L'era dell'interlegalità
DOI: 10.1401/9788815370334/c18
Reali o presunte tensioni tra pace e
giustizia sono però piuttosto frequenti nell’esperienza giuridica internazionale.
{p. 501}È innegabile infatti che, in alcuni contesti, l’attività
giurisdizionale possa ripercuotersi negativamente sul complesso processo di
ristabilimento della pace e di conciliazione delle parti in conflitto
[6]
. Si pensi, ad esempio, ad un mandato di arresto emesso dal Tribunale
internazionale nei confronti di un capo di Stato: l’effetto di questa iniziativa
giudiziale potrebbe essere quello di inasprire le relazioni tra lo Stato interessato e
la comunità internazionale, produrre un isolamento di quella comunità politica, con
ripercussioni negative anche (e soprattutto, forse) per la popolazione, o per chi si
oppone a quella forza di governo. Anche l’ipotesi di un contrasto tra repressione penale
e mantenimento della pace è dunque presa espressamente in considerazione nello Statuto
di Roma. Si è immaginato, infatti, che in alcune circostanze il perseguimento della
giustizia potesse essere di intralcio al ristabilimento della pace e della sicurezza e
compromettere la stabilità stessa delle relazioni internazionali. A tal fine – e qui
affiora una certa preminenza del valore della pace su quello della giustizia tra gli
obiettivi fondamentali dell’ordinamento internazionale – il Consiglio può chiedere alla
Corte di arrestarsi, di fermare per un limitato periodo di tempo la propria attività
giurisdizionale, che potrà poi riprendere quando le esigenze del mantenimento della pace
lo consentano (art. 16 dello Statuto di Roma)
[7]
. Emerge, in
¶{p. 502}questo particolare ambito delle
relazioni tra i due organi, non solo la possibile conflittualità tra le esigenze della
pace e quelle della giustizia, ma anche la necessità di far prevalere in alcuni
contesti, pur circoscritti, l’effettività dell’azione politica del Consiglio rispetto
alla repressione penale e alla piena autonomia dell’organo giurisdizionale. Qui la
cooperazione, o meglio il coordinamento, tra i due organi, si esprime nel potenziale
ritrarsi dell’uno, la Corte, a favore dell’altro, il Consiglio.
Presupposto dell’esercizio di
entrambi i poteri qui richiamati – il potere di referral (art. 13
dello Statuto di Roma) e il potere di deferral (art. 16) – è che il
Consiglio agisca sulla base del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite e compia
quindi un accertamento circa l’esistenza di una minaccia per la pace e la sicurezza
internazionale. Una domanda che ci si può porre – forse quella cruciale nell’analisi
delle interazioni qui in esame – è se, e fino a che punto, la Corte penale
internazionale possa sindacare tale accertamento del Consiglio di sicurezza e precludere
o limitare gli effetti di una decisione volta all’attivazione o alla sospensione della
propria attività giudiziale. Una volta ammessa la possibilità di tale sindacato, è
evidente come alla Corte sia rimesso il difficile compito di determinare i principi e le
norme di diritto applicabile, un diritto che si trova, come detto, all’incrocio di più
sfere di legalità, in primo luogo quelle del sistema delle Nazioni Unite e del Trattato
di Roma. Non si affronteranno in questa sede specifici conflitti interpretativi legati
alla prassi delle due organizzazioni
[8]
, ma è evidente che la scelta di uno o l’altro ¶{p. 503}dei
modelli e delle tecniche di coordinamento qui proposte determina la soluzione del caso
concreto che si potrà porre, o già si è posto, all’attenzione dell’interprete.
2. La soluzione gerarchica dei conflitti: l’art. 103 della Carta delle Nazioni Unite e la prevalenza della legalità onusiana
È stata talora ventilata l’idea di
ricostruire le interazioni tra Corte e Consiglio in un’ottica volta a garantire una
prevalenza all’azione dell’organo politico sull’attività giurisdizionale del tribunale
[9]
. Questa possibile ricostruzione dei rapporti tra Consiglio di sicurezza e
Corte penale internazionale fa solitamente leva sul ruolo che potrebbe essere svolto in
questo ambito dall’art. 103 della Carta delle Nazioni Unite e, come ora si vedrà, tende
ad ignorare i limiti posti all’azione del tribunale dallo stesso Statuto di Roma.
L’ipotesi di una rilevanza dell’art.
103 della Carta delle Nazioni Unite al fine di legittimare una limitazione o una
estensione da parte del Consiglio di sicurezza dell’azione giurisdizionale della Corte
penale internazionale, anche al di là di quanto previsto dal Trattato di Roma, è già
stata concretamente prospettata in almeno due diverse occasioni.
Nel corso dell’adozione della
risoluzione del Consiglio di sicurezza 1423 del 2002, relativa al rinnovo della missione
delle Nazioni Unite in Bosnia Erzegovina, alcuni Stati hanno affermato che il Consiglio
avrebbe il potere di sospendere in maniera definitiva ed automatica l’azione
giurisdizionale ¶{p. 504}del Tribunale
[10]
. Queste posizioni di alcuni governi erano dettate dall’esigenza politica di
ottenere il voto favorevole degli Stati Uniti al rinnovo della missione; quello Stato,
infatti, poneva la sospensione della giurisdizione della Corte rispetto alle operazioni
di peacekeeping autorizzate o istituite dalle Nazioni Unite quale
condizione necessaria ai fini della propria partecipazione a quelle stesse missioni. Al
di là del dato politico, quel che qui interessa è che questa ricostruzione dei poteri
del Consiglio si pone in aperto contrasto con la ratio dell’art. 16
dello Statuto di Roma, che presuppone invece la necessità che l’eventuale rinnovo della
sospensione, al termine dei dodici mesi previsti, avvenga alla luce di una valutazione
ex novo della situazione politica che ha determinato
l’interruzione delle indagini o dei procedimenti in corso e non possa invece
considerarsi automatica
[11]
.
Secondo le posizioni assunte da
alcuni Stati, il potere del Consiglio di interrompere in modo definitivo l’attività
giurisdizionale della Corte rispetto a determinate situazioni, anche al di là quindi dei
precisi limiti statutari, discenderebbe direttamente dagli effetti dell’art. 103 della
Carta delle Nazioni Unite e dal fatto che quest’ultima disposizione «provides for
Charter obligations to prevail in the event of a conflict between Charter obligations
and other international obligations»
[12]
. Anche in dottrina è invero possibile rinvenire alcune riflessioni critiche
rispetto alla portata dell’art. 16 e al limite temporale ivi previsto. L’impossibilità
di sospendere la giurisdizione della Corte per un periodo superiore ai 12 mesi disposto
da quella norma solleva, secondo alcuni, una serie di perplessità, in particolare
sull’idea stessa che «the Rome ¶{p. 505}Statute can constitutionally
limit the Council’s powers»
[13]
. Anche queste critiche si fondano su di un generico richiamo all’art. 103 e
alla prevalenza che questa norma attribuisce agli obblighi derivanti dalla Carta delle
Nazioni Unite. Più in generale, secondo tali ricostruzioni, l’art. 103 della Carta
dovrebbe invece permettere al Consiglio di esercitare «its plenary powers (…) to act
decisively in many matters affecting international peace and security»
[14]
.
Il secondo interessante richiamo
all’art. 103 della Carta rispetto all’attività della Corte penale internazionale si
rinviene nel rapporto della Commissione di esperti per la repressione dei crimini
commessi a Timor Est, trasmesso al segretario generale delle Nazioni Unite nel 2005. In
quell’occasione si è sostenuto che il Consiglio di sicurezza ha il potere di estendere
la giurisdizione ratione temporis della Corte in modo da includervi
i crimini commessi a Timor Est alla fine degli anni Novanta, in un periodo antecedente
all’entrata in vigore dello Statuto di Roma. Una proposta che si poneva dunque in aperto
contrasto con l’art. 11 del trattato istitutivo della Corte, che limita la competenza
del Tribunale ai crimini commessi dopo l’entrata in vigore dello Statuto. Anche in
questo caso, la Commissione di esperti ha giustificato tale tesi invocando l’art. 103
della Carta delle Nazioni Unite che rappresenterebbe «a legal basis upon which the
Security Council could legitimately extend the scope of the temporal jurisdiction of the ICC»
[15]
.
A sostegno di soluzioni simili a
quelle appena richiamate, alcuni autori ritengono in definitiva che le misure adottate
dal Consiglio «are binding also for the ICC and subject to Art. 103»
[16]
. In altre parole, se le misure adottate ¶{p. 506}dal
Consiglio rispettano i limiti dell’esercizio dei poteri ad esso riconosciuti dalla Carta
delle Nazioni Unite, la loro eventuale incompatibilità con lo Statuto di Roma «is
irrelevant» e le decisioni del Consiglio godrebbero, in pratica, di una vera e propria
«priority over conflicting Rome Statute obligations of the ICC and its Member States»
[17]
. La prevalenza degli obblighi derivanti dalla Carta delle Nazioni Unite non
sarebbe quindi accordata soltanto rispetto agli obblighi discendenti dal Trattato di
Roma per gli Stati parte, ma anche agli obblighi che dallo Statuto stesso discendono per
gli organi del tribunale.
Se è vero che, come ribadito anche
dall’accordo di relazione tra le due organizzazioni internazionali del 2004
[18]
, la Corte penale internazionale, come ogni altro soggetto dell’ordinamento,
è tenuta a rispettare i principi e le regole di natura consuetudinaria contenute nella
Carta delle Nazioni Unite, appare tuttavia più complicato far discendere dall’art. 103
un’automatica supremazia dell’azione del Consiglio sull’attività giurisdizionale della
Corte. Questi richiami all’art. 103 della Carta delle Nazioni Unite, infatti, non
sembrano tenere in adeguata considerazione la lettera della disposizione e quella che ne
è stata fino ad oggi la concreta applicazione. Come già osservato in dottrina, infatti,
l’art. 103 «n’affirme nulle part que la Charte ou même que les obligations en vertu de
la Charte sont “supérieures” aux autres accords ou
¶{p. 507}à leurs obligations»
[19]
. Anche nella prassi, del resto, questa norma è stata in generale impiegata
per lo più per «donner une solution à des conflits concrets entre obligations»
[20]
. In altri termini, l’art. 103 non sarebbe volto a sancire la prevalenza
della Carta delle Nazioni Unite rispetto a qualsiasi altro trattato internazionale, ma
sarebbe più semplicemente una regola per la soluzione dei possibili conflitti tra
obblighi degli Stati. A differenza di quello che le ricostruzioni più sopra richiamate
suggeriscono, infatti, l’art. 103 sembra chiaramente diretto a determinare la prevalenza
per gli Stati, e non per tutti i soggetti dell’ordinamento internazionale, degli
obblighi derivanti dalla Carta delle Nazioni Unite. Nonostante il carattere universale
di alcuni principi espressi nella Carta delle Nazioni Unite e l’impegno assunto dalla
stessa Corte a rispettarne il contenuto e le finalità, il tribunale non è assoggettato
ad una regola volta a disciplinare ipotesi di conflitti tra obblighi che possono
potenzialmente sorgere per gli Stati membri delle Nazioni Unite.
Note
[6] Interessante al riguardo è l’analisi sull’azione della Corte in Uganda proposta da K. Peschke, The ICC Investigation into the Conflict in Northern Uganda: Beyond the Dichotomy of Peace versus Justice, in B.S. Brown (a cura di), Research Handbook on International Criminal Law, Cheltenham, Elgar, 2011, pp. 178-205 e da J.N. Clark, Peace, Justice and the International Criminal Court, in «Journal of International Criminal Justice», 2011, pp. 521-545. Sulla effettiva capacità della Corte di incidere sul ristabilimento della pace nella Repubblica democratica del Congo, si veda invece O. Kambala, Entre négligence et complaisance: les risques de dérapage de la Cour pénale internationale en RDC, Kinshasa, Le Phare, 28 ottobre 2004, disponibile su http://fr.allafrica.com/stories/200410290050.html. Sul più generale impatto della Corte penale internazionale nei processi di giustizia transizionale, si veda il contributo di C. Stahn, The Geometry of Transitional Justice, in «Leiden Journal of International Law», 2005, pp. 425-466.
[7] La richiesta di sospendere l’azione giurisdizionale, peraltro, non implica necessariamente che il Consiglio si stia materialmente e attivamente occupando di quella determinata situazione. Per questo motivo, parla di una possibile e pericolosa «paralisi», data dalla congiunta inazione delle Nazioni Unite e della Corte, N. Elaraby, The Role of the Security Council and the Independence of the International Criminal Court: Some Reflections, in M. Politi e G. Nesi (a cura di), The International Criminal Court: A Challenge to Impunity, Aldershot, Routledge, 2001, p. 46.
[8] Per un’analisi delle molteplici forme di interazione, e di conflitto, tra le due organizzazioni, sia consentito rimandare a A. Bufalini, I rapporti tra la Corte penale internazionale e il Consiglio di sicurezza, Napoli, Editoriale Scientifica, 2018.
[9] Si possono qui riportare alcune tesi dirette a riconoscere all’art. 103 l’effetto di attribuire ai fini della Carta delle Nazioni Unite, ed in particolare, al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, la natura di «international public order to which other treaty regimes and the international organizations giving effect to them must conform», cfr. D. Shelton, International Law and «Relative Normativity», in M. Evans (a cura di), International Law, Oxford, Oxford University Press, 2006, p. 178. Per una critica alle concezioni, per così dire, eccessivamente «estensive» della natura «costituzionale» della Carta, si può vedere G. Arangio-Ruiz, On the Security Council’s «law-making», in «Rivista di diritto internazionale», 2000, p. 683.
[10] Cfr., tra le altre, la posizione piuttosto esplicita di Singapore, UN doc. S/PV.4568, p. 23, ove si afferma chiaramente che un siffatto esercizio del potere di deferral sarebbe «within the Security Council’s authority».
[11] Tra i tanti, si veda in questo senso anche N. Jain, A Separate Law for Peacekeepers: The Clash between the Security Council and the International Criminal Court, in «European Journal of International Law», 2005, p. 247.
[12] Ibidem.
[13] R. Wedgwood, The International Criminal Court: An American View, in «European Journal of International Law», 1999, p. 98.
[15] Report to the Secretary-General of the Commission of Experts to Review the Prosecution of Serious Violations of Human Rights in Timor-Leste (then East Timor) in 1999, S/2005/458, 26 maggio 2005, par. 455.
[16] A dire il vero, non sono in molti ad aver sostenuto una tale tesi, ma si veda J. Pichon, Internationaler Strafgerichtshof und Sicherheitsrat der Vereinten Nationen, Heidelberg, Springer, 2011, p. 350.
[17] Ibidem. Alcune ricostruzioni tendono ad attribuire un ruolo all’accordo di relazione, e al riconoscimento delle responsabilità delle Nazioni Unite, al fine di confermare la prevalenza dell’azione del Consiglio su quella della Corte. In particolare, secondo queste tesi, l’accordo di relazione del 2004 «does not validate any aspect of the ICC work that would purport to override the established mechanisms of maintenance of international peace and security centered on the leading role of the UNSC in situations endangering peace and security», cfr. J. Doria, Conflicting Interpretation of the ICC Statute - Are the Rules of Interpretation of the Vienna Convention Still Relevant?, in M. Fitzmaurice, O. Elias e P. Merkouris (a cura di), Treaty Interpretation and the Vienna Convention on the Law of Treaties: 30 Years on, Leiden-Boston, Martinus Nijhoff, 2010, p. 310.
[18] Negotiated Relationship Agreement between the International Criminal Court and the United Nations, 22 luglio 2004, ICC-ASP/3/Res.1.
[19] R. Kolb, L’article 103 de la Charte des Nations Unies, in «Recueil des Cours de l’Académie de Droit International», 2014, p. 242.
[20] Ibidem.