con sede all’estero e criteri di attribuzione della responsabilità ex d.lgs. 231/01: compatibilità e incompatibilità, in «Rivista 231», 2012, p. 22.