Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c27
Sarebbe interessante conoscere su
larga scala quali sono le evoluzioni di testi di base, concetti, culture di riferimento
che sottendono questi percorsi formativi. Di sicuro, stando alla produzione accademica
italiana,
¶{p. 614}la ricerca e la letteratura si concentrano, in grande
maggioranza, sul profilo delle figure degli insegnanti di sostegno e sulla loro
formazione, mentre più ridotta è l’analisi sui profili delle professioni educative. Non
trascurabile è anche il continuo e diffuso riferirsi di molti percorsi formativi al
quadro normativo entro il quale gestire le situazioni di disabilità. Per quanto la
conoscenza di questo quadro sia necessaria, ogni cultura formativa dovrebbe prevedere
sguardi critici e analitici, oltre al fatto che non è la mera applicazione formale di
quel quadro a rappresentare il quid dell’esercizio di professioni
(assistenti sociali, coordinatori di servizi, educatori, insegnanti, pedagogisti). In
questo senso, i percorsi formativi presentano alcune criticità.
In via di principio sono più
attente ai temi della disabilità le formazioni di scienze dell’educazione e di scienze
della formazione primaria, che prevedono insegnamenti obbligatori a riguardo. Anche se
sono necessarie delle osservazioni specifiche. Alla possibilità di un educatore di
trovare impiego in servizi legati alla disabilità (complessa) corrisponde, sul piano
formativo, solo una «prima infarinatura» spesso non sufficiente ad affrontare più
propriamente quelle specifiche situazioni.
Significativo è, in linea di
principio e di impostazione generale, il fatto che la formazione degli insegnanti della
scuola primaria preveda insegnamenti obbligatori legati ai temi della disabilità. Una
prima conoscenza di alcuni temi e questioni può, in effetti, arginare gli effetti di
delega esclusiva degli alunni con disabilità all’insegnante di sostegno e può permettere
di costruire una didattica maggiormente inclusiva. Una cultura, ancorché minima, attorno
ad alcuni temi condivisa da tutti gli insegnanti e una pratica quotidiana legata alla
presenza di alunni con disabilità dovrebbe poter favorire maggiori competenze
nell’affrontare la presenza della disabilità a scuola. Non per caso, uno dei temi che
emerge nel mondo della scuola primaria è, in questo senso, la presenza di una forte
«vecchia guardia di insegnanti» (formatasi con il percorso di studi precedente alla
riforma del 1999), che non ha avuto nessun tipo di formazione legata alla disabilità, a
fianco di una più debole (e spesso precaria) presenza di insegnanti più giovani
formatisi avendo anche alcune nozioni in tema di disabilità.
Il vincolo di una specifica
formazione sulle questioni della disabilità è circoscritto a chi si forma per diventare
insegnante nella scuola dell’infanzia e primaria. Negli ordini successivi la conoscenza
di base minima, conseguita attraverso la formazione universitaria, è inesistente. Non si
entra nel merito delle competenze didattico-pedagogiche di un qualsiasi laureato che può
rivestire il ruolo di insegnante, sul fronte della disabilità è però evidente che in
mancanza di una cultura e di una co-responsabilità condivisa da parte dei docenti della
classe, la gestione e gli apprendimenti degli alunni con disabilità non possono che
essere demandati e relegati alla figura dell’insegnante di sostegno. È tuttavia questo
ruolo di delega ¶{p. 615}che, nei fatti, continua a riprodurre dinamiche
didattiche, culturali e sociali di separazione tra gli studenti con e senza disabilità.
In questo scenario, si perpetua una logica assistenzialistica in cui la scuola assolve
più una funzione sociale (gestione del caso tipica di un servizio) che non
formativo-educativa in senso stretto.
Particolarmente significativo è il
fatto che il percorso di studi per diventare assistente sociale non preveda percorsi
obbligatori e specifici in tema di disabilità. Non è raro, del resto, stando
all’esperienza di persone con disabilità complessa e dei familiari, incontrare
assistenti sociali che dichiarano di «non sapere nulla di disabilità». I familiari
svolgono così, di fronte all’assistente sociale, un ruolo attivo nel compilare moduli e
carte che permettono di accedere alle risorse messe a disposizione dai servizi.
L’eventuale competenza in materia è data dall’esperienza sul campo o da una conoscenza
di alcune normative. In questo modo, tuttavia, la figura professionale è sminuita: la
sua funzione di «migliorare le condizioni di vita» di individui, famiglie, gruppi si
riduce a un ruolo burocratico di incrocio tra alcuni bisogni standardizzati e specifica
offerta del sistema dei servizi. All’interno di un simile quadro professionale e
relazionale (riferito spesso tanto dai professionisti stessi quanto dalle famiglie) non
solo mancano requisiti comunicativi fondamentali, ma è molto difficile costruire
soluzioni di servizi personalizzati, articolati, complessi, centrati sulla biografia
delle persone e su percorsi di emancipazione e autodeterminazione o, in situazioni
particolarmente complesse, su una qualità di vita non semplicemente legata alla
meccanica soddisfazione dei bisogni primari.
Un discorso simile vale per i
pedagogisti che potrebbero trovarsi a lavorare in servizi e strutture legate alla
disabilità con ruoli differenti, tra cui quella di coordinare gli educatori
professionali. Anche in questo caso, la formazione sia sui temi della disabilità, sia
sul coordinamento organizzativo e formativo delle figure a stretto contatto con fruitori
dei servizi e familiari richiederebbe un grado di formazione più approfondito, mentre
spesso è lasciato come «opzione a scelta» degli studenti di scienze pedagogiche, nei
dipartimenti in cui sono presenti insegnamenti legati alla disabilità.
A questo panorama formativo,
sinteticamente presentato, si aggiungano alcuni dati statisticamente non rilevanti, ma
qualitativamente significativi, e secondo cui la disabilità, per molti professionisti, è
generalmente lontana dalla propria conoscenza diretta e dalla propria esperienza di vita
[13]
.¶{p. 616}
La conoscenza pregressa dei temi
della disabilità non è di certo un prerequisito del percorso di studi; così come è del
tutto legittimo che le persone che ne facciano esperienza diretta possano,
formativamente e professionalmente, occuparsi di altro. Resta però il fatto che la mera
cognizione dell’esistenza di alcuni documenti decisivi, come la Convenzione ONU sui
diritti delle persone con disabilità (2006), è, ancora oggi, molto lontana dal «senso
comune» di mestieri e luoghi professionali chiamati a occuparsi di disabilità
[14]
.
La formazione serve, naturalmente,
a colmare queste lacune, in un certo senso naturali e legittime. È tuttavia necessario
chiedersi come la formazione faccia fronte, non tanto su un senso comune «in ingresso»
deficitario in merito alla laboriosa articolazione legata ai temi della disabilità
(specie delle condizioni più complesse), ma come affronti formativamente quest’ultima
fornendo culture, strumenti concettuali e operativi utili per affrontare, sul piano
della conoscenza ancor prima che della pratica professionale, la disabilità seguendo una
logica interdisciplinare indirizzata verso i modelli sociali della disabilità, lo
sviluppo personale, l’emancipazione, l’autodeterminazione delle persone con disabilità.
La formazione è in questo senso
chiamata a infondere e costruire una nuova cultura. Si tratta di un obiettivo complesso
e ambizioso, per quanto necessario, poiché la formazione si confronta con un campo
accademico fortemente in ritardo nell’assumere nuove logiche e nuovi modelli sul piano
meramente formativo.
Tutt’al più che, come è noto,
l’esercizio delle professioni dipende, in gran parte dalla materialità del mercato del
lavoro, dalle logiche culturali, amministrative, gestionali ed economiche che governano
la fornitura e l’esercizio di servizi di diverso tipo da parte di enti pubblici,
privati, convenzionati, nonché dai contesti e dalle dinamiche del lavoro, dal tipo di
relazioni che si instaurano con le persone con disabilità. Sul piano di
¶{p. 617}ciò che resta della formazione, ormai si afferma da tempo nella
letteratura educativa che molte nozioni e concezioni sviluppate durante la formazione
vengono «lavate via» durante le esperienze sul campo [Zeichner e Tabachnik 1981]. È
necessario chiedersi quale sia la consapevolezza del sistema formativo rispetto a tali
dinamiche e come operi (sul piano della riflessione su di sé, sui temi e i sistemi di
insegnamento) per arginare, in qualche modo, il suo essere lavato via. In fatto di
disabilità si corre, inoltre, il rischio che lo iato tra teoria (formativa) e pratica
(professionale) favorisca il continuo riprodursi di dinamiche di stigma,
inferiorizzazione, istituzionalizzazione a cui sono generalmente soggette le persone con
disabilità e il cui impatto è direttamente proporzionale alle condizioni di complessità
delle menomazioni stesse.
3. C’è bisogno di esperti di disabilità?
Qualche tempo fa, una proposta di
legge delle federazioni del mondo associativo della disabilità ha suscitato un vivace
dibattito. La proposta di legge prevedeva uno specifico percorso di formazione per gli
insegnanti di sostegno, delineando fin dal corso di laurea una formazione specifica
distinta dagli altri percorsi formativi per diventare insegnanti della scuola primaria e dell’infanzia
[15]
. Il mondo accademico responsabile della formazione degli insegnanti si è in
gran parte opposto a tale proposta.
Questo doppio scenario (formazione iniziale e gestione dei posti) dovrebbe rispondere, nelle intenzioni dei proponenti, ad alcune problematiche relative al sostegno che in tanti, quasi all’unanimità, abbiamo da anni segnalato, in particolare la grande mobilità e discontinuità e la scarsa competenza professionale.Ritengo però – e con me molti altri colleghi, insegnanti di sostegno e dirigenti scolatici – che questa prospettiva separante sia sbagliata, fondamentalmente perché consolida e rende strutturale la divisione tra «insegnante normale» e «insegnante speciale», favorendo meccanismi di delega che purtroppo, spesso, già oggi, portano a microesclusioni dentro e fuori la classe [Ianes 2014, 144].
Entrambe le posizioni hanno logiche
di fondo interessanti, che coinvolgono il percorso formativo, le sue premesse e le sue
ricadute. Va però detto che, ad oggi, la formazione più approfondita e accurata presente
nello scenario formativo italiano è il corso di specializzazione post-laurea
¶{p. 618}per il sostegno agli alunni con disabilità, della durata di un anno
[16]
. Al di là dell’alto tasso di burocratizzazione e normatività della gestione
e dell’impostazione del corso (legati alle dinamiche di «accesso al posto»
precedentemente descritte), al di là del fatto che, in molti casi, gli insegnanti
abilitati al sostegno si trovano a contatto con contesti strutturalmente non inclusivi e
che delegano loro la gestione esclusiva dei casi di disabilità, la durata e
l’articolazione della proposta formativa profila un sapere teorico-pratico iniziale,
ovvero da implementare in seguito, «da esperti».
È certamente vero che prevedere
percorsi formativi «separati» per chi si occupa di disabilità significa, di fatto,
paventare professioni ugualmente separate e dunque un portare le persone con disabilità
a essere gestite, anche sul piano della scolarizzazione, in contesti disattenti, poco
formati, che portano facilmente a «regimi di separazione» (ovvero non inclusivo, per non
dire, spesso, segregante)
[17]
. È altrettanto vero che la gestione di situazioni di disabilità (complesse),
tanto nella scuola quanto nel sistema dei servizi, non può non prevedere, almeno per
ora, formazioni specifiche. La non ordinarietà della disabilità in tutte le sue
condizioni, e a maggior ragione per le situazioni più complesse, è sempre un terreno su
cui si sedimentano stereotipi, pregiudizi, paure che, se non seriamente affrontati né
risolti a partire dai professionisti, producono, sempre, forme di stigmatizzazione e
inferiorizzazione [Schianchi 2021]. In che modo il sistema formativo affronta queste
situazioni entro le quali non possono che riprodursi culture e pratiche
assistenzialistiche, svilenti e non centrate su quella che la Convenzione ONU sui
diritti delle persone con disabilità, nel suo Preambolo, indica come «la promozione del
pieno godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali e della piena
partecipazione nella società da parte delle persone con
disabilità»?
¶{p. 619}
Note
[13] Per cercare di comprendere quanto chi lavora con la disabilità ne abbia esperienza e conoscenza diretta, al di fuori della professione, ho sottoposto il tema all’interno di due questionari legati a diverse professioni e all’interno di occasioni formative differenti. Nel questionario somministrato ai partecipanti al corso per diventare insegnanti di sostegno (TFA) dell’Università di Milano-Bicocca (2021/2022), l’esperienza diretta con la disabilità (cioè vissuta in prima persona o in ambito familiare), è dell’11,75% (65 persone) del campione (553 persone); in alcuni casi è una situazione conosciuta nell’ambito del volontariato (5,9%, 33 persone). La grande maggioranza 82,35% (455 persone) entra in contatto con la disabilità solo attraverso la professione (insegnante di sostegno, curricolare, educatore). Lo stesso tipo di domanda è stato rivolto a professionisti (assistenti sociali, educatori, pedagogisti, psicologi, coordinatori di servizi, ecc.), per un campione di 197 persone, in occasione del percorso di formazione «Percorsi di emancipazione. Garantire l’autodeterminazione delle persone con disabilità grazie alla legge 122/2016» promosso da ATS della città Metropolitana di Milano (2022), in collaborazione con Ledha e Università degli Studi di Milano-Bicocca. Con alcune variazioni minime, il quadro segue tendenze simili: per il 76,1% del campione (150 persone) il legame con la disabilità riguarda solo la dimensione lavorativa; il 22,8% (45 persone) ne ha esperienza diretta sul piano personale e familiare; il 16,2% (32 persone) la incontra in occasione di attività di volontariato.
[14] Nel corso TFA sostegno dell’Università di Milano-Bicocca (2022/2023), tra i corsisti della scuola secondaria (primo e secondo grado) dichiara di conoscere la Convenzione ONU il 4% circa (22 persone) del totale dei partecipanti (560 persone).
[15] Si tratta della proposta di legge C-2444 del 2014. La proposta prevedeva la specializzazione del biennio finale che porta alla laurea magistrale a insegnamenti legati al sostegno scolastico facendone, in un certo senso, una laurea specifica sul sostegno, con una specifica classe di concorso per l’ingresso nel mondo scolastico.
[16] Fatto di una ricca e articolata (e impegnativa in termini di tempo, sforzo ed economici) composizione di lezioni, laboratori, tirocinio.
[17] Senza alcuna valenza generale, sono indicativi alcuni dati emersi da questionari che ho somministrato a partecipanti agli insegnamenti che tengo presso il corso TFA sostegno dell’Università di Milano-Bicocca per docenti della scuola secondaria di primo e secondo grado. Per la scuola secondaria di primo grado, alla domanda sul coinvolgimento del dirigente scolastico sui temi della disabilità il 32,2% (70 risposte) segnala un interesse reale e attivo, mentre la maggioranza 67,8% (148 risposte) indica attenzioni formali, burocratiche e una completa delega agli insegnanti specializzati. Gli insegnanti dello stesso corso per la scuola secondaria di secondo grado non si discostano molto da questo dato: il 39% (85 risposte) segnala un interesse reale e attivo, mentre la maggioranza 61% (133 risposte) segnala attenzioni formali, ecc. Anche l’interesse dei colleghi curricolari ai temi della disabilità è indicativo e coinvolge direttamente anche le questioni formative. Per oltre un quarto degli insegnanti dei due ordini scolastici, il coinvolgimento didattico dei colleghi curricolari potrebbe esserci se fossero più formati. Tuttavia, da questi stessi dati, risulta che le forme di aggiornamento sui temi della disabilità realizzate dai diversi istituti scolastici non sono obbligatorie e sono spesso disertate dagli insegnanti curricolari che non hanno, e continuano a non avere, alcuna formazione specifica in materia.