Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c4
D.: Avendo l’Unità Spinale qua, allora son rimasto qua, poi ho allargato la rete di amicizia. Ma in Romania non credo tornerò mai, perché la sanità qua in Italia è migliore. La Romania è un Paese in cui non ce la fai. [...]. In ospedale
{p. 98}sono stato quattro mesi e mezzo. Poi sono stato in una casa data dalla Caritas, poi ho fatto richiesta per entrare nella struttura. Perché non era adatta la casa. E tutto là.
V.: Quindi, nel momento delle dimissioni l’unica soluzione è stata questa?
D.: Sì, purtroppo sì. Quando sono uscito dall’ospedale non sapevo dove andare e allora mi si è creata questa pressione e alla fine per fortuna ho conosciuto questo amico che conosceva la Caritas e mi hanno trovato questa casa in questo paesino. Sarebbero venuti in ospedale e caricato con la barella e portato in questa casa. Non c’era una conoscenza delle strutture. Dopo mi sono informato e per fortuna ho incontrato persone che sapevano e mi hanno indirizzato nella struttura dove a tutt’oggi sto.
Prima in un appartamento in cui vivevo con mio fratello e mia cognata che mi assistevano ventiquattrore, più quelle poche ore date dal territorio. Ma... poco, perché anche adesso se vai a indagare non ci sta chissà che, figurati 15 anni fa.
Ero già giù di umore per questo incidente, sbattuto da una parte all’altra, in ansia, pieno di dolori, figurati mi hanno detto di finire in una struttura per anziani. Non me la sono presa. Mi ci sono voluti anni per uscire fuori dalla depressione, dalla delusione, e anche ora non è che sto contento. Non sono contento perché sono passati anni. È tutta politica che la usano per far vedere che stanno facendo. In realtà non ti aiutano.
O qua in struttura o qua in struttura... a meno che non sei un figlio di un riccone.
Le dimissioni protette prevedono una continuità di cura e assistenza nel delicato passaggio dal ricovero ospedaliero al rientro al domicilio o in un altro contesto di cura. In questo caso purtroppo si è trattato di dimissioni poco protette o comunque poco protettive, poiché i servizi attivati non hanno permesso a Daniel di continuare a vivere nelle modalità da lui scelte all’inizio e cioè in una residenza privata, con il fratello e la cognata.
Gli amici e il coinvolgimento del Terzo settore, in questo caso la Caritas, hanno permesso a Daniel di trovare una sistemazione e questo è indice di quanto la rete amicale e quella sociale delle associazioni, del volontariato siano importanti e di sostegno. Esse, però non possono – e non devono – essere sostitutive dell’intervento e delle opportunità offerte dalle istituzioni. Emerge una scarsa capacità di integrazione dei servizi sanitari e sociali, una difficoltà di creare reti e collaborazioni tra servizi e soprattutto di attivare il territorio e la comunità al fine di garantire una continuità attraverso servizi letteralmente extra moenia e cioè al di fuori delle soglie fisiche delle istituzioni preposte alla presa in carico sanitaria.
E qui per fortuna, nella sfortuna, sono finito in una residenza per anziani, che è la migliore struttura sul territorio anche a quei tempi e sono riuscito ad andare avanti, a recuperare, ad avere la migliore assistenza, ad avere la fisioterapia di recupero perché dovevo ancora riprendere il massimo che potevo recuperare. {p. 99}
Se la decisione di Daniel è dettata dall’emergenza personale di trovare celermente una soluzione, ma anche dalle condizioni fisiche e psicologiche nelle quali si trovava, comprendiamo che la sua costellazione di scelte, possibilità e di aspirazioni è fortemente influenzata dalla ridotta strutturazione dell’offerta esterna (territoriale e istituzionale); tanto che l’unica alternativa proposta non è una vera e propria «alternativa», ma quella che pare essere l’unica soluzione possibile. Daniel la chiama «una fortuna», perché il meno peggio sembra essere comunque di gran lunga meglio del nulla.
Le scelte individuali vi svolgono certamente un ruolo decisivo, ma il nodo epistemologico e politico non può essere sciolto con volontaristici richiami alla responsabilità e alla solidarietà come imperativi morali degli individui. La ricerca di soluzioni al rischio individuale o collettivo, infatti, pone sempre problemi complessi di organizzazione sociale del significato e di programmazione politica degli interventi [Minelli 2021, 242].
L’emergenza non viene trattata come individuale, ma come un’emergenza di sistema alla quale si era «impreparati» [Lakoff 2017] e alla quale si può rispondere solo con un approccio altrettanto emergenziale. Il governo della «vulnerabilità» è basato spesso sul binomio del rischio incalcolabile e della risposta urgente, invece di lavorare sui fattori strutturali che quel rischio potrebbero prevenirlo o almeno contenerne gli effetti deflagranti.
Per come la studia Lakoff, l’unpreparedness, che di frequente caratterizza la sanità pubblica – che abbiamo visto richiamare anche durante la recente «sindemia» da COVID-19 [Horton 2020; Singer e Claire 2003] – è un paradigma e una retorica che si basa sull’incalcolabilità del rischio possibile e sulla corrispettiva impossibilità del sistema di essere pronto a reagire. Eppure, così proprio come nel caso del COVID-19, o in quello di altri tipi di epidemie e come nel caso delle «vulnerabilità», non si potrebbe agire intanto sui fattori vulnerabilizzanti, sulle asimmetrie di potere, sulle violenze strutturali, sulle diseguaglianze, sull’erosione della sanità pubblica e del welfare che costituiscono le co-morbidità sociali dell’evento inaspettato?

4. Asincronie temporali e spaziali

D.: Stai ai ritmi della struttura, anche dell’assistenza della struttura, non è che hai un’assistenza personale. Sono qualificati come medici, come infermieri, fisioterapisti. Funziona bene dal punto di vista assistenziale, però certo stai in una residenza per anziani. Quindi chi chiama di qua, chi chiama di là. Gli operatori anche se fossero... non è che sono 300. È anche una struttura per persone con {p. 100}Alzheimer. Una novantina di persone. Tutti anziani. Non completamente. Gli anni passati avevamo anche una persona di una cinquantina di anni che purtroppo è venuta a mancare. La media è tra 80 e 90 anni. Adesso anche oltre i 90.
La giornata inizia la mattina alle 8:00. Mi preparano e ho quell’oretta di fisioterapia e poi vari tipi di assistenza, mi devono lavare, vestire, mettere in carrozzina, prepararsi per l’ora di pranzo che è a mezzogiorno. Ci si muove tra pranzo e cena e la colazione è alle 9:00. Dalle 13:00 dopo cambia il turno e allora il pomeriggio non è che ho attività... anche loro subito dopo pranzo non hanno le attività. Si riposano tutti quanti. Vanno a letto.
V.: Come trascorri le tue giornate?
D.: Eh io sto sempre impegnato con le associazioni, la maggior parte della giornata la trascorro con l’assistenza, di svegliarmi, lavarmi, prepararmi. Poi mi rimane quella parte della giornata. La cena arriva alle 6:00 e alle 8:00 sto a letto. Anche perché io non resisto a stare troppo seduto. Poi telefono, computer... ho tanto da fare. Il problema non è quello, il problema è la struttura. Anche se ho una rete di amicizia tra gli OSS, la giornata non è tutta tristezza! Poi questa pandemia... Ho preso più isolamenti che altre cose. Questo ha rovinato le cose. Anche con queste mascherine, non vedi più i sorrisi, solo gli occhi. Se scherzi neanche se ne accorgono. Ci ha fatto più male che bene.
La giornata in RSA sembra essere caratterizzata da un presente identico a se stesso, in cui i confini tra ieri, oggi e domani sono sfumati e confusi. Il tempo è scandito dai bisogni fisiologici primari: mangiare, lavarsi, fare riabilitazione e dormire. «Nuda vita», potremmo dire riprendendo Agamben [1995]. Il tempo è sicuramente un’elaborazione e un prodotto culturale: visioni cicliche, visioni progressive:
La trasformazione delle cose e di sé è sperimentata dagli umani sotto forma di ciò che noi chiamiamo tempo; e in riferimento al posizionamento del proprio corpo e delle cose rispetto ad altri corpi e ad altre cose, gli umani percepiscono ciò che chiamiamo spazio [Fabietti 2015, 129].
Qui sembra trattarsi di un’asincronia temporale tra il dentro la struttura con il suo tempo ciclico e il fuori dove l’idea progressiva, caratteristica della nostra concezione temporale, porta a una tensione verso il futuro, l’inaspettato e il desiderato. Sapere che le giornate sono sempre uguali a se stesse è una condizione a-temporale e fuori dai ritmi del mondo che ha a che vedere con il «dis-positivo» [Onnis 2013] di presa in carico e inclusione delle persone con disabilità. L’a-temporalità nega una visione progressiva e progettuale dell’esperienza e nega anche, perciò, l’esercizio immaginativo del futuro.
Il tempo della struttura non è il tempo della persona, similmente alle «istituzioni totali» [Goffman 1961; trad. it. 2010]:
in cui numerosi individui trascorrono parte della propria vita seguendo un regime di pratiche abitudinarie, rigidamente prescritto e amministrato, sotto lo sguardo {p. 101}di figure incaricate della gestione e del controllo. La divisione fra il piccolo numero di controllori (lo staff) e la maggioranza degli internati caratterizza queste organizzazioni, in cui, nonostante l’obbligo di condividere gli stessi spazi, sono ostacolate la mobilità sociale e la sostituzione dei ruoli [Minelli 2023, 114].
Daniel mette in atto la propria agency attraverso forme di riappropriazione del sé e del proprio tempo, dedicandosi alle attività pomeridiane che sono le attività da lui scelte e non prescritte.
Il COVID-19 ha sicuramente esasperato delle condizioni già latenti: ha reso ancor più difficile la possibilità di relazione e ha in parte eroso anche il consolidamento dei rapporti sociali ed emozionali esistenti.
Oltre al tempo, anche le coordinate spaziali rendono la Residenza Sanitaria per Anziani e la vita di Daniel un po’ «fuori dal mondo». Il luogo sorge su una collina, dalla quale è difficile spostarsi. Daniel sostiene che anche una volta raggiunta la città più vicina, «ti spacchi la schiena», perché le strade sono dissestate, i marciapiedi sono alti, è poco accessibile, specie per una persona come lui che utilizza una sedia a rotelle e che ha subito anche un intervento alla cervicale. Dice Daniel che la struttura è accessibile e che c’è un bellissimo giardino con una bella vista: si vedono la città e le verdi colline. L’accessibilità si ferma, dunque, alle Colonne d’Ercole del perimetro della struttura e il mondo fuori resta solo da guardare.
Sostiene Renzo Andrich [2000] che l’autonomia passa per l’equazione delle 4 A: autonomia è uguale ad ambiente accessibile, ausili tecnici, assistenza personale. Dal punto di vista degli ausili, Daniel è riuscito finalmente ad avere un dispositivo, una sedia a rotelle elettrica molto sensibile che riesce a manovrare bene e che gli permette autonomamente di spostarsi e di riappropriarsi del proprio essere e muoversi nel mondo, attraverso una «re-invenzione del quotidiano» [Moro et al. 2014] e una re-incorporazione come «ri-costituzione dell’auto-identità in relazione al nuovo stato corporeo della persona» [Seymour 1998, 107]:
Spostare faccio da solo, perché grazie a Dio mi hanno trovato una carrozzina elettronica che è molto sensibile e riesco a spostarmi. All’inizio con la carrozzina manuale stavo fermo. Quello è stata la mia svolta importante, è questa carrozzina.
Gli altri termini dell’equazione proposta da Andrich sono però pressocché assenti. L’assistenza non è personale, né tantomeno personalizzata, ma è l’assistenza della struttura con i tempi e i ritmi della RSA e si svolge entro i confini geografici della struttura stessa. L’accessibilità ambientale al di fuori della residenza per anziani è inficiata da numerose barriere fisiche che sono soltanto il precipitato materiale di altrettanti ostacoli simbolici e culturali alla partecipazione sociale, perché dimostrano che il «nostro» mondo è uno spazio pensato per pochi e abitabile solo da coloro che {p. 102}corrispondono alla «norma». Potersi muovere liberamente nello spazio «di tutti» significa avere maggiori possibilità di intessere relazioni, trovare occasioni, stimoli, nuove reti amicali e sociali, nuovi modi di pensare anche se stessi. Se a volte l’individuo può essere «dividuo» [Strathern 1988, 15] o ancor più «condividuo» [Remotti 2022], se la persona, cioè, è collettiva, risultato delle relazioni, delle cose e delle persone che la abitano, il restringimento della possibilità di frequentare altri spazi e altre persone significa anche una riduzione e un impoverimento della potenziale molteplicità dell’io vivente.
Spazi fisici e immaginativi ridotti e ristretti, dunque, e una temporalità atemporale.
Un tempo talmente uguale a se stesso, da essere immobile da un lato e dall’altro velocissimo, tanto da far «sparire» Daniel dentro l’istituzione e da farlo dimenticare per anni:
E dopodiché, ecco che è passato tutto questo periodo, tra recupero... Ho fatto anche la scuola: il biennio di liceo. Poi ho continuato a studiare, mi sono iscritto all’università, ma purtroppo le forze sono state poche e non è andata a finire bene. Scienze biologiche a P. Solo che non potendo seguire tutti i corsi, non potendo stare seduto tutto il tempo a seguire i corsi, a fare gli esami uno per uno e i tutor universitari assegnati ai quali avevo diritto per la disabilità. Poi ho abbandonato.
La priorità iniziale di Daniel era certamente quella di recuperare un benessere fisico e il massimo delle funzionalità con la riabilitazione, ma poi quel corpo, che come quello di tutti è un mindful body [Lock e Scheper-Hughes 1987] o «corpo pensante» nel quale il biologico, l’individuale, il sociale e il politico si intersecano inscindibilmente, inizia a desiderare altro. Lo studio, ad esempio. Il fallimento nel percorso universitario non è dato dalla scarsa motivazione e dall’impegno o, come dice Daniel «dalle sue poche forze», ma molto più probabilmente da un ambiente, quello universitario, che non ha saputo personalizzare il percorso formativo sui bisogni di Daniel e non si è adattato alla persona, con le sue esigenze e peculiarità.
Passata la lotta per la sopravvivenza Daniel inizia a riprendere in mano il pensiero della sua esistenza:
Questo è stato sempre il mio sogno da quando sono entrato in una struttura, perché non è stato facile entrare in una struttura per anziani a quell’età. Soltanto perché avevo bisogno di un’assistenza professionale completa e complessa. Però quando sono entrato, non sapevo nemmeno di arrivarci a quest’età per come ero ridotto. Poi dopo, piano piano, fatta la riabilitazione ci sono arrivato e ho ripreso un po’ questo sogno che avevo da quando sono entrato: che un giorno avrei costruito una vita per me, senza dover dipendere da un’assistenza.
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Note