Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c21
Nell’ambito di questo
svuotamento, una situazione abbastanza diffusa da rendere opportuno citarla è
quella in cui alcune tra le esperienze sociali di cui alla persona con
disabilità viene negata la fruizione vengono sostituite dalla famiglia. Non è
infrequente osservare i familiari, spesso i genitori, che si spendono in modo
atipico rispetto alla fascia d’età del figlio per consentirgli di vivere
esperienze sociali che per le persone senza disabilità avvengono in reti
extrafamiliari: un concerto, una vacanza, studiare insieme, partecipare agli
eventi della comunità, andare a votare, persino cercare qualcuno con cui avere
esperienze sessuali. Si tratta di una modalità sostitutiva che, a lungo andare,
risulta faticosa per tutti i partecipanti. Tale modalità è esplicitamente
stigmatizzata dagli operatori e dai servizi socio-educativi, che la adducono
frequentemente alla supposta iperprotettività delle famiglie, ma in realtà
costituisce un comportamento ampiamente atteso dal sistema di cui i servizi
fanno parte. Attualmente, infatti, il paradigma cosiddetto del «Dopo di noi»
assume come un dato
¶{p. 480}di fatto che, fino al momento del
venire meno dei genitori, l’esistenza della persona con disabilità resti
prevalentemente confinata all’interno della famiglia nucleare [Colleoni 2006].
La modalità stessa dell’attivazione delle misure di sostegno si fonda su questo
assunto, prevedendo l’accesso nel momento in cui la famiglia si avvicina a «non
farcela più», o persino al momento in cui uno dei genitori muore o si ammala
gravemente. Si tratta di un’aspettativa sociale di compressione che è un noto
effetto collaterale del welfare familistico e che costituisce un punto enorme di
divergenza rispetto alle esistenze delle persone senza disabilità.
Lo schiacciamento
dell’esperienza sociale in famiglia spesso emerge, in modo drammatico, proprio
nel momento dell’istituzionalizzazione, da una parte facilitando l’ultimo
scivolamento e dall’altra rendendola ulteriormente traumatica per la persona.
Facilita lo scivolamento nell’istituzionalizzazione in quanto ci si trova ad
avere a che fare con una persona che, al venire meno della famiglia, vede
scomparire tutta la sua rete, per la quale ogni dimensione dell’esistenza
risulta impoverita. In questo scenario, una soluzione totalizzante come la
struttura risulta molto difficile da contrastare per diverse ragioni, prima tra
tutte il fatto che la persona è sola nel cercare di farlo.
Gli esiti delle due
modalità descritte, di sostituzione o di scomparsa delle direttrici di
partecipazione sociale rivelatesi inaccessibili, sono, infatti, facilmente
osservabili quando si entra in contatto con una persona alle soglie
dell’istituzionalizzazione. A quel punto, tuttavia, anche se ben visibili
risultano difficilmente contrastabili: è come se ci fosse un imbuto, in cui la
persona sta già scivolando da anni, che devia la partecipazione rendendo quella
cittadinanza già molto diversa da quella degli altri cittadini. La progressiva,
talvolta vertiginosa, riduzione del campo di possibilità praticabili e dello
spazio delle aspirazioni per le persone con disabilità erode la piena
partecipazione finendo per far apparire, a mano a mano che il momento
dell’istituzionalizzazione si avvicina, l’intervento verso la cittadinanza e la
libertà come un orizzonte sempre più distante, utopico, impossibile. Questo
progressivo svuotamento è tanto più veloce e pervasivo quanto più i contesti
sono inaccessibili, quanto più, cioè, la persona incontra barriere. Per questa
ragione, le persone il cui funzionamento è molto differente rispetto alle
modalità attese dai contesti – persone con alto bisogno di sostegno, persone che
incontrano barriere nella sfera cognitivo-relazionale, persone che non
utilizzano un linguaggio codificato, solo per fare alcuni esempi – sono più
esposte al rischio di istituzionalizzazione: la «soluzione» appare adatta a loro
proprio in virtù del fatto che il processo di svuotamento della cittadinanza è
avvenuto spesso in modo precoce, rapido e pervasivo [Canevaro 2013]. Tale
meccanismo di svuotamento, infatti, oltre a essere dilagante è progressivo: la
partecipazione speciale modella le direttrici di partecipazione
¶{p. 481}successive innescando una crescente riduzione sia del
campo di possibilità praticabili sia di quelle immaginabili.
Si tratta di processi il
cui contrasto necessita di un lavoro particolarmente accurato e competente in
quanto, se osservati da una prospettiva a breve termine, gli interventi che
vicariano la partecipazione attraverso contesti speciali, così come l’assunzione
di ruoli extrafamiliari da parte della famiglia, sembrano offrire nel presente
una via d’uscita alla non accessibilità delle comunità. A lungo termine,
tuttavia, sono proprio tali scelte che, orientando via via le direttrici di
partecipazione successive, spingono la persona verso i margini dell’inclusione
sociale.
1.3. Processi che convergono verso l’istituzionalizzazione
Talvolta le persone con
disabilità riescono a resistere al graduale svuotamento della partecipazione
sociale. I casi studio contenuti nella prima parte del lavoro lo mostrano in modo
paradigmatico: le persone con disabilità e le loro famiglie inseriscono sostegni,
contrastano l’inaccessibilità dei contesti, insistono caparbiamente nel costruire
legami e direttrici di inclusione nel mondo di tutti, con uguali condizioni di
esperienza e spazi di opportunità degli altri cittadini. Mantenere una piena
partecipazione contrastandone lo svuotamento o la sostituzione con contesti
speciali, tuttavia, si rivela un’operazione molto costosa per una singola famiglia:
è ad altissimo consumo di capitali – economici, sociali, culturali – non è alla
portata di tutti e non è sostenibile in modo privatistico a lungo termine. Questo
rende la prevenzione dell’istituzionalizzazione un cammino che necessita di un
intervento sistematico da parte di un sistema organizzato, che si focalizzi proprio
sul primario contrasto alla differenziazione delle direttrici di partecipazione e di
cittadinanza [Mezzina et al. 2006].
Tale persistenza e
sistematicità dell’intervento è resa necessaria anche dal fatto che i processi di
svuotamento e imbalsamazione delle direttrici di partecipazione sociale che
convergono verso l’istituzionalizzazione non si collocano nel vuoto dal punto di
vista culturale, ma appaiono coerenti con una piattaforma semantica e valoriale che
sembra funzionare da sfondo integratore. Con sfondo integratore si fa riferimento,
in didattica, a una metodologia che consiste nel proporre un quadro di riferimento
di significati e contenuti in cui collocare le diverse attività condotte nell’ambito
dell’insegnamento. La finalità di questo modello è facilitare per gli allievi
l’integrazione progressiva delle conoscenze e delle competenze apprese, risolvendo i
fenomeni di dissonanza cognitiva [Canevaro 1997]. L’efficacia della metodologia
dello sfondo integratore è data proprio dal fatto che esso consente agli alunni di
percepire l’insieme di attività svolte nell’ambito ¶{p. 482}delle
esperienze di apprendimento come un sistema coerente, fornendo loro elementi per
prevedere gli scenari futuri, collocare le nozioni e dare senso alle nuove
esperienze.
In maniera affine, il modello
medico-individuale – unitamente alla componente di paternalismo giuridico [cfr.
Addis, supra] – ha fornito storicamente, e offre ancora oggi, a
chi progetta e realizza servizi e sistemi di presa in carico, uno sfondo che
connette elementi, rende intuitive le direzioni, semplifica i collegamenti e rende
possibile formulare aspettative sui frammenti che non si conoscono. Tale sfondo
influenza le scelte sia al livello micro dei singoli interventi sia al livello macro
della costruzione dei sistemi.
I contesti speciali che
vicariano l’esperienza sociale inaccessibile risultano, in questo quadro, coerenti
con un modello medicalizzato di spiegazione dei fenomeni che vede la disabilità come
l’esito diretto di una condizione patologica individuale, da prendere in carico
prevalentemente in termini para-diagnostici e riabilitativi [Barnes et
al. 2002].
Ciò consente agli strumenti
diagnostico-classificatori e ai modelli deterministici di spiegazione di continuare
a costituire il quadro concettuale e operativo in cui viene immaginata e sviluppata
l’inclusione, nonostante il modello medico si dica superato da diversi decenni. Si
genera un circolo vizioso in cui le direttrici speciali della partecipazione che ne
esitano indirizzano le esistenze delle persone con disabilità verso scenari sempre
più istituzionalizzati, anch’essi coerenti con tale sfondo e armonici con gli sfondi
teorico-culturali di stampo neopositivista delle discipline coinvolte, che
contribuiscono a rafforzarne la pervasività.
Se a livello della singola
esistenza questo aumenta la probabilità di esiti istituzionalizzanti, a livello
macro si tramuta nel consolidamento di una specifica visione ripartita delle
comunità in cui i cittadini sono divisi tra coloro che vanno accolti, inclusi,
integrati e coloro che, già pienamente appartenenti ai terreni della cittadinanza,
sono chiamati ad accogliere includere, integrare. Anche tale partizione è da
annoverare tra gli elementi che intervengono a giustificare la desensibilizzazione
rispetto ai dati che mostrano la numerosità della popolazione istituzionalizzata
[cfr. Pizzo et al., supra]: si tratta, se
non di non-persone [Dal Lago 1999] quantomeno di non cittadini, di persone comunque
vissute come altre, con altre esistenze e altri bisogni.
Affinché un sistema di welfare
sia in grado di contrastare l’istituzionalizzazione appare, dunque, necessario che
esso si doti di infrastrutture finalizzate a prendere in carico i processi di
svuotamento e imbalsamazione delle direttrici di inclusione in maniera precoce e
strutturale, integrando sistematicamente la dimensione operativa e quella culturale.
¶{p. 483}
2. Nuove logiche per un nuovo sistema: dalle fondamenta agli obiettivi
2.1. Tre pilastri su cui fondare l’inversione dei processi
Alla luce del legame tra esiti
istituzionalizzanti e inaccessibilità dei contesti, appare evidente che un sistema
di welfare orientato al contrasto dell’istituzionalizzazione sia primariamente
chiamato a disegnare nei territori nuove direttrici di partecipazione e
cittadinanza.
Relativamente all’inclusione
delle persone con disabilità questo significa agire su due livelli. A livello micro,
si tratta di modificare le condizioni di esperienza delle persone con disabilità nei
contesti quotidiani dove esse vivono; a livello macro, implica un ripensamento degli
assetti del welfare in grado di investire i rapporti tra gli enti preposti a
operare, i meccanismi di finanziamento, il piano normativo, amministrativo e tecnico
della costruzione di politiche, misure e interventi. La deistituzionalizzazione si
compone di un insieme di processi complessi e situati e, di conseguenza, non può
esaurirsi con l’innesto di un nuovo servizio, ma necessita dell’inversione dei
processi che convergono verso determinati esiti esistenziali.
Si tratta di alzare di livello
l’analisi, passando dai servizi ai sistemi, domandandosi che cosa il sistema di
welfare deve far accadere nella vita di una persona con disabilità per far sì che
questa non venga istituzionalizzata. Sul piano operativo, la costruzione di questa
nuova domanda necessita di una modifica del sistema che lo investa dalle fondamenta,
a partire da tre pilastri operativi e concettuali su cui il welfare si struttura.
Il primo pilastro [cfr.
Zuttion, supra], è costituito dalla messa a fuoco delle
effettive direttrici di efficacia di un sistema complesso come il welfare. Negli
ultimi anni, infatti, si riscontra una tendenza diffusa a rappresentare il welfare
come un insieme di «megamacchine erogatrici di prestazioni» [Zuttion 2021]. In
questa visione, lo scopo del sistema di servizi sarebbe quello di creare filiere di
risposta il più possibile standardizzate, il cui funzionamento è basato sulla
supposta necessità di far corrispondere, in maniera più precisa possibile, la
domanda (configurata sotto forma di bisogno precodificato) e la risposta
(configurata sotto forma di prestazione erogata). Tale modello assume come
a priori non discusso che la correlazione tra efficacia e
standardizzazione, effettiva in numerosi ambiti produttivi, sia applicabile anche ai
sistemi di welfare, comunque costruiti, in qualsiasi contesto socio-culturale
collocati e a qualunque scopo finalizzati. Se ci si muove in questo modello, a
fronte di outcome di inclusione non soddisfacenti, o a dati
preoccupanti in termini di istituzionalizzazione, ogni movimento di contrasto
tenderà a risultare fallace in partenza, in quanto tenderà a svilupparsi attraverso
una sempre maggiore ricerca della standardizzazione – dalla formalizzazione degli
strumenti di assessment all’irrigidimento dei meccanismi
regolativi – perseguendo ¶{p. 484}una sempre più univoca
corrispondenza tra condizione (individuale) e prestazione (appropriata). Al
contrario, è necessario che il sistema non si paragoni a un ciclo produttivo
qualsiasi, ma si doti di assetti specifici rispetto alla sua natura e al suo
mandato, che gli consentano di agire in modo strutturale e sistematico per
modificare le condizioni di partecipazione sociale e cittadinanza nei contesti di
vita, aumentando non la capacità di standardizzazione ma la flessibilità, non la
catalogazione delle risposte unidimensionali ma la capacità di integrazione della
complessità.
Il secondo pilastro delle
fondamenta di un sistema di welfare in grado di contrastare l’istituzionalizzazione
è la capacità di questo di «mantenere nelle risposte i sistemi di connessione che le
domande contengono» [Saraceno 2019]. Ad oggi, coerentemente con il modello erogativo
cosiddetto «a canne d’organo», il sistema è organizzato, al contrario, per attivare
gli interventi attorno a direttrici di bisogno di matrice prevalentemente
individuale, in cui è assunto che esista il «bisogno», un oggetto discreto e
positivo, che è in grado di definire la domanda e di condurre all’individuazione di
una risposta configurata in termini erogativi. Tale meccanismo riduzionista è
trasversale a tutto il sistema, ma le condizioni la cui discriminazione è
storicamente di matrice deterministico-positivista, come la disabilità, ne vengono
danneggiate più di altre: in presenza di una situazione di disabilità, in un sistema
così costruito, lo schiacciamento dell’esperienza della persona sulla menomazione è
quasi immediato e molto difficilmente evitabile [Thomas 1999]. Al contrario è
necessario dotarsi di sistemi organizzativi fondati su strumenti – come il progetto
personalizzato e il Budget di Progetto [cfr. infra, Starace;
Santuari] – in grado di governare i processi evitando che la condizione di
disabilità orienti gli elementi che definiscono il set di risposte possibili e,
dunque, il microsistema esistenziale e di supporti di quella persona.
Il terzo pilastro riguarda una
certa obsolescenza nel sistema di attribuzione delle cause. Il modello medico
individuale, nonostante ampie dichiarazioni di intenzioni di superamento, tende a
costituire ancora il framework di riferimento per la
strutturazione del sistema [Slorach 2016]. Questo si riflette non soltanto nell’uso
di strumenti diagnostici o di orientamenti clinici, ma nella conformazione
prognostica che l’approccio all’esistenza delle persone con disabilità assume in
tutti quei processi che eleggono la menomazione a elemento in grado di orientare
scelte, spazi, opportunità. Nell’attuale configurazione del sistema, il deficit di
cittadinanza delle persone con disabilità [Tarantino et al.
2020], non è, infatti, trattato come frutto di dinamiche sociali da contrastare o di
processi da invertire ma come un esito largamente determinato dalla menomazione. La
piattaforma culturale che fa da substrato a tale modalità operativa consente di
rappresentare l’esclusione come una sorta di prognosi inevitabilmente determinata
dalla menomazione, di cui il sistema di welfare può proporsi,
¶{p. 485}al massimo, di mitigare gli effetti più deleteri [Fisher
Goodley 2007]. In questo scenario il welfare locale, in particolare per quanto
riguarda il sistema di servizi per la disabilità, tende a rappresentare se stesso
come un meccanismo chiamato ad agire a valle rispetto alla marginalità e
all’esclusione sociale che le persone esperiscono, sottraendosi in partenza la
possibilità di intervenire in modo sistemico per contrastare il deficit di
cittadinanza e quindi, in ultima analisi, l’istituzionalizzazione.
Note