Massimo Roccella
I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c1
L’attività della Magistratura del lavoro nella composizione dei conflitti collettivi fu sempre assai limitata. Nei pochi casi in cui fu chiamata a risolvere controversie per la fissazione di nuove condizioni di lavoro anch’essa, peraltro, agì come strumento della politica economica del regime. Sulla stampa dell’epoca grande rilievo fu dato, in particolare, a due sentenze pronunciate nel 1931 rispettivamente dalle corti di appello di Roma e di Venezia. Le due sentenze, che si rifacevano alla dichiarazione XII della Carta del lavoro, vennero accomunate in un giudizio entusiasticamente positivo [124]
: in realtà esse affermavano principi alquanto diversi. Nel vasto arsenale normativo dell’ordinamento corporativo la magistratura del lavoro romana mostrava nettamente di preferire, alla dubbia giuridicità delle disposizioni della Carta [125]
, quella, chiarissima, dell’art. 16 della legge «sindacale», che le imponeva di giudicare, nei conflitti economici, «più di tutto in relazione alle
{p. 54}necessità dettate dall’interesse superiore della produzione» [126]
: da ciò deduceva l’equità di una riduzione salariale del 24% sulle tariffe in vigore per le lavoratrici addette alla monda del riso, ch’erano già state ridotte contrattualmente appena sei mesi prima. La corte veneziana, al contrario, tributa un omaggio formale al criterio della sufficienza del salario alle «esigenze normali di vita»: ma il risultato pratico non è granché diverso, approdando anche in questo caso ad una congrua riduzione salariale. Davvero non si può dar torto a quel procuratore generale della Cassazione che ebbe a ricordare queste sentenze come un «documento di saggezza giuridica e di comprensione politica» [127]
.
Dove la comprensione politica della magistratura ebbe modo di spiegarsi ampiamente fu, peraltro, nella giurisprudenza, abbondantissima, in tema di controversie individuali, con l’adesione a un indirizzo dottrinale minoritario [128]
che interpretava l’art. 54 {p. 55}r.d. 1130/26 (in tema di derogabilità del contratto collettivo ad opera di quello individuale) nel senso di ammettere la salvaguardia delle condizioni di maggior favore dettate dal contratto individuale — nonostante il significato letterale della norma — soltanto quando dipendenti dalla considerazione delle qualità personali di un dato lavoratore. Quell’interpretazione giurisprudenziale era di carattere, per così dire, «logico-sistematico»: limitando, in linea di massima, l’ammissibilità di deroghe individuali migliorative alle fasce medio-alte di personale (in pratica impiegati e dirigenti), e negando la legittimità di analoghi trattamenti per gli operai, si veniva ad offrire un ulteriore puntello alla politica governativa di contenimento salariale [129]
.{p. 56}
Se gli atteggiamenti dei corpi giudiziari furono sempre, sostanzialmente, orientati da un marcato pragmatismo, quelli della dottrina seguirono una parabola che non sembra forzato leggere in connessione alle diverse congiunture politico-economiche. A cavallo dei due decenni era prevalsa l’esigenza di accreditare, in chiave propagandistica, una funzione progressiva degli istituti corporativi; verso la metà degli anni ’30 emergono, anche fra i gius-corporativisti, considerazioni improntate a maggiore realismo. In effetti a partire dal ’35, in conseguenza dell’avventura coloniale in Etiopia, cessarono gli orientamenti deflattivi della politica monetaria, si iniziò una politica di sostegno dei prezzi agricoli, si permise di stipulare accordi sindacali che prevedevano aumenti salariali [130]
. Si trattò di una ripresa «drogata», strettamente legata alle esigenze dell’economia di guerra: la ripresa, infatti, rimase circoscritta essenzialmente ai settori dell’industria pesante [131]
e, peraltro, neppure permise un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. L’avvitamento di una spirale inflazionistica, con aumenti del costo della vita superiori agli aumenti salariali monetari, determinò, al contrario, un’ulteriore caduta del potere di acquisto delle retribuzioni che, nel 1936, toccarono il livello più basso del periodo. La dottrina gius-corporativa, come si diceva, non sembra insensibile all’andamento del ciclo economico: nei manuali di diritto corporativo si afferma ora con più decisione la necessità che la disciplina contrattuale dei salari debba «seguire al più possibile le contingenze economiche» [132]
; si sotto{p. 57}linea, fra i criteri dei giudizi di equità della Magistratura del lavoro, l’esigenza di tutelare in ogni caso gli interessi superiori della produzione, sfumando al massimo il riferimento alla dichiarazione XII della Carta del lavoro [133]
, fino ad annullarlo del tutto. Nei suoi Principi di diritto corporativo, l’opera forse più raffinata dell’intera dottrina corporativistica [134]
, il prof. Nicola Jaeger, che scrive alla fine del decennio, non lascia spazio ad indicazioni velleitarie quali quelle attinenti alla necessità di garantire le «esigenze normali di vita». Assimilate le funzioni della sentenza collettiva e del contratto collettivo, Jaeger è reciso nel postulare come compito essenziale di entrambi la salvaguardia degli interessi della produzione, «intesi come i supremi interessi del complesso della produzione nazionale» [135]
. La magistratura, in particolare, è invitata, senza mezzi termini, a non «lasciarsi turbare da... residui di concezioni di classe ormai superate», individuando quella «soluzione di equilibrio idonea a garantire la vita e lo sviluppo delle aziende» [136]
.
L’illusorietà della soluzione fascista al problema del salario minimo emerge più chiaramente da un raffronto con l’esperienza più significativa in materia realizzata fra le due guerre, quella del new deal rooseveltiano. La storiografia più recente ha sottolineato la legittimità di un accostamento fra l’esperimento fascista e quello rooseveltiano, individuando una serie di tratti comuni nei mutamenti del rapporto fra Stato ed economia che si verificarono nei due paesi (ma non solo in essi) nel corso degli anni ’30, ed utilizzando la categoria «corporativismo», sia pure nell’accezione con cui è oggi adoperata per interpretare le esperienze di governo socialdemocratico, anche nella lettura della vicenda newdealista [137]
. {p. 58}È significativo, peraltro, come accostamenti del genere siano stati compiuti già durante gli anni ’30, sull’una e sull’altra sponda dell’oceano. È noto l’interesse con cui il gruppo di «pianificatori» americani, raccolti attorno a Rexford Tugwell, guardava agli istituti corporativi; come pure l’attenzione dedicata dalle riviste economiche italiane dell’epoca alla National industriai recovery administration e il disappunto con cui fu accolta la dichiarazione di incostituzionalità della legge istitutiva da parte della Corte Suprema [138]
. L’accostamento fra fascismo e new deal, in effetti, regge soprattutto se riferito al cosiddetto primo new deal, la cui espressione saliente fu, senza dubbio, costituita dal National Industrial Recovery Act. Ad un paragone fra corporativismo e NIRA Giuseppe Bottai dedicò un saggio, destinato a una rivista americana, e ripubblicato da noi sul «Diritto del lavoro» [139]
. Bottai è esplicito nell’affermazione che «gli strumenti adoperati (dal fascismo e dal new deal) differiscono nell’insieme e nei dettagli, ma la comunanza del fine determina più volte analogie ed accostamenti, che non sono privi di significato» [140]
. Differenza di metodi, ma non di finalità dunque [141]
, in particolare nella concezione di una economia organizzata sotto il controllo dello Stato, che tanto le corporazioni quanto i «codici di concorrenza leale» del NIRA mirerebbero a realizzare. Gli strumenti predisposti dal fascismo, però, sarebbero più affinati di quelli newdealistici, sia perché le corporazioni, organi dello Stato, supererebbero quella «separazione fra l’autorità statale e le organizzazioni dei produttori» [142]
che sussiste negli Stati Uniti, sia perché le norme in tema di rapporti di lavoro che i codici devono obbligatoriamente contenere sono lasciate alla decisione degli imprenditori, mentre in Italia dipendono dai risultati della contrattazione collettiva.
{p. 59}
Note
[124] Magistr. lavoro Roma, 18 giugno 1931, in «Dir. lav.», 1932, II, p. 101; Magistr. lavoro Venezia, 24 dicembre 1931, ivi, p. 105 con nota adesiva di Chiarelli, Il salario operaio e la Carta del lavoro, ivi, p. 106. Aquarone, op. cit., p. 135, ricorda i toni esaltati con cui Gino Arias commentò, sulle colonne del «Popolo d’Italia», la sentenza della magistratura romana.
[125] La tepidezza crescente con cui la giurisprudenza mostrava di accogliere i principi della Carta, fu del resto constatata, e stigmatizzata, già in periodo fascista: si v. Mossa, La Carta del lavoro e la giurisprudenza, in «Arch. studi corp.», 1937, p. 7 ss.
[126] Così nella motivazione, in «Dir. lav.», cit., p. 104.
[127] Longhi, nel suo discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, in «Riv. pen.», 1932, p. 16. In altri termini i contratti collettivi corporativi erano sottoposti all’operatività della clausola rebus sic stantibus, espressamente normativizzata dall’art. 71 r.d. 1 luglio 1926, n. 1130, ai sensi del quale la revisione dei contratti prima della scadenza era ammessa in caso di «mutamento notevole dello stato di fatto esistente al momento della stipulazione». Ciò consentiva di rimettere in discussione in qualsiasi momento i livelli salariali contrattualmente definiti, offrendo al padronato uno strumento, puntualmente sfruttato, per ottenere ulteriori decurtazioni salariali e privando i contratti di qualsiasi garanzia di stabilità nel tempo. Vardaro (op. cit., p. 443) sembra interpretare la norma citata in senso opposto, come una «pesante compressione del diritto di revisione da parte dei sindacati contraenti», ma, ci pare, senza portare argomenti convincenti. Per l’interpretazione da noi accolta si v. invece Rosenstock-Franck, op. cit., p. 128, che considera la questione «di capitale importanza», anche se non sempre correttamente sottolineata dagli studiosi del fascismo; e già, prima di lui, Ferrari, Le regime fasciste italien, Parigi, Spes, 1928, p. 267.
[128] Ci si riferisce alle tesi espresse da Sermonti, Il diritto sindacale italiano, II, Roma, Libreria del Littorio, 1929, p. 181 ss. e in scritti successivi. Sermenti estremizza la portata livellatrice della norma collettiva in funzione di tutela dell’«interesse superiore della produzione». Secondo l’a. ammettere indiscriminatamente la legittimità di deroghe migliorative nei contratti individuali di lavoro potrebbe «non consentire (che) si raggiunga appieno uno dei fini del contratto collettivo: di creare per la produzione condizioni di tranquillità e di sicurezza» (p. 186). Inoltre, «se le norme collettive non sostituissero le clausole più favorevoli agli operai, dovrebbe trarsene che il contratto collettivo non può mai stabilire un peggioramento nelle condizioni di lavoro. Il che è certamente contro la volontà della legge, perché l’interesse superiore della produzione può evidentemente esigere che, in periodi di crisi... anche dall’operaio si debba poter esigere il sacrificio» (p. 187). Abbandonata quindi l’idea che dal contratto di lavoro sorgano diritti quesiti, l’art. 54 r.d. 1130/1926 andrà interpretato nel senso di ammettere comunque l’efficacia sostitutiva della norma collettiva rispetto a quella (anche migliorativa) contenuta nel contratto individuale, «salva al datore di lavoro la facoltà di rinunziare alla sostituzione in favore del lavoratore».
[129] La costruzione sermontiana, accolta dalla giurisprudenza, è ben ricostruita da Vardaro, op. cit., p. 464 ss, che ne mette in luce la funzionalità alle politiche sindacali di decurtazione salariale, non supponendo essa «nessun principio di acquisizione individuale di diritti collettivamente posti o di immodificabilità in pejus del salario collettivo». Sul tema un cenno ora anche in Grandi, Rapporti fra contratti collettivi di diverso livello, in «Giornale dir. lav. e rel. ind.», 1981, p. 364 e nota 13. Dove l’analisi di Vardaro — se non si è frainteso il pensiero dell’autore — lascia perplessi è nell’ipotesi che il tardivo adeguamento della dottrina, dopo la metà degli anni ’30, alle posizioni di Sermonti, sia dipeso, più che da considerazioni strettamente tecnico-giuridiche, da ragioni d’opportunità politica, ispirate dalla necessità di «giustificare giuridicamente uno dei fondamentali strumenti di politica economica impiegati dal regime nell’economia di guerra: la manovra deflazionistica realizzata alla fine degli anni ‘30 attraverso massicce riduzioni salariali» (p. 467). La politica economica deflattiva e le connesse riduzioni salariali, in realtà, si verificarono non alla fine degli anni ‘30, ma fra il ’27 e il ’34. Con l’ingresso del paese nell’economia di guerra, viceversa, la scelta deflattiva fu invertita e ripresero a crescere anche i salari contrattuali, sia pure in misura insufficiente a coprire gli aumenti del costo della vita. Crediamo quindi di dover tenere ferma l’interpretazione, offerta nel testo, delle diverse parabole seguite da dottrina e giurisprudenza: mentre quest’ultima operò sempre con grande pragmatismo, la dottrina, negli anni centrali del regime, modulò i suoi atteggiamenti, prevalentemente, secondo ragioni d’ordine propagandistico, dettate dall’esigenza di accreditare un volto progressivo dell’ordinamento corporativo agli occhi degli osservatori stranieri. Sul piano specifico della politica salariale ciò comportò il sostegno alla dottrina rocchiana degli «alti salari» (sub specie di giusto salario). Dopo il ’35, anche in considerazione dell’ormai consumato isolamento internazionale dell’Italia, quelle ragioni vennero meno: ciò può servire a meglio comprendere i mutati umori dottrinali (su cui v. infra nel testo e note corrispondenti). Val la pena di ricordare come il carattere classista della politica salariale fascista emerga anche dall’andamento delle retribuzioni nel pubblico impiego. In generale i pubblici impiegati non videro peggiorare le proprie condizioni di vita, in termini reali, durante il ventennio. Al loro interno, però, si operò in maniera selettiva: mentre gli stipendi dei funzionari medio-alti furono migliorati, quelli delle categorie più basse rimasero stazionari, quando non subirono qualche lieve riduzione: cfr. Salvemini, op. cit., p. 342, Cova, op. cit., p. 68 ss.
[130] Cfr., per tutti, Vannutelli, op. ult. cit., p. 99; Zamagni, op. cit., p. 540 ss.
[131] Cfr. ancora Zamagni, p. 542 ed anche Vaudagna, Corporativismo e New Deal, Torino, Rosenberg & Sellier, 1981, p. 207.
[132] Cesarini-Sforza, Corso, cit., III ediz. (1934). Ivi, non a caso, un accenno critico alla pur timida sentenza della Magistr. lavoro di Venezia ricordata nel testo (p. 242).
[133] Zanobini, Corso di diritto corporativo, Milano, Giuffré, 1935, p. 293 ss.
[134] Il giudizio è di Giugni, La validità erga omnes dei contratti collettivi, in «Nord e Sud», 1960, n. 2.
[135] Jaeger, Principi di diritto corporativo, Padova, Cedam, 1939, p. 312.
[136] Ivi, p. 313.
[137] Il riferimento è al bel libro di Vaudagna, cit. Ma un accostamento fra la esperienza del fascismo e quella del new deal, sia pure di sfuggita, può leggersi già in Mancini, Introduzione a Il pensiero politico nell’età di Roosevelt, Bologna, Il Mulino, 1962, p. 10 e anche in Giugni, op. ult. cit., p. 96. Vaudagna opportunamente ricorda che l’interpretazione del new deal come esperienza di tipo socialdemocratico era già stata avanzata negli anni ’50 da Richard Hofstadter (di cui si v. L’età delle riforme, Bologna, Il Mulino, 1962). Contra, ma con argomentazioni troppo rigide, Ferrari-Bravo, Il new deal e il nuovo assetto delle istituzioni capitalistiche, in Aa.Vv., Operai e stato, Milano, Feltrinelli, 1972, p. 113.
[138] Cfr. Vaudagna, New deal e corporativismo nelle riviste politiche ed economiche italiane, in Italia e America dalla grande guerra a oggi (a cura di Spini, Migone, Teodori), Padova, Marsilio, 1976, sp. p. 117 ss.
[139] Bottai, Corporate State and NRA, in «Foreign Affairs », 4, 1935, p. 105 (trad. it. Il corporativismo italiano sul piano intemazionale, in «Dir. lav.», 1935, p. 89 ss.).
[140] Ivi, p. 98.
[141] Ivi, p. 94.
[142] Ivi, p. 102.