Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c26
Con riguardo agli atti autolesivi, la giurisprudenza di legittimità tende infatti ad affermare la responsabilità penale omissiva dello psichiatra. Si tratta di un indirizzo risalente [14]
e che ha avuto, anche di recente, significative conferme [15]
. In taluni casi la posizione di garanzia di cui è titolare l’operatore sanitario è qualificata come terapeutica o di protezione [16]
, mentre in altri casi addirittura si parla esplicitamente di obblighi di sorveglianza e di controllo [17]
. L’impressione che si trae dalla lettura di queste sentenze della Corte di Cassazione è che il dovere terapeutico dello psichiatra, il quale – lo si ribadisce – è tenuto a preservare l’integrità psico-fisica del paziente, venga dilatato al punto tale da ricomprendervi anche la tutela di quest’ultimo rispetto a eventuali condotte autolesive. Del resto, non si può negare che anche alcuni autorevoli commentatori ammettono che «la tutela della salute di un malato di mente incapace di autodeterminazione implichi, a fortiori, la tutela della sua vita e della sua incolumità» da condotte autolesive [Fiandaca 1988, 110]. In tal modo, però, in tutti i casi in cui la persona affetta da malattia psichica è in grado di compiere (anche parzialmente) delle scelte terapeutiche consapevoli (e dunque ad eccezione dei casi in cui sia giustificato un TSO), si giustifica un’indebita compressione della sua libertà di autodeterminazione, scaricando sul medico i rischi (che pure dovrebbero essere consentiti) di un rapporto (che dovrebbe essere) consensualistico.
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Si tratta di un orientamento che è stato criticato dalla dottrina maggioritaria, la quale ha osservato che:
una posizione di garanzia dello psichiatra, volta a proteggere il paziente da atti auto-lesivi è pensabile solo di fronte a un soggetto incapace di esprimere la propria volontà, un paziente, quindi, per il quale non si possa pensare a un «suicidio» penalmente lecito. Rispetto a un paziente consimile, evidentemente, dovrebbe essere disposto un trattamento sanitario obbligatorio: fuori dai quali limiti non può ipotizzarsi una responsabilità penale per «agevolazione» di condotte che restano espressione di libertà [Zanchetti 2004] [18]
.
L’impianto della riforma avvenuta con la l. n. 180/1978, nonché il più generale assetto consensualistico del rapporto terapeutico tra medico e paziente non consentono la sopravvivenza, in capo allo psichiatra, di obblighi di sorveglianza e custodia tali da giustificare interventi coercitivi (al di fuori delle stringenti condizioni del TSO): con la cosiddetta legge Basaglia, infatti, il legislatore ha fatto
una scelta consapevole e ben precisa: ha preso atto del significato anti-terapeutico della custodia [...] escludendo la custodia come modalità di trattamento del malato di mente, ravvisando nella custodia e nella sorveglianza la causa principale degli incidenti, ed imponendo pertanto agli psichiatri il divieto di qualsiasi forma di custodia e l’obbligo del trattamento a porte aperte [Maspero 2005].
In effetti, la riforma del 1978 ha anche privato lo psichiatra degli strumenti legali necessari a soddisfare l’obbligo di controllo [19]
: e ciò impedisce l’ascrizione di una responsabilità penale omissiva a suo carico, considerato che questa necessita l’accertamento di poteri giuridici e materiali concretamente in grado di soddisfare il dovere di impedire l’evento lesivo.
Insomma, la dottrina maggioritaria afferma che la l. n. 180/1978 ha (finalmente) trasformato il soggetto affetto da malattia mentale «da soggetto pericoloso, fonte di pericolo da neutralizzare, in paziente, bisognoso di protezione e cura e co-protagonista di un vero e proprio rapporto terapeutico» [Cupelli 2013, 52]. Per tale ragione, e al di fuori delle stringenti condizioni che impongono il ricorso al TSO, la dottrina tende a escludere che lo psichiatra possa rispondere delle condotte autolesive del paziente. Va comunque riconosciuto che lo spirito innovatore della riforma «Basaglia» è stato valorizzato anche da alcune sentenze, di merito [20]
e di legit{p. 594}timità [21]
, le quali sembrano essere state purtroppo sopravanzate, almeno allo stato attuale, dall’orientamento (cripto)custodialista menzionato in precedenza. Tra breve si forniranno ulteriori argomenti per recuperare quell’approccio liberale che la giurisprudenza aveva prospettato all’indomani della riforma.

3.4. La responsabilità omissiva per gli atti eterolesivi del paziente

Con riguardo agli atti eterolesivi del paziente affetto da disturbo psichico, invece, la funzione di cura dello psichiatra non pare a chi scrive poter fornire alcun argomento in grado di giustificare la configurazione di un obbligo, a suo carico, di impedire condotte aggressive verso altre persone.
Purtroppo, però, la giurisprudenza di legittimità pare essere di diverso avviso, prospettando in tale materia una dilatazione del concetto di protezione ancor più abnorme (e discutibile) di quella operata con riguardo agli atti autolesivi, «sino al punto che lo psichiatra avrebbe l’obbligo giuridico di impedire il verificarsi di tutte le conseguenze negative che la sofferenza psichica può cagionare al paziente, tra le quali, evidentemente, anche le gravi ripercussioni personali a cui la violazione della legge penale lo esporrebbe sul piano giudiziario» [Cupelli 2013, 48] [22]
. Tale orientamento è supportato anche da una dottrina, perlopiù di matrice medico-legale e minoritaria nel dibattito penalistico, che evidenzia che la salute è, ai sensi dell’articolo 32 Cost., anche un interesse della collettività e che, tra le «alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici» (art. 34 della l. n. 833/1978) che giustificano il TSO, rientrerebbero anche quelle situazioni in cui il malato mentale è, di fatto, pericoloso (per sé o per altri), con la conseguenza che il TSO verrebbe ad assumere una valenza non solo terapeutica ma anche custodialistica [Fornari 1997, 615].
È in questo contesto che la Corte di Cassazione, recentemente, è giunta ad affermare che
il medico psichiatra è titolare di una posizione di garanzia che comprende un obbligo di controllo e di protezione del paziente, diretto a prevenire il pericolo di commissione di atti lesivi ai danni di terzi e di comportamenti pregiudizievoli per sé stesso [23]
. {p. 595}
Ancor più esplicitamente, in un’altra sentenza della Suprema Corte, si legge che
l’obbligo giuridico che grava sullo psichiatra risulta potenzialmente qualificabile al contempo come obbligo di controllo, equiparando il paziente ad una fonte di pericolo, rispetto alla quale il garante avrebbe il dovere di neutralizzarne gli effetti lesivi verso terzi, e di protezione del paziente medesimo, soggetto debole, da comportamenti pregiudizievoli per se stesso [24]
.
Vale la pena infine menzionare un’altra pronuncia, più risalente ma ancor più emblematica dell’approccio custodialistico che ispira la giurisprudenza di legittimità, ove si legge che
è vero che lo scopo primario delle cure psichiatriche è quello di eliminare o contenere la sofferenza psichica del paziente; ma quando la situazione di questi sia idonea a degenerare – anche con atti di auto o etero aggressività – il trattamento obbligatorio presso strutture ospedaliere è diretto ad evitare tutte le conseguenze negative che la sofferenza psichica cagiona. È del resto illusorio separare le conseguenze personali [...] da quelle verso terzi: la manifestazione di violenza ed aggressività non reca danno solo al terzo aggredito ma anche all’aggressore, con la conseguenza che il trattamento sanitario obbligatorio deve essere disposto anche nel caso in cui la malattia si manifesti con atteggiamenti di aggressività verso terzi non diversamente contenibili [25]
.
La dottrina quasi unanime ha stigmatizzato con forza tale indirizzo giurisprudenziale tramite gli argomenti richiamati in precedenza, i quali destituiscono di qualsiasi fondamento, giuridico e culturale, la pretesa sussistenza di doveri di custodia e sorveglianza in capo allo psichiatra [26]
, soprattutto quando essi siano intesi come tutela della collettività dalla persona affetta da malattia mentale, a sua volta considerata come fonte di pericolo. I commentatori osservano inoltre che l’estensione della nozione di protezione sino a ricomprendervi la tutela del paziente anche dalle conseguenze giudiziarie delle sue condotte eterolesive è del tutto indebita: lo psichiatra dovrebbe impedire tali comportamenti «solo se e nella misura in cui le conseguenze negative prodotte dal gesto inconsulto possano ricadere in via diretta – pregiudicandola – sulla salute e sul benessere psico-fisico del paziente» [Cupelli 2013, 50] [27]
. In altri termini, il dovere di cura del sanitario riguarda solo l’integrità psico-fisica del malato e non può spin{p. 596}gersi sino a renderlo garante di qualsiasi aspetto della condotta di vita del paziente: altrimenti, si scadrebbe in una relazione terapeutica che, lungi dall’essere paritaria e collaborativa, si presenterebbe come paternalista e, soprattutto, svilente per la libertà di autodeterminazione del paziente.

3.5. Regressioni giurisprudenziali, progressioni dottrinali, spiragli di riflessione critica

È questo, dunque, il panorama giuridico con cui si debbono, allo stato attuale, confrontare gli operatori sanitari che si occupano di persone con disabilità mentale. La Corte di Cassazione, soprattutto nelle sentenze più recenti, afferma senza particolari esitazioni la sussistenza, in capo allo psichiatra, di una posizione non solo di protezione (dell’integrità psico-fisica del paziente) ma anche di controllo (dei pericoli originati dalla malattia mentale del paziente), tale da consentire l’ascrizione a suo carico di una responsabilità penale omissiva per gli atti autolesivi ed eterolesivi del paziente.
La dottrina, invece, critica tale orientamento e sostiene con argomenti persuasivi che il medico non debba rispondere del mancato impedimento delle condotte eteroaggressive e, sebbene con qualche voce dissonante, autoaggressive della persona affidata alle sue cure. L’impianto della l. n. 180/1978, gli strumenti giuridici a disposizione dell’operatore sanitario nonché la natura consensualistica e collaborativa (e non gerarchica o difensiva) della relazione terapeutica inducono a condividere tale opinione. È ora il momento di articolare ulteriormente questi argomenti per provare a superare definitivamente l’approccio custodialista e difensivo che, in maniera più o meno esplicita, ispira la più recente giurisprudenza di legittimità.

4. Per una visione liberale del rapporto tra operatore sanitario e persona con disabilità mentale

Si è già accennato al fatto che la l. n. 180/1978 ha smantellato l’apparato securitario e repressivo della precedente legislazione psichiatrica, ove la pericolosità della persona affetta da malattia mentale era il principale parametro di giustificazione del suo trattamento (inteso più come custodia che come cura), come dimostravano anche le contravvenzioni di cui agli articoli da 714 a 717 c.p., abrogate proprio con l’intervento del 1978 [Marra e Pezzetto 2006]. La riforma «Basaglia» (poi confluita nella l. n. 833/1978), eliminando qualsivoglia riferimento alla pericolosità del soggetto affetto da psicopatologia, ha affermato il principio della volontarietà e consensualità del trattamento terapeutico anche in materia psichiatrica (art. 33 della l. n. 833/1978), così respingendo la convinzione che tale disciplina debba essere {p. 597}prevalentemente ispirata da ragioni di difesa sociale. Inoltre, essa, in linea con le spinte alla deistituzionalizzazione, ha promosso un sistema di cura delle malattie mentali «di norma» extraospedaliero (art. 34 della l. n. 833/1978).
Del resto, anche il TSO può essere disposto solo in presenza di tre stringenti condizioni: 1) se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, 2) se gli stessi non vengano accettati dall’infermo e, appunto, 3) se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extraospedaliere (art. 34 della l. n. 833/1978).

4.1. Una certezza: gli atti eterolesivi del paziente fuoriescono dal dovere di cura dell’operatore sanitario

Questo quadro, pur sintetico, consente di comprendere le ragioni per le quali si deve senza esitazioni affermare che lo psichiatra (come del resto qualsiasi altro terapeuta) ha, nei confronti del paziente, esclusivamente una posizione di protezione della sua integrità psico-fisica, e non anche una posizione di controllo della fonte di pericolo asseritamente rappresentata dalla malattia mentale. Da ciò deriva un’ulteriore conseguenza che va sancita con altrettanta perentorietà: lo psichiatra non può essere chiamato a rispondere in sede penale degli atti eterolesivi della persona affidata alle sue cure. Tali eventi pregiudizievoli fuoriescono dalla proiezione di tutela del rapporto terapeutico, il quale concerne solo la salute (e, dunque, l’impedimento dei pregiudizi diretti ad essa). Le ulteriori conseguenze personali negative (anche giudiziarie) delle condotte eterolesive del paziente e le eventuali ripercussioni indirette che esse potrebbero avere sulla sua salute non rientrano tra gli eventi lesivi che lo psichiatra è chiamato ad impedire. Egli è chiamato a intervenire solo sulla malattia mentale e ad impedire che il suo decorso possa determinare un ulteriore deterioramento diretto dell’integrità psico-fisica della persona che ne è affetta.
Del resto, non è un caso che la disciplina in materia di TSO parli di «alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici»: quest’ultimo aggettivo chiarisce con evidenza che anche tale misura ha esclusivamente una finalità di cura della salute dell’infermo e non certo di difesa della collettività dalle sue condotte aggressive.

4.2. Un balzo in avanti: il diritto all’autodeterminazione terapeutica, il consenso informato e l’irrilevanza penale degli atti autolesivi del paziente

La posizione dello psichiatra rispetto agli atti autolesivi del paziente potrebbe, invece, generare qualche dubbio. In effetti, si potrebbe ritenere
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Note
[14] Cass. pen., sez. IV, 6 novembre 2003, n. 10430.
[15] Cass. pen., sez. IV, 27 novembre 2008, n. 48292; Cass. pen., sez. IV, 12 febbraio 2013, n. 16975 (dove, pur affermandosi l’esistenza di una posizione di garanzia dello psichiatra anche rispetto le condotte autolesive del paziente, l’esito è assolutorio); Cass. pen., sez. I, 30 aprile 2015, n. 35814; Cass. pen., sez. IV, 14 giugno 2016, n. 33609.
[16] Ad es. Cass. pen., sez. IV, 27 novembre 2008, n. 48292, dove invero però si parla di «doveri di protezione e di sorveglianza del paziente in relazione al pericolo di condotte autolesive (e, naturalmente, eterolesive)».
[17] Ad es., Cass. pen., sez. IV, 20 aprile 2017, n. 28187; Cass. pen., sez. IV, 18 maggio 2017, n. 43476; e, da ultimo, Cass. pen., sez. IV, 25 maggio 2022, n. 24138.
[18] Cfr. anche Bricola [1988].
[19] Cfr. Veneziani [2003, 346].
[20] Ad es. Corte d’Assise di Cagliari, 16 settembre 1999, ove si afferma che si legge che la l. n. 180 del 1978 «ha sancito il diritto dell’alienato psichico, come di qualunque malato, alla propria cura. A tal fine, ha esteso agli infermi di mente il principio generale della volontarietà dei trattamenti e accertamenti sanitari, abbandonando nel contempo qualunque riferimento alla custodia, con il chiaro intento di non connotare il disturbo psichiatrico come fonte presunta di pericolo».
[21] In particolare, Cass. pen., sez. II, 11 maggio 1990 (ove si legge che «non possono essere posti a carico dello psichiatra compiti di polizia»), e Cass. pen, sez. IV, 5 maggio 1987.
[22] Così Cupelli illustra l’approccio repressivo oggi prevalente nella giurisprudenza di legittimità, che egli critica e respinge con forza.
[23] Cass. pen., sez. IV, 25 maggio 2022, n. 24138.
[24] Cass. pen., sez. IV, 20 aprile 2017, n. 28187.
[25] Cass. pen., sez. IV, 14 novembre 2007, n. 10795. In realtà, però, in tale caso la responsabilità del medico psichiatra imputato è stata affermata sulla base della configurazione del reato come commissivo. Cfr. M. Baraldo [2008], che giustifica tale conclusione.
[26] Cfr. Fiandaca [1988] il quale ammette una responsabilità penale omissiva dello psichiatra rispetto agli atti autolesivi del paziente ma la nega rispetto ai suoi atti eterolesivi.
[27] Per un quadro sintetico, anche Cupelli [2014].