Edoardo Chiti, Alberto di Martino, Gianluigi Palombella (a cura di)
L'era dell'interlegalità
DOI: 10.1401/9788815370334/c4
La prima presa di posizione può ricondursi al superamento del paradigma individualistico di matrice giusnaturalistica. Rispetto al precedente delle carte dei diritti sei-settecentesche, infatti, le costituzioni democratiche del Novecento, lungi dall’essere scritte nell’iperuranio delle verità di ragione, rappresentano al contrario il tentativo più autentico di rispecchiamento giuridico della complessità sociale, di lettura e «invenzione» (nel senso etimologico del termine) dell’insieme dei valori su cui poggia una comunità politica [21]
. Destinatario dei diritti e dei doveri costituzionali non è più l’individuo astratto del giusnaturalismo moderno, bensì la «persona»: un soggetto storicamente situato, còlto tanto nella sua inviolabile individualità, quanto nella sua ontologica proiezione relazionale e sociale. Insomma, nel corso del Novecento la società reale entra nella costituzione, portandosi dietro tutto il suo carico di valori, ma anche di contraddizioni e conflittualità.
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In secondo luogo, la vocazione pluralista dello Stato costituzionale può legarsi al fatto che a differenza dei codici civili ottocenteschi (le vere «costituzioni» della civiltà liberale) che si sviluppano coerenti attorno ad un unico centro – per dirla con Pisanelli «l’idea fondamentale del codice è quella della proprietà, e tutte le sue disposizioni si aggirano intorno a’ beni» [22]
–, le costituzioni del Novecento si strutturano attorno alla programmatica e costante interazione di due campi di forza, che agiscono – come bene è stato scritto – alla stregua dei due fuochi di un’ellisse: la dimensione della suprema garanzia dei diritti e la dimensione dell’indirizzo politico [23]
. Questo cosa significa? Significa che la tipicità delle costituzioni del Novecento, il loro carattere differenziale, non si esaurisce nella individuazione di un nucleo duro di principi e valori fondamentali come tali sottratti all’arbitrio dei decisori politici (nonché allo stesso processo di revisione costituzionale), ma risiede nel fatto che oltre a far propria l’esigenza del limite e della garanzia esse incorporino «un dover essere collettivo» [24]
, assommino cioè l’idea che governare il conflitto richieda l’indicazione di una rotta, di un telos, la definizione un progetto di convivenza attorno al quale chiamare a raccolta tutti i consociati, superando il potenziale conflitto dei rispettivi punti di vista.
Il proprium del costituzionalismo novecentesco sta dunque tutto qui: nella scommessa di riuscire a combinare due tradizioni costituzionali storicamente antitetiche – quella di matrice anglo-americana e quella di matrice francese – la{p. 102}sciando alle forze politiche organizzate ed al concreto attuarsi della costituzione nel tempo il compito di fissare di volta in volta il punto di equilibrio più adeguato. Ciò muta radicalmente il ruolo del giudice e la funzione dell’interpretazione. La legge statale perde la sua ideale esclusività e completezza. L’ambiente nel quale l’interprete è chiamato ad operare non è più fatto di disposizioni normative che occorre limitarsi ad applicare ai casi concreti, ma di norme che vanno lette «alla luce» della costituzione, di principi giuridici «senza fattispecie» [25]
che chiedono di essere costantemente soppesati e bilanciati in un processo interpretativo «aperto» che non può mai ritenersi concluso una volta per tutte.
Alla prova della democrazia pluralista, il costituzionalismo del XX secolo propone dunque una strada alternativa tanto rispetto al monismo di ritorno à la Romano, quanto rispetto alla resa nichilista al «politeismo» dei valori, alla razionalizzazione disincantata dell’impossibilità di imprimere un qualsivoglia criterio ordinante alla moltiplicazione pulviscolare degli interessi che segmentano le società contemporanee. Si può dunque evitare il vizio «prospettivistico» del pluralismo romaniano senza per questo intonare un peana alla irriducibile complessità del mondo. E ciò è possibile in forza dell’idea, fatta propria appunto dalle costituzioni democratiche del Novecento, che la pluralità sia un elemento costitutivo dell’ordine, un ordine che si ridefinisce quotidianamente – potremmo dire – all’interno di un campo di tensione tra due fuochi (diritti fondamentali della persona e indirizzo politico) che possono pure brillare di luce diversa, purché rimangano sempre accesi.
Ora, è proprio l’estrema difficoltà a trasferire il modello di integrazione giuridica costituzionale democratico (e il suo corrispondente corredo concettuale) sul piano sovranazionale a porre una delle premesse teoriche di una nuova forma di pluralismo, che in aperta contrapposizione alle precedenti non è scorretto definire «radicale». Stiamo parlando di alcuni indirizzi interni alle variopinte famiglie del cd. new legal pluralism{p. 103} e del constitutional pluralism [26]
. Sollecitato dalle imponenti trasformazioni che hanno investito lo spazio giuridico ultra-nazionale, questo nuovo filone di studi è accomunato dal tentativo di offrire una concettualizzazione della governance globale ed europea finalmente affrancata dai modelli esplicativi tradizionali (monista e dualista), ritenuti ormai strumenti incapaci di descrivere in modo credibile la meccanica di un mondo ben più complesso di quello immaginato.
Invero il campo del diritto internazionale era già stato a lungo terreno d’elezione di modelli pluralistici. Nella misura in cui tra monismo e pluralismo tertium non datur, per Kelsen, ad esempio, andavano ascritti al partito pluralista tutti i sostenitori della «dualistica» separazione tra diritto statale e internazionale [27]
, i quali, proprio in quanto monisti in casa (in nome del principio di sovranità dello Stato), si scoprivano per ciò stesso pluralisti in trasferta. Le nuove correnti pluraliste non accolgono però la stringente dicotomia kelseniana. Per un verso, infatti, esse hanno ormai elaborato il lutto per l’eclissi della sovranità statale [28]
, per altro {p. 104}verso sfuggono anche alla tentazione di pensare l’insieme dei regimi regolatori globali come altrettante articolazioni di un medesimo ordinamento giuridico universale. Da qui l’enfasi sul carattere frammentato e anarchico del diritto internazionale; da qui l’accento sulla perdita del confine [29]
, sulla nuova (vecchia) tendenza dello spazio giuridico a ridefinirsi su base funzionale anziché territoriale, sui meccanismi «autopoietici» delle legal spheres globali, sulla vocazione «tirannica» di ogni regime settoriale ad imporre la propria razionalità (il proprio interesse unilaterale) ai sistemi normativi concorrenti, in una sorta di competizione planetaria tra prospettive tanto differenziate quanto autoreferenziali.
Certo, quello del conflitto non è indubbiamente un tema inedito al dibattito teorico pluralista. La novità, semmai, sta nella teorizzazione dell’impossibilità per il diritto di porvi rimedio. Il conflitto al massimo si può prevenire, ma non curare, perlomeno con le armi del diritto. Questo significa adottare un approccio radicale al pluralismo. Nei termini di MacCormick, «l’accettazione di una concezione dei sistemi giuridici che sia radicalmente pluralista implica il riconoscimento del fatto che non tutti i problemi giuridici possono essere risolti in base al diritto» [30]
. Dal postulato {p. 105}dell’equivalenza di ogni prospettiva sistemica, il constitutional pluralism finisce così per arrendersi all’idea dell’impotenza del diritto a fronteggiare con i propri strumenti il problema della pluralità.
Ebbene, è esattamente a questa conseguenza «radicale» che – se ho ben inteso – la nozione di interlegalità intende offrire un’alternativa teorica. Pluralità e concorrenza sono caratteri ineliminabili dello scenario giuridico sovra-nazionale, ma è ugualmente possibile immaginare una composizione giuridica e non soltanto politica del conflitto [31]
. Questo però a condizione – come si notava all’inizio – di spostare l’accento sulle connessioni inter-sistemiche della regolazione globale, ontologizzando in un certo senso la dinamica dell’interconnessione normativa, comprendendola quale fenomeno meritevole di per sé di una autonoma e specifica risposta ermeneutica.
Nel momento in cui scarta gli esiti più radicali del pluralismo giuridico contemporaneo, la proposta dell’interlegalità sembra ricongiungersi per certi versi alla tradizione pluralista «moderata» del XX secolo, della quale accoglie l’urgenza di offrire una mediazione giuridica della pluralità. Al tempo stesso, tuttavia, se ne discosta in almeno due punti decisivi, laddove cioè essa intende fare programmaticamente a meno dei due principali (tradizionali) criteri di civilizzazione del conflitto normativo: la logica del sistema da una parte, l’ideale costituzionalistico dall’altra.
Sotto il primo profilo significa rigettare, assieme al mito positivistico della completezza e autosostenibilità del sistema, ogni soluzione al problema della pluralità che imbocchi la scorciatoia prospettivistica. Se proprio di prospettiva si vuol parlare, l’interlegalità sembra semmai richiedere l’assunzione di una prospettiva «solare» sul diritto (terrestre). Unendoci
{p. 106}con Ost al saccheggio del patrimonio mitologico greco, potremmo parlare di un passaggio da un modello «Mercurio» ad un modello «Apollo» [32]
, per indicare come l’esigenza di (dare) giustizia pretenda ormai da parte del giurista/giudice la conquista di una visuale «satellitare» sul mondo giuridico, la capacità di astrarsi dal terreno delle differenti scansioni giurisdizionali/ordinamentali per dominare dall’alto l’intera gamma delle interconnessioni normative che insistono sul singolo caso giuridico [33]
, offrendo di volta in volta, in chiave universalistica (le giurisdizioni sono tante, ma la giustizia è una), una soluzione non necessariamente riconducibile ad alcuna delle legalità in gioco, ma comunque ricavata dalla interazione e dal bilanciamento di ognuna di esse.
Note
[21] Per una forte sottolineatura di questo aspetto, cfr. P. Grossi, L’invenzione del diritto, Roma-Bari, Laterza, 2017; Id., Una Costituzione da vivere. Breviario di valori per italiani di ogni età, Bologna, Marietti, 2018 e Id., Costituzionalismi tra «moderno» e «post-moderno». Tre lezioni suor-orsoliane, Napoli, Editoriale scientifica, 2019.
[22] Cfr. da ultimo per il passo citato, G. Cazzetta, Codice civile e identità giuridica nazionale. Percorsi e appunti per una storia delle costituzioni moderne, Torino, Giappichelli, 2018, pp. 34-35.
[23] Per la suggestiva immagine dell’ellisse, nonché per una compiuta storicizzazione del costituzionalismo del Novecento, cfr. i saggi contenuti in M. Fioravanti, La Costituzione democratica. Modelli e itinerari del diritto pubblico nel ventesimo secolo, Milano, Giuffrè, 2018. Dello stesso autore cfr. anche Costituzione italiana: articolo 2, Roma, Carocci, 2017 e, da ultimo, Il cerchio e l’ellisse. I fondamenti dello Stato costituzionale, Roma-Bari, Laterza, 2020.
[24] Cfr. M. Fioravanti, La Costituzione democratica come autonomo «tipo» storico, in Id., La Costituzione democratica, cit., p. 183.
[25] Cfr. G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, Einaudi,1992, pp. 147 ss.
[26] Al primo gruppo possiamo ascrivere, ad esempio, G. Teubner, Il diritto come sistema autopoietico, Milano, Giuffrè, 1996 e M. Koskenniemi, The Fate of Public International Law: between Technique and Politics, in «The Modern Law Review», 2007, pp. 1-30. Al secondo, N. Walker, The Idea of Constitutional Pluralism, in «The Modern Law Review», 2002, pp. 317 ss.; N. MacCormick, La sovranità in discussione. Diritto, Stato e nazione nel Commonwealth europeo, Bologna, Il Mulino, 2003. Per una riflessione d’insieme su questi itinerari teorici, cfr. G. Itzcovich, Teorie e ideologie del diritto comunitario, Torino, Giappichelli, 2006; K. Günther, Pluralismo giuridico e codice universale della legalità, Torino, Trauben, 2010 e da ultimo, F. De Vanna, Dalla pluralità delle fonti al rapporto tra ordinamenti. Itinerari «imprevisti» del pluralismo giuridico, Reggio Emilia, Mucchi, 2019.
[27] Cfr. H. Kelsen, General Theory of Law and State, Massachussets, Harvard University Press, 1945; trad. it. Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano, Edizioni di Comunità, 1954, parte II, cap. IV.
[28] Un funerale ampiamente celebrato nella letteratura recente in una singolare panoplia di espressioni metaforiche: dal «declino» alla «eclissi», dal «crepuscolo» al «tramonto», dalla «fine» alla «morte». Cfr. rispettivamente W. Brown, Stati murati, sovranità in declino, Roma-Bari, Laterza, 2013; C. Bonvecchio, L’eclissi della sovranità, Milano-Udine, Mimesis, 2010; A. Bolaffi, Il crepuscolo della sovranità, Roma, Donzelli, 2002; N. Irti, Tramonto della sovranità e diffusione del potere, in Id., Diritto senza verità, Roma-Bari, Laterza, 2011; A. De Benoist, La fine della sovranità. Come la dittatura del denaro toglie potere ai popoli, Cesena, Arianna, 2014; L. Basile, Morte della sovranità, Roma, Inschibboleth, 2016.
[29] Cfr. M.R. Ferrarese, Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale, Roma-Bari, Laterza, 2006.
[30] Cfr. N. MacCormick, La sovranità in discussione, cit., p. 238. Che succede, ad esempio, se la Corte di giustizia europea riconosce in capo ad un soggetto l’esistenza di un diritto o di un obbligo che la Corte costituzionale di uno Stato membro nega? In base alla dottrina del constitutional pluralism sul piano giuridico c’è ben poco da fare, se non constatare il fatto di essere in presenza di due risposte equivalenti, giuridicamente ineccepibili se ed in quanto riferite al criterio di razionalità dei rispettivi sistemi. Si potrebbe – è vero – cercare il più possibile di prevenire lo scontro. La Corte europea di giustizia, ad esempio, «non dovrebbe dare forma alle sue decisioni interpretative senza prestare riguardo al loro potenziale impatto sulle costituzioni nazionali», così come, simmetricamente, le corti nazionali «non dovrebbero interpretare leggi o norme costituzionali senza prestare riguardo alla scelta, espressa dai loro compatrioti, di aderire pienamente all’Unione e alla Comunità europea». Ma se il conflitto scoppia – conclude MacCormick – non vi è altra soluzione che quella di «attivare qualche iniziativa politica».
[31] Ciò che Palombella definisce come «prospettiva del diritto». Cfr. Palombella, Interlegalità, cit., p. 326.
[32] Cfr. F. Ost, Jupiter, Hercule, Hermès; Trois modèles du juge, in P. Bouretz (a cura di), La force du droit, Paris, Éditions Esprit, 1991, pp. 241 ss.
[33] Interessante in questa prospettiva la riflessione attorno alla possibilità di pensare ad un «diritto del caso» nella sua singolarità e non dunque come mera applicazione particolare di una norma generale, in T. Gazzolo, Il caso giuridico. Una ricostruzione giusfilosofica, Torino, Giappichelli, 2018.