Contrastare la dispersione scolastica
DOI: 10.1401/9788815413369/c8
È lo stesso impegno di un
artigiano, che non produce solamente per sé. Come un artigiano in bottega, l’educatore
redige un progetto in équipe, con una duplice proiezione: individuale e collettiva. È un
agire individuale quando richiede un’analisi delle sfumature, un impegno di
responsabilità contestuale, la minuziosa vicinanza dello scambio di informazioni ed
emozioni. Assume funzione collettiva, invece, quando si posiziona in dialogo verso
l’esterno; dunque, il prodotto del lavoro sarà per tutti, sarà di tutti, in una logica
di sostenibilità sociale
[7]
.
¶{p. 158}
La resistenza alla dispersione
scolastica ha bisogno di una visione locale dei problemi, di forme di organizzazione in
reti e partenariati che agiscano in situazione; necessita di professionisti attenti alla
metodologia e alle tecniche che aiutano a rimodellare i sistemi; ai dettagli del
quotidiano nel quale i ragazzi e le ragazze vivono e crescono.
4. La «buona» progettazione
Nonostante culturalmente al
concetto di «buono» si assegni una valenza positiva dovuta all’apprezzamento di una
qualità, di una capacità o di un valore riconosciuto e condiviso, quando ne discutiamo
in termini pedagogici e progettuali dobbiamo considerare «buono» anche ciò che agisce in
difformità, ciò che riesce a farsi spazio tra la consuetudine, la banalità. Il «buono»
di una progettazione educativa è anche qualcosa che non si fa, che non segue una linea
culturalmente orientata, che è capace di distruggere.
Una progettazione che possa essere
considerata di qualità deve avere come assunto principale quello di garantire
(contemporaneamente) la realizzabilità di ciò che si deve fare (ciò che è ritenuto
necessario e dovuto, e qui avremo modo di approfondire anche il tema del bisogno) e ciò
che non si deve fare (ciò che si dovrebbe evitare – o che ci dicono di evitare – ma che
è proprio importante, invece, fare, anche se ci potrebbe mettere in difficoltà).
Questa prospettiva accoglie due
istanze: quella tipica della pedagogia del rischio
[8]
e la visione dell’architetto Achille Castiglioni (1918-2002) che ai suoi
allievi ricordava sempre l’importanza di progettare partendo da quello che non
si deve fare. Solamente così si sferza la creatività, si superano i
limiti, si riesce a uscire dai bordi potendo osservare gli oggetti e la realtà da un
margine inconsueto.¶{p. 159}
Immaginate la potenza di «ciò che
non si può fare» nell’infanzia e il suo valore formativo: non si devono usare oggetti
pericolosi, non si deve salire sugli alberi, non si deve uscire da scuola se piove a
dirotto. Una progettazione educativa riesce a generare esperienza laddove riesca a fare
tutto questo. Certo, sempre in condizioni di tutela del minore e della sua salute. Ma
come sarà mai possibile crescere (in un pensiero progettuale adulto) senza la
concentrazione che ho quando uso qualcosa di potenzialmente pericoloso? Senza sforzare
il mio corpo nella ricerca di un punto di equilibrio precario? Senza bagnarmi e cercare
di bere le gocce di pioggia?
Lo stesso vale per pre-adolescenti
e adolescenti, troppo spesso stretti tra divieti e orientamenti forzati e disorientanti:
quella cosa non si fa! Quel percorso non fa per te!
Un secondo approccio per una
«buona» progettazione in ambito educativo, riprendendo quanto teorizzato in merito alla
produzione artistica e all’organizzazione di eventi culturali
[9]
è quello per cui i «progetti, oltre a essere interdisciplinari e
transdisciplinari devono essere anche indisciplinati»
[10]
. Uscire dalla disciplina vuol dire avere la forza e la capacità di uscire
dai margini, di conoscerla talmente bene al punto di considerarla come qualcosa di vivo,
di dinamico e mutevole.
Sono stati indisciplinati i primi
progetti educativi realizzati nelle case di detenzione
[11]
, i primi progetti di inserimento lavorativo di persone con disabilità
[12]
, le prime esperienze ¶{p. 160}progettuali di attività
educative svolte in collaborazione tra nidi d’infanzia e RSA (Residenze sanitarie
assistenziali).
Senza la capacità di superare il
consueto non sarebbe stato possibile generare esperienze significative e concedere alle
persone con difficoltà o fragilità di immaginare una vita migliore.
Ma sono moltissimi gli esempi che
potremmo fare.
Infine, anche se a un primo sentire
possa suonare dissonante, la progettazione è «buona» laddove riesca a distruggere e,
ogni qualvolta riesca, a concepire tra le sue attività anche la distruzione. Nel primo
caso dobbiamo concepire una progettazione in grado di liberare, dunque assumendo il
fatto che «un progetto è a livello inconscio anche distruggere. La progettazione di una
nuova articolazione del lavoro può in effetti significare eliminare prima a livello di
fantasia e poi nella realtà una preesistente organizzazione»
[13]
. Distruggo per prendere le distanze, per migliorare, per sviluppare e
potenziare, per istituire nuovi servizi e occasioni di crescita. Distruggo
metaforicamente il passato per costruire il presente.
E proprio nel secondo caso, invece,
distruggo per fare spazio.
Troppo spesso, nella vita delle
persone, nelle case, negli scantinati e anche nei servizi educativi (e in modo
particolare in quelli dedicati all’infanzia) gli oggetti prendono tutto lo spazio, sia
quello orizzontale (gli scaffali, i piani di appoggio, i tavoli) sia quello verticale
(le pareti). Come in un grande allestimento il potere della documentazione
[14]
e della narrazione rischiano di perdere il passo rispetto all’esibizione e
¶{p. 161}all’ostentamento. E sinché tutte le librerie saranno piene e
sinché tutte le pareti saranno occupate non ci sarà spazio per nuovi albi illustrati e
nuovi capolavori.
La progettazione aiuta a non pormi
dei confini, dei limiti, ad accettare di fare memoria con diversi strumenti e liberare
(per davvero) oltre al pensiero anche lo spazio.
Per poter ridefinire la dispersione
scolastica la progettazione educativa concede la possibilità di pensarsi altro, di
essere altro, pensare, pianificare e realizzare percorsi nei quali i ragazzi possano
imparare a sentirsi altro e oltre: altri rispetto alle rappresentazioni degli adulti e
oltre le possibilità che vengono concesse loro.
5. Progettazione educativa e progettazione didattica
Molti degli esempi fatti in
precedenza mettono in secondo piano la mera esperienza scolastica e dell’aula
[15]
nel tentativo di coniugare queste due dimensioni e renderla più intensa e
significativa. Come emerge in molti studi di settore, la progettazione didattica si è
evoluta e arricchita, cercando di adattarsi alle nuove visioni pedagogiche e ai
cambiamenti della società, facendo tesoro di esperienze e ricerche nazionali e
internazionali che hanno progressivamente scardinato un modello unico di pensiero e di
azione.
Se la progettazione didattica
[16]
, nel suo modello per obiettivi che ha fondamento nella tassonomia di Bloom
[17]
e nella sua rivisitazione di Krathwohl e Anderson
[18]
, sosteneva interventi didattici rigorosi e lineari (a discapito di una
scarsa ¶{p. 162}differenziazione), i successivi modelli hanno consentito
un progressivo avvicinamento agli studenti, ai loro mondi di riferimento e ai loro
linguaggi. Ne sono esempi rilevanti:
● la progettazione per mappe
concettuali e per concetti
[19]
, nella quale prevalgono le reti di conoscenze e la significatività dei
contesti, valorizzando in questo modo la partecipazione alla costruzione del sapere dei
ragazzi e delle ragazze;
● la progettazione per problemi e
per progetti, capace di valorizzare apprendimenti complessi e le interazioni in gruppo,
tratti distintivi individuali e gruppali tipici delle età a rischio di dispersione scolastica
[20]
;
● il metodo EAS e la
Flipped Classroom che, ottimizzando il potenziale cognitivo
dell’ambiente di apprendimento, decostruisce e ricostruisce i tempi e gli spazi
dell’esperienza scolastica
[21]
;
● sino ad arrivare, oggi, alle
esperienze di service learning
[22]
che aprono, non solo metaforicamente, le porte delle aule, delle scuole, per
reali progettualità con il territorio in tutte le sue componenti.
Scegliere questi modelli di
progettazione didattica, non in maniera esclusiva e assoluta ma situandoli,
differenziandoli e dando loro ragione di essere in funzione dei contesti, supporta
un’idea di insegnante attento ai sistemi di relazione con e tra gli studenti. Diventano
dunque una priorità l’apprendimento complesso di sé e degli altri, dei diversi stili
cognitivi, delle vite altrui che nei progetti, nelle esperienze, si manifestano.
Anche con questi diversi approcci,
come nelle precedenti esperienze educative, l’adulto può dimostrare di desiderare
diverse modalità di relazione, di cura e di attenzione ai
¶{p. 163}ragazzi e alle ragazze, strumenti e matrici etiche in grado di
fronteggiare la resa, così come la fuga.
Note
[7] R. Albarea e A. Burelli, Sostenibilità in educazione, Udine, Forum Edizioni, 2006; P. Malavasi, Pedagogia verde, Torino, La Scuola SEI, 2014.
[8] C. Volpi, I rischi dell’educazione. Nuove prospettive pedagogiche, Roma, Armando, 2003; P. Freire, Pedagogia dell’autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, Torino, EGAC, 2004; M. Catarci, La pedagogia emancipata di Paulo Freire. Educazione, intercultura e cambiamento sociale, Milano, Franco Angeli, 2016.
[9] Si veda, sul punto, R. Cerri, Eventi culturali e percorsi di formazione, Roma, Aracne, 2008.
[10] Cfr. L. Argano, A. Bollo, P. Dalla Sega e C. Vivalda, Gli eventi culturali. Ideazione, progettazione, marketing, comunicazione, Milano, Franco Angeli, 2005, p. 24.
[11] M. Di Roberto, S. Maddalena e M. Taraschi (a cura di), La pedagogia che «libera». Spunti per l’educazione in carcere, Lecce, Pensa Multimedia, 2013; R. Bezzi e F. Oggionni (a cura di), Educazione in carcere. Sguardi sulla complessità, Milano, Franco Angeli, 2021.
[12] C. Lepri, Viaggiatori inattesi. Appunti sull’integrazione sociale delle persone disabili, Milano, Franco Angeli, 2015; V. Friso, Disabilità, rappresentazioni sociali e inserimento lavorativo. Percorsi identitari, nuove progettualità, Milano, Guerini scientifica, 2017.
[13] Cfr. A. Orsenigo, Progettare: alcuni nodi critici, in F. D’Angella e A. Orsenigo, La progettazione sociale, Torino, Gruppo Abele, 2008, pp. 25-35.
[14] M. Guerra, Progettare esperienze e relazioni, Bergamo, Edizioni Junior, 2013; D.R. Krathwohl, A Revision of Bloom’s Taxonomy: An Overview, in «Theory Into Practice», 41, 4, 2002, pp. 212-218; B. Balconi, Documentare a scuola. Una pratica didattica e formativa, Roma, Carocci, 2020; B.S. Bloom, M.D. Engelhart, E.J. Furst, W.H. Hill e D.R. Krathwohl, Taxonomy of Educational Objectives: The Classification of Educational Goals. Handbook I: Cognitive Domain, New York, David McKay Company, 1956.
[15] Cfr. D. Parmigiani (a cura di), L’aula scolastica, vol. 2: Come imparano gli insegnanti, Milano, Franco Angeli, 2018.
[16] E. Nigris, B. Balconi e L. Zecca (a cura di), Dalla progettazione alla valutazione didattica. Progettare, documentare, monitorare, Torino, Pearson, 2019.
[17] B.S. Bloom, Taxonomy of Educational Objectives, Handbook: The Cognitive Domain, New York, David McKay, 1956.
[18] L.W. Anderson e D.R. Krathwohl, A Taxonomy for Learning, Teaching, and Assessing. A Revision on Bloom’s Taxonomy of Educational Objectives, New York, Longman, 2001.
[19] Cfr. E. Damiano, Il sapere dell’insegnante. Introduzione alla didattica per concetti con esercitazioni, Milano, Franco Angeli, 2011.
[20] A. Lotti, Problem-based Learning. Apprendere per problemi a scuola: guida al PBL per insegnanti, Milano, Franco Angeli, 2018.
[21] P.C. Rivoltella, Fare didattica con gli EAS. Episodi di apprendimento situato, Brescia, La Scuola SEI, 2013.
[22] I. Fiorin, Oltre l’aula. La proposta pedagogica del service learning, Milano, Mondadori Università, 2015; L. Mortari (a cura di), Service learning. Per un apprendimento responsabile, Milano, Franco Angeli, 2017.