Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c21
Il sistema è dunque chiamato a
lavorare sui contesti della vita comune – nei quartieri, nelle scuole, nei luoghi di
lavoro – ma orientando l’intervento attraverso un piano personalizzato, centrato su
ciascuna persona e sulle sue preferenze e desideri.
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Ciò può apparire, a prima
vista, un paradossale oscillare tra individuale (il progetto) e collettivo (la
dimensione di comunità). Tale processo, tuttavia, appare contraddittorio soltanto se
osservato dal punto di vista del servizio che vede due oggetti di intervento
differenti: persona e contesto. Si rivela, invece, strutturalmente integrato nel
momento in cui lo si osserva dal punto di vista della vita delle persone. Le storie
contenute nella prima parte del volume mostrano in modo esemplare come l’accesso
alla partecipazione ha sempre due facce: una personale (biografica, valoriale, di
attitudini, di preferenze...) e una comunitaria (che concerne i termini e i
requisiti della partecipazione sociale in quella data comunità in quel momento
storico). Queste due facce sono strutturalmente integrate: si definiscono, si
direzionano, si modellano a vicenda in modo ricorsivo e con uno sviluppo diacronico.
Proprio come due sistemi
comunicanti, capacitazione personale e potere di modellare il proprio mondo sociale
(anche attraverso i sostegni ottenuti dai servizi) possono rafforzarsi o indebolirsi
a vicenda. Se accade qualcosa che danneggia una dimensione – per esempio quella
delle relazioni – questo ricade su tutto il sistema di partecipazione;
specularmente, se una dimensione della partecipazione si rafforza o parte da un
livello particolarmente potenziato (per esempio una ricca rete familiare di cui si è
parte o un contesto strutturalmente accessibile) questo va a costituire un fattore
di protezione anche nei confronti di dimensioni che appaiono distanti.
Si tratta quindi di disegnare
un sistema di servizi in grado di integrare sistematicamente personalizzazione e
vita nella comunità [Colucci 2019]: il progetto personalizzato non è un piano di
interventi sulla persona, ma costituisce uno strumento mediatore indispensabile per
consentire un’architettura che tenga insieme le esistenze singole – storicamente,
socialmente e geograficamente situate – con un sistema territoriale comunitario,
articolando interventi che siano in grado di incidere sull’ambiente circostante, sui
fattori di conversione dei capitali in libertà, sulle condizioni di utilizzo delle
risorse messe in campo, eliminando gli ostacoli che ne impediscono la piena
fruizione e depotenziando il dirottamento delle traiettorie esistenziali verso
contesti speciali.
Si tratta di una forma di
personalizzazione comunitaria che vede nella dimensione locale del welfare il luogo
privilegiato per la costruzione delle opportunità, spostando l’attenzione dei
decisori dalla gestione di servizi di qualità allo sviluppo della comunità, dalla
erogazione di prestazioni alla mobilitazione degli attori e delle risorse che
possono contribuire a questa prospettiva.
Per essere terreno fertile per
lo sviluppo della piena potenzialità del progetto personalizzato, il sistema di
welfare locale deve quindi dotarsi di misure, politiche e interventi in grado di
smontare le forme di limitazione ¶{p. 496}all’accesso e di
potenziare la possibilità delle persone con disabilità di sfondare quel che rimane
delle barriere. Empowerment della persona e modifica dei
contesti non costituiscono due filoni di intervento diversi – giustapposti o, in
modo ancora più inefficace, consecutivi – ma due obiettivi di ciascun intervento
[Shogren e Shaw 2016]: ogni servizio, ogni modifica di contesto, ogni misura di
sostegno è direzionata a modificare le condizioni di esperienza di quel beneficiario
in modo che quello specifico contesto di vita diventi capacitante. Per questo, è
strategico che i progetti vengano implementati attraverso strumenti specifici e
orientati alla deistituzionalizzazione.
4.2. Il raccordo con il sistema di governo dei territori
Dal progressivo tratteggio
delle caratteristiche di un sistema di welfare orientato alla
deistituzionalizzazione emerge dunque un sistema in grado di modellare gli
interventi seguendo le pieghe esistenziali di ogni persona, ma anche di modificare
progressivamente le comunità in un’ottica di sistema.
Cuore di un welfare
multicentrico così costruito è il sistema di governance: quel
meccanismo di regolazione attraverso cui le attività e i rapporti tra gli attori
vengono coordinati e indirizzati a un fine comune e le risorse vengono allocate di
conseguenza. La governance è, di fatto, ciò che differenzia un
sistema di welfare multicentrico da un sistema semplicemente frammentato: il
multicentrismo si differenzia dal semplice policentrismo proprio in quanto nel primo
caso i «centri» si ripartiscono funzioni e obiettivi di inclusione che derivano da
un indirizzo unitario e si muovono in un quadro coerente che presuppone – e
condivide – un chiaro modello di comunità, un orientamento alla coesione e
all’equità delle opportunità sociali.
Differentemente, un welfare
policentrico suddivide, allo stesso modo, le funzioni tra i diversi soggetti, ma –
privo di un indirizzo comunitario e uniforme – non si muove in una tensione di
sviluppo comunitario armonica e coerente, ma tende a individualizzare gli esiti
rappresentandoli come outcome individuali [Curto e Marchisio
2021]. Decentrando lo sguardo dagli esiti di sistema si incorre in un rischio
altissimo di iperframmentare i processi perdendo efficacia, disperdendo le
esternalità positive e aumentando in modo incontrollato i costi.
L’indirizzo unitario e
sistematico costituisce dunque un elemento che non deve essere sottovalutato:
affinché un sistema di governance sia orientato alla
deistituzionalizzazione, infatti, esso deve essere capace di orientarsi in termini
globali alla mission esplicita e condivisa di contrastare gli
esiti istituzionalizzanti. La governance, infatti, non è
neutrale rispetto agli obiettivi del sistema ma, al contrario, a partire da questi
opera e indirizza ¶{p. 497}le scelte tecniche. Nei sistemi di
welfare locale, in particolare, per contrastare l’istituzionalizzazione è necessaria
una governance intenzionalmente orientata a farlo. Non solo,
infatti, i sistemi governati espressamente per favorire soluzioni
istituzionalizzanti naturalmente riescono al loro scopo, ma anche i sistemi privi di
governance, quelli molto frammentati o caotici, tendono a
esitare in una spinta all’istituzionalizzazione. Ciò avviene perché, come abbiamo
visto, i processi di partecipazione sono integrati e richiedono un accompagnamento
sistemico e strutturale mentre, al contrario, i sistemi frammentati tendono a
prendere in considerazione i temi (la povertà, la disoccupazione, la mancanza di
abitazione) e non le loro connessioni interne ed esterne rappresentando i problemi
in termini monodimensionali, a prediligere spiegazioni dei fenomeni basate su forme
di causalità lineare non essendo dotati di sistemi in grado di intercettare e
leggere le domande interconnesse, situate e sistemiche che le vite delle persone
pongono. Per tali assetti è impossibile, a causa della frammentazione, occuparsi in
termini globali di situazioni complesse, e producono abbandono, perdita di contatto
e, infine, una spinta sistematica quando potente di allontanamento dalla piena
inclusione che favorisce, in ultima istanza, il ricorso all’istituzionalizzazione.
Una
governance efficacemente orientata alla
deistituzionalizzazione, al contrario, è in grado di prendere in considerazione
contemporaneamente diversi aspetti (territoriali, umani, economici, culturali)
relativi alla porzione di territorio da governare, articolandoli in un sistema
coerente, armonico con l’indirizzo più ampio e finalizzato a obiettivi condivisi. A
partire da tale indirizzo è possibile attivare i meccanismi atti a consentire a un
welfare multicentrico e di prossimità di non ricadere in modalità operative
localistiche e in soluzioni settoriali. Quello che caratterizza una
governance in grado di promuovere i processi di contrasto
all’istituzionalizzazione è, infatti, il cambiamento delle condizioni di esperienza
delle persone con disabilità che abitano quel territorio, le quali non si sviluppano
mai lungo una direttrice per volta.
Si tratta di un indirizzo di
governo e controllo che si colloca a monte di ciascun progetto individuale,
costituendo la condizione che abbassa il rischio che tali progetti si configurino
come percorsi individualistici e isolati, come una sorta di «luoghi senza mura» in
cui la persona viene inserita, ma che non si rivelano in grado di modificare gli
assetti discriminatori e le direttrici di inclusione della sua comunità di
appartenenza. In questo senso, è necessario tenere conto che un accompagnamento
individuale, anche svolto in maniera eccellente, che si muova in un sistema non
governato in termini di empowerment di comunità, incontra un
altissimo rischio di incepparsi, di risultare troppo faticoso e costoso da portare
avanti e quindi di finire per costituire una garanzia molto flebile contro
l’istituzionalizzazione: la vita deistituzionalizzata è spesso, in tali scenari,
¶{p. 498}la condizione del momento, ma raramente diventa l’assetto
esistenziale definitivo.
5. Conclusioni: il sistema di welfare come agente culturale
Per costruire tale modello di
welfare sui territori è necessario dunque partire dalla messa in discussione delle
modalità attuali di programmazione e gestione dei servizi; è necessario, cioè, ragionare
e agire a un livello più alto rispetto a quello in cui di solito i servizi si
ridiscutono quando si parla di deistituzionalizzazione. Non in termini di organizzazione
della singola unità erogativa, di tipologia di personale impiegato, di attività svolte,
orario, requisiti, numero di utenti. Ma in termini di meccanismi di rapporto tra
Pubblica Amministrazione e Terzo settore, in termini di partecipazione dei beneficiari e
dei territori nella costruzione delle risposte, in termini di meccanismi di
finanziamento, erogazione, controllo degli esiti di emancipazione che quel dato sistema
è in grado di fornire. Serve una messa in discussione strutturale, in grado di liberare
le energie ad oggi bloccate nella difesa dell’esistente: le energie creative degli enti
Terzo settore, spesso disperse nella strenua difesa – e nell’ennesimo
maquillage – dell’unità di offerta; le energie degli operatori,
ormai uniformemente compresse da comparti sempre più asfittici e sofferenti e ad ogni
generazione più distanti dalle spinte culturali e sociali che essi esperiscono nella
complessità quotidiana delle società contemporanee; le energie dei decisori, disperse a
rincorrere situazioni di marginalità sempre più emergenziali.
La CRPD offre un’occasione storica
per catalizzare le direttrici di innovazione che, pure in maniera disarticolata, stanno
attraversando il sistema, aggregandole attorno a una piattaforma cognitiva e valoriale
comune [Harpur 2017]. Senza tale passaggio di governo forte, organizzare un sistema
complesso come il welfare in modo funzionale alla deistituzionalizzazione rischia di
apparire una sfida impossibile.
Ma il livello tecnico è
necessario, ma non sufficiente: il sistema di contrasto all’istituzionalizzazione deve
essere orientato consapevolmente a livello organizzativo e, allo stesso tempo, radicato
culturalmente nelle comunità. Anche questo passaggio avviene in maniera integrata con il
lavoro condotto negli spazi creati dal sistema di personalizzazione comunitaria: il
welfare pubblico deve essere in grado di valorizzare e generare opportunità nelle
comunità locali, potenziare i capitali delle persone e dei territori, valorizzare le
risorse locali, di riconoscimento e sviluppare le reti e i sistemi di significati e
scambi già esistenti in maniera visibile, comprensibile, rappresentabile alle comunità
locali. Appare in questo senso necessario che il welfare raffini la sua
professionalizzazione, imparando a lavorare attraverso strumenti capaci di moltiplicare
i codici di riferimento, i ¶{p. 499}linguaggi, gli orizzonti di senso:
decolonizzando il rapporto con le persone fragilizzate all’interno delle comunità
[Forgacs 2014].
Nel momento, infatti, in cui con
deistituzionalizzazione non intendiamo la mera modifica di una unità di risposta, ma lo
smontaggio di un sistema di povertà (materiale, relazionale, di capitale retorico),
allora un welfare che possa agire in questa direzione è chiamato a dotarsi di strumenti
per operare tale smontaggio e ricomporre, nella concretezza delle esistenze, le forme
molteplici attraverso cui l’accesso alla piena cittadinanza può e deve declinarsi. Tale
decostruzione comprende la problematizzazione dei meccanismi attraverso cui ad oggi
avviene l’accesso all’abitare non coatto, ma non si esaurisce in esso: la componente
culturale è cruciale e il sistema di welfare non è affatto neutro rispetto alle
direzioni che assume. Ad oggi la disabilità, col suo mero esserci, rende ammissibile
l’istituzionalizzazione. L’intersezione di diverse povertà e mancanza di accesso,
infatti, colpiscono la cittadinanza di tutti coloro che le esperiscono [Crenshaw 2017] –
disabili o no – ma, quando è una persona con disabilità a esserne colpita,
l’istituzionalizzazione appare all’orizzonte come una soluzione, se non ovvia,
quantomeno contemplata e accettabile. La patologia della cittadinanza viene considerata
incurabile perché percepita come determinata dalla condizione e di conseguenza, se la
cittadinanza è impossibile, si ricorre all’istituzionalizzazione come «il male minore»
rispetto ad altri che spesso vengono esplicitamente paventati in alternativa:
l’abbandono, la solitudine, la povertà estrema. Si tratta di un confine di accettabilità
del tutto culturale che, ad oggi, è influenzato grandemente dal modo in cui i sistemi di
welfare storicamente si sono costituiti e dalle pratiche e dalle simbologie che nei
decenni si sono stratificate sui territori. Questo, da una parte, complica i primi
passi: il nuovo sistema si muove in un fluido che avanza con una corrente inversa,
esperisce l’inerzia del vecchio sistema sotto forma di varie tipologie di resistenza –
politica, culturale, pseudoscientifica – che richiedono, ad oggi, un surplus di energia
e intenzionalità per avviare i processi. Dall’altra, osservare la situazione attuale dà
fiducia nella potenzialità di un sistema di welfare deistituzionalizzato e
deistituzionalizzante [Saraceno 2017] nel funzionare da agente attivo di progresso
culturale e sociale, nella possibilità che il sistema stesso ha, se opportunamente
governato, di invertire i processi di esclusione in modo stabile, sistematico e
duraturo.
Note