Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c4
Questo è stato sempre il mio sogno da quando sono entrato in una struttura, perché non è stato facile entrare in una struttura per anziani a quell’età. Soltanto perché avevo bisogno di un’assistenza professionale completa e complessa. Però quando sono entrato, non sapevo nemmeno di arrivarci a quest’età per come ero ridotto. Poi dopo, piano piano, fatta la riabilitazione ci sono arrivato e ho ripreso un po’ questo sogno che avevo da quando sono entrato: che un giorno avrei costruito una vita per me, senza dover dipendere da un’assistenza.¶{p. 103}
5. De-istituzionalizzazione: una parola lunga per un lungo processo
C’è tutta questa politica sulla de-istituzionalizzazione... una parola lunghissima che ancora non riesco a pronunciare per bene.
Daniel lo dice sorridendo, ma fa
riflettere che la difficile pronunciabilità della parola sia assimilabile alla sua
altrettanta difficoltosa praticabilità.
Va beh se ci fosse una struttura per disabili in Regione, comunque sia adesso dopo aver passato questi anni, una struttura non la sceglierei. Forse non sceglierei più una struttura, perché anche se hai tutti i servizi, tutta l’assistenza, anche il costo è minore rispetto alla vita fuori... mi batterei comunque per vivere fuori anche se i costi sono più elevati. Vado sempre a cercare fondi e a costruire questa vita. Ho avuto anche un piccolo risarcimento, non abbastanza dall’assicurazione con la quale ero in causa. E allora ho pensato, perché non provare almeno a costruire.
Provare a costruire la propria
vita.
I contatti di Daniel con un Centro
per l’Autonomia, la frequentazione di una serie di incontri sulla Vita Indipendente,
sulla progettazione personalizzata e sul diritto all’autodeterminazione, sancito dalla
Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità all’articolo 19
[2]
, riaccendono desideri e aspirazioni, rimasti sopiti e nascosti, dapprima
sotto la priorità individuale di riabilitazione medica e poi sotto le macchinosità
burocratiche e le inadempienze dei servizi territoriali che, una volta offerta a Daniel
quella che doveva essere una sistemazione temporanea, non si sono più ricordati di
metterlo in condizione di trovare una risposta alle sue esigenze che fosse più
appropriata e desiderabile.
Ma non si riesce. Purtroppo, non ci riesci. Il territorio non ha i progetti e, se ce li ha, entra troppa parte burocratica. Non sono né abbastanza ricco per potermela permettere da solo, ma neanche quei pochi soldi per poter accedere ¶{p. 104}ad alcune cose. [...] E adesso dopo tutti questi anni, avrei tanto desiderio di sperimentare un po’ di vita fuori, ho tanti progetti. Essendo un soggetto molto impegnativo dal punto di vista assistenziale, non è che mi puoi mandare fuori con un’assistenza di poche ore, sono abbastanza impegnativo.
Nelle parole di Daniel leggiamo una
sorta di incorporazione del «carico assistenziale», come fosse quello a definirlo e
quasi a renderlo un peso, un impegno troppo grande che deve addossarsi da solo.
L’auto-responsabilizzazione e l’individualizzazione del problema alleggerisce la
responsabilità dei Servizi che non sono in grado di attivarsi per garantire il suo
diritto:
Sono andato a parlare con gli assistenti sociali, con il responsabile della ASL. In pratica quello che mi hanno detto, mi hanno fatto passà la voglia di provarci, ecco.Non è che mi hanno incoraggiato, mi hanno scoraggiato. Purtroppo la realtà è quella, li ringrazio che mi hanno detto la verità, altrimenti ci avrei sbattuto la testa. Purtroppo per come stanno le cose, mi sa che rimarrò qui ancora parecchio.Non soltanto loro, ma anche io facendo due, tre calcoli: costa molto più la vita fuori. Il territorio ti dà le cose, ma se sei in struttura. Garantisce 3/4 ore a settimana di assistenza fuori, ma io non posso. Io con quello che ho, un’assistenza abbastanza consistente non faccio nulla. Sarò esagerato nell’assistenza io, ma... io di notte non posso restare solo, ho bisogno di assistenza sia diurna che di notte... per mangiare, mi devono fare da mangiare; per lavarmi, mi devono lavare.
Il classico effetto del
victim blaming: la colpa non sta nell’incapacità dei Servizi,
quanto più negli «esagerati» bisogni assistenziali di Daniel.
Inoltre, tutta l’idea dei Servizi
incentrati sulla persona sembra essere applicata in una maniera fuorviante. La persona
diventa centro nel senso di target, di bersaglio di interventi già
predisposti e non in grado di adattarsi alla persona: congelati, tanto da congelare
anche la persona. Persona al centro, significa piuttosto che essa debba essere il centro
propulsore di forze, idee, desideri che plasmano l’esterno e non il bersaglio delle
forze centrifughe dei Servizi. Una riposta che dovrebbe essere costruita a partire dalla
domanda e non una domanda che deve adattarsi alle risposte preconfezionate.
La scarsità di strumenti politici e
sociali per costruire una vita fuori dalla struttura, rendono l’immaginazione di un
progetto del genere inimmaginabile. Forti sono le parole di Daniel quando dice che per
fortuna gli operatori dei Servizi lo hanno «scoraggiato», altrimenti la delusione
sarebbe stata ancora più grande. Le aspirazioni non sono mai individuali, ma socialmente
costruite [Appadurai 2004] e se il futuro è un «fatto culturale» [Appadurai 2014],
vediamo come la costruzione personale dell’avvenire si nutra dell’immaginario sociale e
globale, di ciò che dall’esterno sembra ¶{p. 105}essere concesso o meno.
Il focus allora diventa «ciò che puoi o non puoi fare», invece che ciò che «vuoi o non
vuoi». La possibilità di e non la volontà di. E il potere decisionale di Daniel è
ristretto dalle condizioni storico-politiche e territoriali vigenti; dai Servizi a
disposizione, che a loro volta, per come sono stati costituiti e pensati, sono
impossibilitati a offrire alternative diverse.
Adesso ho provato a costruire con l’Agenzia per la Vita Indipendente, un bando per un progetto che si chiama «Dopo di Noi». Che sono progetti sperimentali, come quello che avevo fatto l’anno scorso che ti concede un po’ di tempo fuori struttura: settimane o week-end fuori, una settimana al mese. Altrimenti vado a sprecare le risorse della ASL che sono in struttura. [...] Ci sono dei bandi comunali. Va in base all’ISEE. Forse rientrerei con un progetto di questi, ma ora ho un problema di ISEE perché non ci rientro, non posso fare una richiesta così.
Emerge nuovamente quel mantra del
«non posso», anche a causa di piccoli cavilli burocratici come quello dei requisiti di
accesso ai bandi per i progetti personalizzati, in questo caso l’ISEE. Il paradosso qui
è che quel risarcimento per l’incidente, percepito dopo anni di battaglie legali con
l’assicurazione, e che spetta di diritto a Daniel, diventa ora un ostacolo burocratico
per l’accesso a una tipologia sperimentale di progetti. Come diceva prima Daniel nel suo
discorso: «non troppo ricco, né troppo povero», quella zona grigia che è specchio della
struttura sociale e demografica del Paese. Il non avere un capitale economico personale
consistente non gli permette di fare tutto da solo, come provvedere a pagare
un’assistenza personale e di vivere in un’abitazione privata, ma il possedimento di
alcuni beni economici non lo fanno rientrare in quella categoria di «vulnerabile» per la
quale si attivano determinati interventi. Viene in mente, a tal proposito, tutta la
questione sulle «cittadinanze biopolitiche» [cfr. Petryna 2002; Saravia 2013; Schirripa
2014] e sulla «ragione umanitaria e caritatevole» [Fassin 2010] che agisce nel governo
delle vite di chi subisce ingiustizie sociali. Si declassa una cittadinanza, negando
diritti, al fine di riconcederli – come concessione e non come diritto – proprio a
partire dalla vulnerabilità che si assegna al cittadino. Una «vulnerabilità», però, che
deve essere dimostrata, esibita, misurata e misurabile in base a parametri ben precisi e
standard, altrimenti il diritto si perde.
È eloquente anche il fatto che
Daniel non voglia «sprecare» le risorse a lui assegnate. Si crea una sorta di vincolo
nel quale la profonda riconoscenza di Daniel per ciò che viene offerto, lo fa quasi
sentire in colpa di volere o chiedere altro o in un’altra forma. Occorre, infatti,
puntualizzare che il fatto che l’assistenza fuori dalla struttura sia più costosa, non è
un’affermazione vera, quanto una retorica degli operatori volta a
¶{p. 106}«giustificare» la conformazione stessa dell’organizzazione dei
servizi. I dati mostrano che quantificando i costi delle strutture, un sostegno alla
vita indipendente fuori dalle istituzioni non sarebbe affatto più oneroso. Il punto è
che all’interno delle istituzioni l’assistenza è garantita, all’esterno è pressoché
totalmente a carico della persona. Chiaro, dunque, che messa in questi termini, per
Daniel sarebbe più costosa. Per Daniel, però, non per il sistema di welfare.
Anche questo ha a che vedere con
l’imbroglio concettuale che fa percepire i diritti come delle concessioni o dei
privilegi, a maggior ragione quando si reclama il diritto di usufruire di sostegni in
una maniera più desiderata e desiderabile dalla persona e diversa da ciò che le
istituzioni prevedono.
6. Riflessioni conclusive
Se la pars
destruens è quella sulla quale ci si è focalizzati di più, una
pars construens, una conclusione che sia anche un nuovo inizio,
merita di essere indagata.
«Mi batterei per vivere fuori, vado
sempre a cercare fondi per costruire questa vita», dice Daniel.
E lo sta facendo, grazie anche a
iniziative sul territorio di conoscenza e consapevolezza, di sensibilizzazione rispetto
ai propri diritti e alla dignità e al valore dei propri desideri.
Una «politica della speranza»
[Appadurai 2014], che è una forma di r-esistenza e riappropriazione della propria vita e
del proprio futuro, che inizia già quando Daniel richiama l’attenzione su di sé,
dicendo: «Eccomi, sono qui, sono ancora qui», e riafferma il suo diritto di presenza nel
mondo.
Come abbiamo visto nella storia di
Daniel, una menomazione o malfunzionamento fisico e il suo effetto dis-abilitante sulla
persona possono avere un impatto significativo sui capitali sociali, economici e
culturali della stessa e della sua famiglia [Bourdieu 1986]. Possono limitare l’accesso
all’istruzione, al lavoro e alle attività sociali e culturali, riducendo così le
opportunità di sviluppo personale e professionale; ma è altrettanto importante mettere
in luce quanto i capitali simbolici, sociali e culturali siano legati ai processi di
dis-abilitazione in un circolo vizioso: avere dei buoni capitali sociali, economici e
culturali, aumenta la capacità della persona di assorbire l’urto di una condizione
disabilitante.
Utilizzando una suggestione di
Bourdieu [1992], immaginiamo gli attori sociali come giocatori. Innanzitutto, è
importante che il tavolo da gioco permetta a tutti i giocatori di giocare
«capacitandoli» [Nussbaum 2000] ognuno secondo le proprie peculiarità; è importante,
inoltre, capire che le ¶{p. 107}azioni più rischiose, quelle più
prudenti, le tattiche difensive dipendono sia dalla quantità e dalla qualità dei propri
gettoni, sia da quella degli altri. Si agisce in un’arena che è un «campo regolato dai
rapporti di forze tra gli attori che lo compongono» [Bourdieu 2003].
I capitali personali aumentano con
la possibilità di scambio con altri gettoni e di confronto con altri giocatori. Vivere
in un’istituzione significa rimpicciolire lo spazio del tavolo da gioco, significa fare
fatica a immaginare giochi diversi da quello che già si sta facendo.
L’autonomia e l’indipendenza
passano per forza per l’interdipendenza che caratterizza le vite di ognuno di noi e la
persona e la sua parte più intima si costruiscono anche in base a una «microfisica
disseminazione dello stato nelle pratiche quotidiane» [Pizza e Johannessen 2009, 17].
Quali sono stati gli sfilacciamenti
esistenziali nella vita di Daniel che non hanno resistito all’urto di quella crisi della
presenza, che è stato l’incidente, e che hanno fatto sì che il giovane ventisettenne
finisse in una residenza per anziani?
Abbiamo visto come aspetti
economici, sociali e politico-culturali siano indissolubilmente interrelati.
L’approccio emergenziale e non
progettuale alle crisi e una incapacità e impossibilità dei Servizi territoriali –
proprio per come sono stati intrinsecamente pensati – di plasmarsi sui desideri e le
aspirazioni delle persone, oltre che sui bisogni assistenziali, restringono la
costellazione immaginativa e praticabile del futuro di Daniel.
La precarietà economica – i lavori
stagionali che Daniel svolgeva prima dell’incidente – sono causa anche di una
precarizzazione più generale della vita.
Daniel è costretto ad allontanarsi
dalla Romania per lavorare ed è indotto ad accettare contratti saltuari e con pochissime
tutele e garanzie previdenziali e sociali.
Dapprima la de-socializzazione di
Daniel, vista la lontananza dalla propria rete amicale e familiare e poi l’incapacità
del sistema di dare sostegno, non solo all’individuo, ma all’intera «molecola sociale»
di Daniel fanno fallire il progetto di vivere in un’abitazione privata, trovata grazie
all’attivazione del volontariato e del Terzo settore. Il fratello e la cognata, non
riescono a sopportare il «carico assistenziale», perché non adeguatamente supportati dal
resto della comunità e delle istituzioni, vista la scarsa capacità di integrazione tra
Servizi e la difficoltà ad attivare la comunità.
Non poter raggiungere un alto
livello di istruzione, vista la difficoltà di frequentazione dei corsi universitari,
riduce le possibilità di carriera e di raggiungimento di uno status
sociale ed economico di maggior rilievo.
Inoltre, la poca accessibilità
morfologica della città e del territorio, che riflette altrettante barriere culturali,
restringe il campo dello spazio
¶{p. 108}percorribile da Daniel. Non
avere accesso fisico al territorio significa anche vedersi negate le possibilità di
accedere a quel patrimonio sociale e simbolico di relazioni e di scambi; un
rimpicciolimento del ventaglio di attività praticabili e di gestione autonoma del
proprio tempo che portano all’accrescimento del sé.
Note
[2] Nell’articolo 19, gli Stati parte riconoscono il diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella società, con la stessa libertà di scelta delle altre persone, e adottano misure efficaci e adeguate al fine di facilitare il pieno godimento da parte delle persone con disabilità di tale diritto e la loro piena integrazione e partecipazione nella società, anche assicurando che: a) le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione; b) le persone con disabilità abbiano accesso ad una serie di servizi a domicilio o re- sidenziali e ad altri servizi sociali di sostegno, compresa l’assistenza personale necessaria per consentire loro di vivere nella società e di inserirvisi e impedire che siano isolate o vittime di segregazione; c) i servizi e le strutture sociali destinate a tutta la popolazione siano messe a dispo- sizione, su base di uguaglianza con gli altri, delle persone con disabilità e siano adattate ai loro bisogni.