Edoardo Chiti, Alberto di Martino, Gianluigi Palombella (a cura di)
L'era dell'interlegalità
DOI: 10.1401/9788815370334/c7
Di fronte a tale risposta era (quasi) scontato che la Cassazione tornasse a bussare alle porte della Consulta, questa volta anche in forza della possibile violazione dell’art. 117, c. 1 Costituzione. Ed è qui che la Corte costituzionale mostra i netti contorni dello speciale contro-costituzionalismo à l’italienne, sottoponendo ad un severo bilanciamento le possibili obiezioni legate all’adozione di una disciplina retroattiva con i principi (supremi) di solidarietà ed eguaglianza: vista da questa prospettiva, la legge 206/2006 risulta (ancora una volta) immune da vizi di costituzionalità. Possiamo dire che il bilanciamento in realtà non equivale ad opporre un controlimite? La questione, in realtà, è più complessa, poiché la decisione di non dar seguito alla giurisprudenza Maggio – o, meglio, di non dichiarare l’incostituzionalità della norma per violazione dell’art. 117, c. 1 Costituzione, nei limiti della contrarietà all’art. 6 CEDU – non risulta tanto legata all’incompatibilità con una o più disposizioni costituzionali, quanto piuttosto con «principi, diritti e beni di rilievo costituzionale» o «preminenti interessi generali» o «interessi antagonisti di rango costituzionale» [49]
: dun
{p. 177}que, «un diverso controlimite, o meglio, una sua diversa ampiezza» [50]
.
Guardiamo da vicino il ragionamento della Corte italiana in questo caso.
Se è la stella polare della massima espansione delle garanzie a guidare il giudice costituzionale nel valutare fattispecie che vedono coinvolte il contemporaneo operare di più legalità, tale criterio deve trovare applicazione, secondo il giudice delle leggi, anche nel compiere quel «necessario bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, cioè con altre norme costituzionali, che a loro volta garantiscano diritti fondamentali che potrebbero essere incisi dall’espansione di una singola tutela». La questione si fa ancora più specifica – o più sfumata – nel momento in cui il giudice delle leggi dettaglia le ragioni del suo intervento:
Il richiamo al «margine di apprezzamento» nazionale − elaborato dalla stessa Corte di Strasburgo, e rilevante come temperamento alla rigidità dei principi formulati in sede europea − deve essere sempre presente nelle valutazioni di questa Corte, cui non sfugge che la tutela dei diritti fondamentali deve essere sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro [51]
.
In altri termini: appoggiandosi sulla diversa natura delle due corti e dei due giudizi [52]
(come sottolinea la Corte, «forse {p. 178}fin troppo ripetutamente» [53]
) il margine di apprezzamento riletto dal giudice delle leggi [54]
consegue il peculiare risultato {p. 179}che le due Corti – pur affrontando la medesima fattispecie e usando (in apparenza) gli stessi strumenti interpretativi – giungono però a conclusioni opposte. E, in effetti, si può anche arrivare a concludere, come è stato fatto, che in questo caso
 
il canone dei controlimiti – lungi dall’essere una mera clausola di riserva – ha effettivamente operato in un’ipotesi di ordinaria coesistenza di un diritto fondamentale garantito dalla Cedu (art. 6), secondo l’interpretazione della Corte di Strasburgo, con il rispetto del precetto espresso dall’art. 117, c. 1, Costituzione, applicato secondo il «margine di apprezzamento» della Corte costituzionale [55]
.
Paradossalmente, in forza di un bilanciamento interno con principi supremi e di un asserito proprio margine di apprezzamento, si arriva a dire che la norma in esame non è in contrasto con l’art. 117 della Costituzione, e dunque anche con l’art. 6 CEDU riletto alla luce di quest’ultima disposizione e dei principi costituzionali ad essi collegati – con buona pace della sentenza Maggio. Anche in questa vicenda pare, quindi, potersi ripetere quanto già affermato rispetto ai precedenti casi britannico e russo: di fronte a un contrasto apparentemente insanabile, un criterio interpretativo nato per regolare un certo tipo di problematiche secondo una certa logica di sistema – quale è il margine di apprezzamento così come utilizzato nella giurisprudenza convenzionale – viene riletto e riadattato secondo logiche interne. Tradotto nella classica grammatica del dialogo fra Corti si potrebbe anche dire che «è chiaro che la nostra Corte si riserva pur {p. 180}sempre, dal proprio punto di vista (vale a dire, dal punto di vista dell’ordinamento di appartenenza), di poter dire la parola definitiva al riguardo» [56]
.
Ritornando al merito della vicenda, pare importante segnalare, però, quale sia «l’autentica ratio della sentenza» [57]
, al di là delle contingenze del caso: la differenza strutturale fra legalità convenzionale e legalità costituzionale, fra diritti umani e diritti fondamentali, e fra le due Corti e i corrispettivi giudizi. In questa diversità si radica il doveroso utilizzo del margine di apprezzamento da parte della Corte costituzionale, e in forza di questa stessa ragione si può arrivare a dire che «data la differenza dei punti di vista normativi, non è configurabile un contrasto di giudicati (…). Proprio questa diversità di livello nella tutela dei diritti, l’uno afferente ai diritti fondamentali l’altro relativo ai diritti umani, restituisce il senso profondo dell’espressione (…) di “tutela multi-livello dei diritti”» [58]
. Più in generale, la questione risulta particolarmente significativa perché mette in luce la natura ultima dei possibili fenomeni di resistenza delle Corti costituzionali {p. 181}e supreme rispetto alla Convenzione europea, e con essa anche l’emergere di quei tratti di contro-costituzionalismo presi in esame nel corso di questo lavoro: in gioco non vi è una semplice discordanza di norme, bensì una «diversità (di spessore) del contenuto protetto (diritti umani e fondamentali), diversità che deriva proprio dalla natura convenzionale e nazionale di quelle norme e delle corrispondenti corti» [59]
. In questa osservazione si radica anche la descrizione di questi fenomeni di resistenza come espressione di un «contro-costituzionalismo», quasi ad opporsi ad una emergente dinamica costituzionale a livello internazionale.
Possiamo quindi ritenere chiusa la vicenda?
No, perché le istanze dei lavoratori migranti rimanevano ovviamente insoddisfatte, motivo per cui altri nove ricorrenti hanno cercato ancora «un giudice a Strasburgo». Sebbene chiaramente la questione fosse del tutto omogenea a quella già decisa, questa volta però la riduzione delle pensioni con il metodo di calcolo introdotto dalla l. 296/2006 comportava una diminuzione di 2/3 del valore che avrebbe avuto senza il ricalcolo – con la conseguente determinazione di un credito pensionistico inferiore alla media italiana – e con un periodo di contribuzione lungo la loro «intera vita attiva in Svizzera».
La risposta non si è fatta attendere (sentenza Stefanetti del 2014): una severa condanna dello Stato italiano non solo per un ancora più netto riconoscimento della violazione dell’art. 6 CEDU [60]
, ma anche per la violazione del Proto
{p. 182}collo n. 1 in riferimento all’entità del danno in concreto [61]
. La non comprensione della posizione della Consulta nella sentenza n. 264/2012 emerge con chiarezza laddove il giudice di Strasburgo osserva che «malgrado la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, non esistevano impellenti motivi di interesse generale che giustificassero l’applicazione retroattiva della legge 296/2006, che non era una interpretazione autentica dell’originaria legge ed era pertanto imprevedibile» [62]
. A buon intenditor poche parole.
Note
[49] Sentenza della Corte costituzionale del 28 novembre 2012, n. 264/2012 (cui ha fatto seguito l’ord. del 23 gennaio 2014, n. 10), passim.
[50] G. Strozzi, La tutela (s)bilanciata dei diritti dell’uomo, in «Il Diritto dell’Unione Europea», 2014, p. 190; così anche G. Amoroso, Nota a sentenza 264/2012, in «Foro Italiano», 2013, p. 31, osserva che nel momento in cui il parametro interposto non si sottrae esso stesso al bilanciamento della Corte costituzionale con i parametri costituzionali interni, si può parlare «in un significato più ampio di “controlimite” alle norme della CEDU come parametro interposto».
[51] Sentenza Corte costituzionale n. 264/2012, secondo cui anche – come da giurisprudenza costante – «il rispetto degli obblighi internazionali non può mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quelle già predisposte dall’ordinamento interno, ma può e deve, viceversa, costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa» (p.to 4.1).
[52] Tale per cui la Corte costituzionale italiana offre una tutela sistemica e generale dei diritti coinvolti laddove la Corte di Strasburgo si fonda su una forma di garanzia degli stessi parcellizzata e concreta: cfr. esemplarmente ibidem, p.to 5.4: «Né è priva di rilievo la circostanza che la sentenza della Corte EDU, che è tenuta a tutelare in modo parcellizzato, con riferimento a singoli diritti, i diversi valori in giuoco, da un lato, ritenga sussistente, nella specie, la violazione del diritto dei ricorrenti ad un equo processo, solo per questo riconoscendo loro un indennizzo, e, dall’altro, escluda la violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1, pur denunciata dai ricorrenti sotto il profilo dell’ingerenza nel pacifico godimento dei loro beni attraverso la riduzione della pensione (…). A differenza della Corte EDU, questa Corte, come dianzi precisato, opera una valutazione sistemica, e non isolata, dei valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata, ed è, quindi, tenuta a quel bilanciamento, solo ad essa spettante, che, nella specie, dà appunto luogo alla soluzione indicata». Così già la sentenza n. 236/2011 «ancorché tenda ad assumere un valore generale e di principio, la sentenza pronunciata dalla Corte di Strasburgo (…) resta pur sempre legata alla concretezza della situazione che l’ha originata: la circostanza che il giudizio della Corte europea abbia ad oggetto un caso concreto e, soprattutto, la peculiarità della singola vicenda su cui è intervenuta la pronuncia devono, infatti, essere adeguatamente valutate e prese in considerazione da questa Corte, nel momento in cui è chiamata a trasporre il principio affermato dalla Corte di Strasburgo nel diritto interno e a esaminare la legittimità costituzionale di una norma per presunta violazione di quello stesso principio». In seguito, si sono usate espressioni ancora più precise: così nella sentenza n. 85 del 2013 si afferma che «tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile, pertanto, individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro” (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona».
[53] R. Romboli, Nota a sentenza 264/2012, in «Foro Italiano», 2013, p. 28.
[54] Si può, peraltro, ricordare che la Consulta aveva già espresso tale principio in forza della necessità di rispettare la «sostanza della giurisprudenza convenzionale» (sentenza n. 311/2009); cfr. esemplarmente sentenza n. 236/2011: «a questa Corte compete […] apprezzare la giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente, in modo da rispettare la sostanza, ma con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi» (cfr. anche 303/2001 e 311//2009).
[55] Amoroso, Nota a sentenza 264/2012, cit., p. 32, il quale conclude che è proprio nella verifica della violazione dell’art. 117, c. 1, che la Corte costituzionale, operando il necessario bilanciamento con gli altri interessi costituzionali coinvolti, può valutare che «sul versante interno la violazione del parametro interposto, costituito dalla norma della CEDU così come interpretata dalla corte di Strasburgo non ridondi in violazione dell’art. 117, c. 1» (ibidem). Similmente G. Scaccia, «Rottamare» la teoria dei controlimiti, in «Quaderni Costituzionali», 2013, p. 145: «La Corte costituzionale ha dunque per la prima volta fatto valere il limite costituzionale contro il diritto CEDU».
[56] A. Ruggeri, La Consulta rimette abilmente a punto la strategia dei suoi rapporti con la Corte EDU e, indossando la maschera della consonanza, cela il volto di un sostanziale, perdurante dissenso nei riguardi della giurisprudenza convenzionale, in «Diritti Comparati», 14 dicembre 2014, online.
[57] E. Scoditti, Se un diritto umano diventa un diritto fondamentale: la Cedu come parametro interposto di costituzionalità, in «Foro Italiano», 2013, p. 788. Si veda anche F. Bilancia, Leggi retroattive ed interferenza dei processi in corso: la difficile sintesi di un confronto dialogico tra Corte costituzionale e Corte europea fondato sulla complessità del sistema dei reciproci rapporti, in «Giurisprudenza Costituzionale», 2012, p. 4236, nel momento in cui descrive il dialogo fra Corti che «collocate su piani distinti e non omogenei, illuminano volta a volta oggetti differenti che, seppur in parte sovrapposti, non devono indurre a confondere il linguaggio e gli effetti delle rispettive decisioni né confrontarle fra loro nell’ottica di una mera sovrapposizione tematica delle fattispecie oggetto dei relativi giudizi». Più ampiamente sul tema della differente nozione di diritti umani e diritti fondamentali cfr. G. Palombella, From Human Rights to Fundamental Rights. Consequences of a conceptual distinction, in Archiv für Rechts und Sozialphilosophie, 2007, disponibile online in Working Paper, EUI Law, 2006/34.
[58] Scoditti, Se un diritto umano diventa un diritto fondamentale, cit., p. 790.
[59] G. Palombella, La politica come limite al diritto? Contrasti normativi oltre lo Stato, Napoli, ESI, 2018, p. 14: secondo l’autore, è in tale prospettiva che va letta la «più o meno giustificabile “resistenza” statale», la quale va a toccare «interrogativi tutt’altro che secondari, che riguardano la cornice stessa di un diritto pubblico sovrastatale, una cornice che dovrebbe rimpiazzare le precedenti logiche basate su autorità, competenza ed esclusività dello Stato».
[60] Sentenza della Corte EDU, Stefanetti e a. contro Italia, 15 aprile 2014, par. 42 e 43, laddove non solo si condanna un inammissibile ritardo dello Stato italiano nel regolare la questione dei lavoratori migranti svizzeri, a seguito dell’intervenuta riforma del 1982 («fu lo Stato stesso a creare una disparità che esso provò a correggere solo ventiquattro anni dopo [e trentotto anni dopo la promulgazione delle disposizioni di legge originarie])», ma anche una diversa e costante interpretazione maggioritaria ad opera dei giudici in favore dei soggetti lesi dal ricalcolo della pensione operato dall’INPS, tale per cui «nel caso di specie l’ingerenza legislativa (che faceva pendere la bilancia a favore di una delle parti) non era prevedibile». Per queste ragioni «La Corte ritiene (…) che non si possa affermare che l’intervento legislativo mirasse a ripristinare l’intenzione originaria del legislatore del 1962. (…) Invero, anche ammettendo che lo Stato stesse tentando di perequare una situazione che originariamente non aveva inteso creare, avrebbe potuto farlo tranquillamente senza ricorrere all’applicazione retroattiva della legge. Inoltre, anche il fatto che lo Stato abbia aspettato ventiquattro anni prima di effettuare una simile perequazione, nonostante il fatto che numerosi pensionati che avevano lavorato in Svizzera stessero ripetutamente vincendo in giudizio dinanzi ai tribunali nazionali, crea dei dubbi riguardo al fatto che quella fosse realmente l’intenzione del legislatore nel 1982».
[61] In proposito si veda l’analisi dettagliata della Corte sul merito del ridimensionamento delle pensioni subito dai ricorrenti da par. 60 a 65, per poi concludere che «dopo aver versato contributi per tutta la vita, perdendo il 67% delle loro pensioni i ricorrenti non hanno subito delle riduzioni proporzionate ma sono stati di fatto costretti a sopportare un onere eccessivo. Perciò, nonostante le ragioni che erano alla base delle misure contestate, nelle presenti cause la Corte non può concludere che sia stato trovato un giusto equilibrio» (par. 66).
[62] Ibidem, par. 65 (corsivo nostro); per una ricostruzione dettagliata del caso e dei suoi precedenti si veda anche C. Masciotta, Leggi interpre- tative e rigidità degli strumenti decisionali della Corte costituzionale: quali prospettive nella vicenda delle «pensioni svizzere»?, in «Osservatorio sulle fonti», 2017, in particolare pp. 15 ss. A questa sentenza è poi seguita la sentenza Stefanetti bis volta a quantificare il danno materiale subito dai singoli ricorrenti: cfr. sentenza della Corte EDU, Stefanetti et autres c. Italie (Satisfation équitable) (Première section, 1° giugno 2017).