Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c21
Il terzo pilastro riguarda una
certa obsolescenza nel sistema di attribuzione delle cause. Il modello medico
individuale, nonostante ampie dichiarazioni di intenzioni di superamento, tende a
costituire ancora il framework di riferimento per la
strutturazione del sistema [Slorach 2016]. Questo si riflette non soltanto nell’uso
di strumenti diagnostici o di orientamenti clinici, ma nella conformazione
prognostica che l’approccio all’esistenza delle persone con disabilità assume in
tutti quei processi che eleggono la menomazione a elemento in grado di orientare
scelte, spazi, opportunità. Nell’attuale configurazione del sistema, il deficit di
cittadinanza delle persone con disabilità [Tarantino et al.
2020], non è, infatti, trattato come frutto di dinamiche sociali da contrastare o di
processi da invertire ma come un esito largamente determinato dalla menomazione. La
piattaforma culturale che fa da substrato a tale modalità operativa consente di
rappresentare l’esclusione come una sorta di prognosi inevitabilmente determinata
dalla menomazione, di cui il sistema di welfare può proporsi,
¶{p. 485}al massimo, di mitigare gli effetti più deleteri [Fisher
Goodley 2007]. In questo scenario il welfare locale, in particolare per quanto
riguarda il sistema di servizi per la disabilità, tende a rappresentare se stesso
come un meccanismo chiamato ad agire a valle rispetto alla marginalità e
all’esclusione sociale che le persone esperiscono, sottraendosi in partenza la
possibilità di intervenire in modo sistemico per contrastare il deficit di
cittadinanza e quindi, in ultima analisi, l’istituzionalizzazione.
La costruzione di questi tre
pilastri costituisce le fondamenta di un sistema che, a fronte dell’esistenza di una
persona con disabilità che esperisce isolamento, esclusione dalle direttrici della
cittadinanza (lavoro, diritto alla casa, dimensione della socialità, accesso alla
cultura, partecipazione politica e così via...), sia in grado di invertire questi
processi di irrigidimento per prevenire la formulazione della domanda di
istituzionalizzazione, evitando o contrastando lo scivolamento progressivo verso il
punto in cui questa appare l’unica plausibile soluzione alternativa all’abbandono.
2.2. Tre qualificatori per direzionare il lavoro
È, dunque, obiettivo primario
del sistema di welfare innescare meccanismi capaci di contrastare la progressiva
differenziazione delle direttrici di inclusione, sostenendo le persone con
disabilità nell’accesso sistematico e lungo tutto l’arco della vita alle molteplici
dimensioni della cittadinanza.
Si tratta di una formulazione
ampia dell’obiettivo che è necessaria per mantenere una visione globale del sistema
e orientare gli strumenti operativi, ma che è utile declinare in qualificatori:
articolazioni specifiche della finalità generale che consentono di orientare le
scelte e di valutare l’indirizzo di processi e strumenti attivati.
Il primo qualificatore, per un
sistema di welfare orientato a contrastare l’istituzionalizzazione, attiene alla
risposta che il sistema di servizi offre, in modo sistematico e organizzato, alla
mancanza di accessibilità dei contesti di cittadinanza per le persone con disabilità
[Barnes 1999].
Si tratta della scelta tra
l’inserimento della persona in contesti speciali e l’attivazione di sostegni e
modifiche di contesto volte ad aumentarne l’accessibilità. Il sistema attuale
proviene da una lunga storia di servizi ad assetto intrattenitivo-custodialistico
[Simplican et al. 2015] che, proprio in virtù di questa loro
natura, tendono a valutarsi sulla base di parametri endoscopici, che riguardano,
cioè, la qualità intrinseca del servizio offerto molto più di quanto prendano in
considerazione i suoi effetti sulla libertà e sulle opportunità sociali esperite
dalle persone che ne fruiscono. Se in termini di quella che potremmo definire
«qualità intrinseca della proposta» la creazione di occasioni di partecipazione in
contesti speciali può apparire ¶{p. 486}una buona risposta
all’inaccessibilità del mondo di tutti, nella prospettiva diacronica, interconnessa
e situata che è propria di tutte le esistenze essa determina, lo abbiamo visto, una
limitazione della possibilità di orientare il corso della propria vita in modo
deistituzionalizzato [Marchisio 2018], una riduzione graduale dello spazio sociale
effettivamente praticabile da quella persona e avvia un confinamento progressivo di
cui l’istituzionalizzazione costituisce l’esito più visibile e stigmatizzato.
La scelta tra costruire
contesti e operare nei contesti di vita di tutti non dipende dalle caratteristiche
della persona (questa credenza, residuo del modello medico-determinista, è stata
superata e il suo rinvenire è scongiurato se sono ben fondati i pilastri di cui al
paragrafo precedente), ma dall’organizzazione e dal framework
culturale attorno a cui il sistema è costruito: un sistema strutturalmente orientato
al contrasto all’istituzionalizzazione sceglie di operare attraverso strumenti,
servizi, sostegni, misure mirate ad agire direttamente sull’accessibilità dei
contesti mainstreaming in tutti gli ambiti della vita e
indipendentemente dalle condizioni personali, sociali e di disabilità del singolo.
Questo significa che il contesto non è il luogo in cui si svolge l’intervento sulla
persona, ma è l’oggetto dell’intervento: ciò che ci si attende di modificare nel suo
funzionamento e nelle sue condizioni strutturali. È agendo sull’inaccessibilità dei
contesti, infatti, che si può invertire la progressiva riduzione del campo di
opportunità che tende a far convergere le esistenze delle persone con disabilità
verso l’istituzionalizzazione [Fascì et al. 2018].
Scegliere sistematicamente le
risposte che agiscono in modo attivo e proattivo nei contesti di vita delle comunità
significa anche, per i servizi, mettersi nella posizione di modellare le direttrici
di inclusione delle comunità stesse e di intercettare in maniera precoce e sistemica
i processi multifattoriali e situati che intervengono a costruire la domanda di
istituzionalizzazione. Il sistema, in questo modo, aumenta la sensibilità situata
nel raccogliere forme di esclusione, intercettare direttrici di mancanza di accesso,
rilevare intoppi nel dipanarsi della piena cittadinanza [Griffo 2019]. Ciò innesca
un circolo virtuoso in cui i servizi non sono più chiamati a intervenire in
situazioni emergenziali, laddove la cittadinanza è già ampiamente deteriorata e
l’esclusione è radicata, ma possono orientare gli interventi alla prevenzione di
tali scenari.
Un secondo qualificatore
riguarda la dimensione della prossimità. L’azione capillare di modifica dei contesti
descritta fin qui delinea, infatti, la necessità di sviluppare un welfare non solo
dotato di ma basato su «strumenti di territorio»: meccanismi di rapporto con gli
enti del Terzo settore, modalità di finanziamento, strumenti amministrativi di
governo devono essere fondati in un’idea di servizio diffusa e multicentrica,
lontana da un modello «ospedaliero» centrato sull’idea di luogo concentratore della
cura. ¶{p. 487}
Riguardo alle persone con
disabilità, lo stare vicino a dove le persone vivono che caratterizza il welfare
comunitario [Wandwalo et al. 2005] assume, accanto al consueto
significato geografico-spaziale relativo alla distribuzione territoriale dei
servizi, anche un rilevante portato culturale laddove riesce a concepirla come una
delle forme della diversità umana (CRPD). Si qualifica, dunque, come orientato alla
deistituzionalizzazione un sistema che sia in grado di raccogliere le esperienze
delle persone senza la necessità organizzativa di frammentarle, ridurle a bisogni
circoscritti e gerarchizzabili, ma supportando l’esistenza di ciascuno nella
complessità di implicazioni, di significati, di discorsi attraverso cui ciascuno la
attraversa. Per far questo, un sistema di servizi deistituzionalizzante si dota di
molteplici punti di contatto con il territorio, di numerosi soggetti istituzionali e
informali che agiscono da agenti attivatori lavorando nei contesti di vita
quotidiana, di sistemi di ricezione della domanda proattivi, con soglie di accesso
molto basse, che si muovono restituendo risposte situate e personalizzate, in grado
di sostenere una progressiva emancipazione delle persone all’interno della
complessità reale del loro contesto di vita.
Le storie analizzate nella
prima parte del volume mostrano, infatti, che i processi che conducono
all’istituzionalizzazione sono multifattoriali e sistemici: la fragilità non è una
condizione intrinseca legata al fatto di essere una persona con disabilità ma è un
esito situato (Giampiero Griffo parla di persone «rese fragili»), che si disegna
all’intersezione di direttrici di discriminazione multidimensionali. Ma se il
progressivo imbuto che conduce all’istituzionalizzazione è definito da un meccanismo
di discriminazione intersezionale, la quale «non può essere concepita come
risultante da una serie discreta di discriminazioni»
[1]
[Crenshaw 1989, 2], specularmente, i meccanismi di supporto non devono
richiedere una pre-frammentazione ma, al contrario devono essere in grado di
mantenere le connessioni, sottolineare le interazioni, agire sui collegamenti tra le
diverse forme di esclusione. Per farlo, sono chiamati a collocarsi, in termini
spaziali, ma prima di tutto culturali, vicino alle persone [Righetti 2014]. In
questo scenario è cruciale che la scelta di prossimità sia una scelta di sistema,
che concretizza e armonizza misure, politiche, interventi e servizi non in termini
occasionali, ma attraverso modalità strutturali. Appare cruciale che il welfare si
doti di meccanismi – specifici e aspecifici – volti a potenziare quei capitali che
ad oggi le persone usano per stare fuori dall’istituzionalizzazione e moltiplicare
le opportunità per le persone di convertire questi capitali in libertà. Tali assetti
richiamano, come è chiaro, in modo strutturale l’interrelazione tra diritti sociali
e libertà [cfr. Piccione, supra].¶{p. 488}
Un ultimo qualificatore emerge
a livello macro: un lavoro complesso e multifattoriale come quello descritto fino a
qui si sviluppa attraverso una strutturazione del welfare rigorosamente orientato a
funzionare come un sistema. In particolare, negli assetti del welfare locale su base
regionale, non si tratta di perfezionare servizi, ma di costruire e governare un
insieme di elementi le cui interazioni – inevitabili e sistematiche – innescano
alcuni processi e ne ostacolano altri, modellano le condizioni di esperienza e, di
conseguenza, configurano gli scenari esistenziali delle persone che abitano quel
territorio, anche di quelle con disabilità.
In questo senso risulta
ostacolante ogni visione riduttiva del sistema di welfare [De Leonardis 2022] che lo
derubrichi a un mero catalogo di servizi – coesistenti, a volte comunicanti, ma
sostanzialmente giustapposti – poiché essa impedisce, di fatto, di agire su un
fenomeno sistemico come l’istituzionalizzazione. Mantenere una visione di sistema è
fondamentale anche per scongiurare il rischio di concentrarsi sul sistema di
risposte: il discorso sull’istituzionalizzazione (e di converso sulla
deistituzionalizzazione) è chiamato infatti a discostarsi dall’attuale
schiacciamento sulle caratteristiche delle soluzioni abitative per configurarsi come
in grado di agire sul modo in cui si costruiscono le domande. Se, infatti, in
termini di analisi dell’esistente, tale centratura risulta motivata dal fatto che
«il rischio di segregazione è insito in ogni unità di offerta che prende in carico
una persona 24 ore al giorno e per 365 giorni l’anno» [Osservatorio 2021], quando ci
si propone di articolare le caratteristiche di un sistema con funzione di misura
alternativa appare necessario tenere conto che, se ci sono senz’altro alcuni modelli
abitativi ad alto rischio di istituzionalizzazione ciò non significa che si possa
garantire la deistituzionalizzazione attraverso lo sviluppo di una mera soluzione
abitativa, qualsiasi ne siano le caratteristiche.
Lo scenario che stiamo
disegnando è dunque un welfare multicentrico e di prossimità che si sviluppa in un
sistema di assetti e modalità operative strutturalmente orientate alla
deistituzionalizzazione. Di cui è necessario articolarne le condizionalità [cfr.
Zuttion, supra] e gli strumenti giuridico-amministrativi [cfr.
Santuari, infra] in grado di garantirne l’organizzazione e il
finanziamento. Unitamente verranno declinati alcuni dispositivi – il progetto
personalizzato [cfr. Marchisio, infra] e il Budget di Progetto
[cfr. Starace, infra] – che costituiscono il cardine operativo
dei processi di deistituzionalizzazione.
Nel prossimo paragrafo, invece,
la declinazione di alcuni tra gli strumenti necessari a raggiungere lo scenario di
inversione dei processi descritto fino a qui consente di completare il quadro del
sistema che si sta disegnando.¶{p. 489}
3. Strumenti e assetti delle misure alternative
3.1. Dal catalogo dei servizi al sistema dei sostegni
Nello scenario fin qui
disegnato il sistema, in tutte le sue articolazioni quali servizi, misure,
politiche, sostegni, è chiamato a imparare a interagire con i contesti di vita
[Ascoli e Sgritta 2020], modificandone le condizioni di fruibilità al fine di
contrastare il processo di sclerotizzazione progressiva della cittadinanza –
innescato da fenomeni iterati di mancanza di accesso – che conduce
all’istituzionalizzazione. Risulta chiara, di conseguenza, l’obsolescenza di
un’infrastruttura volta all’erogazione di risposte puntuali e standardizzate, sia di
natura intrattenitiva che addestrativa, fondate sulla costituzione di luoghi
separati di esperienza e non in grado di configurarsi come prossima ai percorsi
esistenziali.
Un nuovo sistema deve, al
contrario, dotarsi di meccanismi in grado di supportare le persone ad accedere
pienamente al proprio mondo sociale, attuale o desiderato, non come ospiti «accolti»
con benevolenza dagli autoctoni della cittadinanza, ma come soggetti pienamente
attivi e autorizzati ad agire su di esso.
Tale welfare dell’accesso si
sviluppa attraverso molteplici direttrici, in quanto l’accessibilità dei contesti si
declina in termini multiformi: materiali, socio-relazionali, culturali e simbolici.
Una volta superate, con il recepimento della CRPD, le forme di aggregazione degli
interventi per diagnosi e gravità, è attorno alle direttrici dell’accesso che i
servizi sono chiamati ad aggregarsi e a spendere l’alta professionalizzazione di cui
sono capaci.
L’accessibilità materiale dei
contesti è quella maggiormente nota e comprende la dimensione tangibile
dell’accesso: gli aspetti strutturali (tra cui il più noto è costituto dalle
barriere architettoniche), quelli economici (i costi della partecipazione), la
distanza geografica costituiscono solo alcuni esempi degli elementi che determinano
l’accessibilità materiale di ciascuna esperienza sociale. Si tratta di barriere
individuabili con relativa facilità anche da una persona senza disabilità che non ne
esperisce direttamente le limitazioni. Anche per questa ragione esse costituiscono
l’area dell’accesso maggiormente conosciuta e regolata.
Vi sono, tuttavia, altre
tipologie di barriere, che agiscono in modo altrettanto ostacolante nei contesti
della vita quotidiana, ma che tendono a risultare invisibili a chi non ne esperisce
gli impedimenti. Le barriere socio-relazionali, ad esempio, comprendono tutto il
sistema di funzionamenti attesi che i contesti sociali danno per scontati (dal tempo
di attenzione allo stare fermi, dall’uso di un linguaggio codificato ufficiale alla
capacità di generalizzare) [Curto e Marchisio 2021]. Si tratta di elementi
immateriali e quindi più difficilmente individuabili, soprattutto da chi non ne
esperisce gli effetti, che finiscono spesso per costituire, proprio in virtù di
questa
¶{p. 490}invisibilità, una barriera molto potente alla
partecipazione delle persone con disabilità. La potenza discriminatoria delle
barriere cognitivo-relazionali dei contesti è data anche dal fatto che, essendo meno
visibili e quindi più difficilmente individuabili, esse tendono a interagire
maggiormente con le barriere culturali, cioè con le convinzioni, le credenze i modi
impliciti di concepire e di spiegare i fenomeni, in particolare riguardo a quel
fenomeno umano che è la disabilità [Wikler 2010]. Essa, infatti, soprattutto quando
nasce dall’interazione con una barriera invisibile (come quelle che riguardano le
modalità del pensiero o i funzionamenti sociali), costituisce una delle forme di
differenza che sollecita una problematizzazione del rapporto con la norma, ma per
cui l’esclusione, il percorso speciale, la soluzione separata appare ancora
culturalmente ammissibile. Se la disabilità è il risultato dell’interazione tra le
caratteristiche di una persona e le barriere di contesto, infatti, laddove queste
barriere sono invisibili (come quelle di tipo cognitivo-relazionale) essa appare
tutta nella persona: lo svantaggio che ne deriva in termini di partecipazione e
cittadinanza appare del tutto riconducibile alla forma di diversità di cui quella
persona è portatrice. Questo rende invisibili le barriere di contesto e, convergendo
con un set di stereotipi concettualmente contigui (la pericolosità, la necessità di
protezione sono solo i più diffusi) finisce per rendere ancora ammissibile pensare
che una persona con disabilità possa essere considerata «non adatta» a un contesto o
a un’esperienza e quindi ne possa essere legittimamente esclusa [Bifulco e Mozzana
2011]. A questo meccanismo sono strettamente collegate le barriere simboliche: le
rappresentazioni, anche interiorizzate, di ciò che una persona con disabilità è e di
ciò a cui può aspirare [Moscovici 1984; trad. it. 2005]. Esse sono persino meno
visibili rispetto a quelle cognitivo-relazionali in quanto incardinate nello spazio
di integrazione tra meccanismi sociali e psicologici.
Note
[1] «cannot be understood as resulting from discrete forms of discrimination».