Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c10
I disabili si sono dimostrati riottosi a essere ricondotti a un gruppo omogeneo e le loro differenziazioni hanno resistito alla riduzione a idiosincrasie soggettive, alla variazione della psiche. Per quanto gli standard della disabilità giustificativi dell’assistenza siano ricondotti a caratteristiche personali considerate appunto disabilitanti (la minore età, la maternità, a volte lo stesso essere donna, la vecchiaia, la malattia, le menomazioni fisiche, quelle mentali, ecc.), il diverso combinarsi di queste comporta che il tipo di ostacolo che ogni persona sperimenta nell’interazione con l’ambiente cambia da persona a persona. Abbiamo una differenziazione individuale dei bisogni davanti agli stessi tipi di ostacoli. Quella della disabilità si è costruita, quindi, come una nozione che rende difficile obliterare la centralità della componente individualistica dell’esperienza di vita della persona. Nel contesto materiale dei rapporti sociali, la distanza tra la condizione della persona con disabilità e l’autonomia del fantomatico soggetto «normale»
{p. 254}invece di essere tipizzata dal contatto con i dispositivi amministrativi (di polizia, di incapacitazione civile, delle prassi mediche), che hanno il compito di trattare la disabilità, si frantuma in un caleidoscopio di situazioni.
Questo esito, forse sorprendente, ha attenuato l’approccio classico welfarista basato sulla separazione e potenziale stigmatizzazione delle persone con disabilità e una categorizzazione paternalistica, e quindi discriminante, dei loro diritti. Il peso della visione elastica e gradata di autonomia delle persone in condizione di disabilità, a cui rimandano le tecnologie che le trattano, ha spinto le fonti pattizie multilaterali che si occupano dell’esercizio dei diritti della persona con disabilità [10]
a mettere al centro la sua autodeterminazione.
Una spinta decisiva in questo senso è venuta soprattutto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità [11]
che è molto chiara nell’indicare agli Stati di mettere in campo non interventi compensativi dell’incapacità di stare sul mercato, ma interventi miranti a garantire loro il massimo grado di autodeterminazione possibile. Il considerando n) è lapidario nell’affermare che l’approccio ai diritti di queste persone deve muovere dal riconoscimento dell’importanza «della loro autonomia e indipendenza individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte».
L’articolo 1 della Convenzione nei suoi due commi definisce il quadro della costruzione dei diritti delle persone con disabilità e affida per l’appunto alla nozione di «dignità» l’articolazione tra i due approcci possibili che abbiamo delineato. Il secondo comma costruisce la categoria di questi soggetti in modo classico per differenza con le persone «abili» e quindi normali, ma si caratterizza anche per l’importante ammissione che le caratteristiche inabilitanti possono interagire in maniera differenziata con le diverse barriere che si presentano come ostacoli all’uguaglianza e alla partecipazione alla vita sociale:
Per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri.
Il primo comma disegna il compito della Convenzione come compensativo: {p. 255}
Scopo della presente Convenzione è promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità [corsivo mio].
Queste affermazioni sembrano, tutto sommato, configurare l’approccio classico ai diritti sociali, intesi come compensazione di una deminutio della soggettività, e all’idea kantiana della «dignità»: appare assolutamente legittimo leggere la sua qualificazione come «intrinseca», come un chiaro segnale semantico in questo senso.
Proseguendo la lettura della Convenzione però ci si accorge che essa, pur accogliendo il principio di differenziazione tra la persona disabile e il mondo della «normalità», assume una diversa concezione di «dignità» che impone di valorizzare la volontà della persona con disabilità, scoraggiando gli ordinamenti nazionali dal perseguire il miglior interesse del soggetto fragile, in chiave protettiva e paternalistica. In particolare gli articoli 12 e 19 della Convenzione definiscono il conflitto tra l’impostazione liberale classica che vorrebbe individuare a priori e oggettivamente lo «svantaggio» del soggetto disabile e compensarlo con un quadro di diritti definiti, con quella personalistica che vede nel riconoscimento della dignità uno spazio libero di formazione della volontà del soggetto.
L’articolo 19 è chiarissimo sul punto:
Gli Stati Parti alla presente Convenzione riconoscono il diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella società, con la stessa libertà di scelta delle altre persone, e adottano misure efficaci ed adeguate al fine di facilitare il pieno godimento da parte delle persone con disabilità di tale diritto e la loro piena integrazione e partecipazione nella società [corsivo mio].
Il comma 2 dell’articolo 12 della Convenzione chiarisce in modo lapidario che il problema non è quello di compensare una capacità giuridica, di fatto e di diritto, limitata, ma di garantire alle persone con disabilità la «capacità giuridica su base di uguaglianza con gli altri in tutti gli aspetti della vita». Che il riconoscimento della dignità delle persone disabili non debba avvenire attraverso una compensazione delle loro difficoltà a partecipare alla vita sociale e a stare sul mercato del lavoro, attraverso quei diritti che meritano in quanto deserving poors, ma garantendo loro il massimo grado di autodeterminazione è reso evidente dal successivo comma 3. Secondo questo comma: «Gli Stati Parti prendono appropriate misure per permettere l’accesso da parte delle persone con disabilità al sostegno da esse richiesto per l’esercizio della propria capacità giuridica». Questa formulazione esclude che gli interventi possano essere compensativi di qualsiasi deminutio di diritto e/o di fatto. {p. 256}
È evidente che da queste disposizioni emerge un concetto di capacità inteso non come abilità individuale, ma sociale che in quanto tale ha bisogno di interventi che influiscano, per riprendere il linguaggio hobbesiano da cui ho preso le mosse, non sulla libertà degli individui ma sul loro potere di agire nel contesto sociale. Per chiarire questo punto, e quindi la fondamentale questione dei limiti legittimi alla libertà, è importante leggere, avendo presente la discussione classica liberale, il primo comma dell’articolo 14 della Convenzione:
Gli Stati Parti garantiscono che le persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri: (a) godano del diritto alla libertà e alla sicurezza personale; (b) non siano private della loro libertà illegalmente o arbitrariamente, che qualsiasi privazione della libertà sia conforme alla legge e che l’esistenza di una disabilità non giustifichi in nessun caso una privazione della libertà [corsivo mio].
L’affermazione evidenziata esclude in qualsiasi modo che «la natura e la qualità intrinseca», per riprendere il linguaggio hobbesiano, del soggetto disabile possa legittimare una qualsiasi riduzione della sua libertà.
Dalla connessione sistemica dagli articoli 12, 14 e 19 della Convenzione emerge l’idea che le persone con disabilità, come ogni persona, hanno un «potere» sociale da un lato variabile, anche in base alle loro caratteristiche personali, al loro status sociale, alle specifiche circostanze in cui si trovano ad agire, ecc., dall’altro modulabile, integrabile attraverso l’intervento sociale (dovere della Repubblica) per rimuovere le disuguaglianze che le determinanti della variabilità creano. Uso il termine «potere» e non quello di «capacità» perché in linea con la matrice liberale del nostro lessico, esso spazza via ogni ambiguità che il secondo termine può veicolare.
Questo quadro implica che il sostegno alle persone disabili, ma direi alle persone in genere, non può e non deve essere pensato come mirato a compensare la loro mancanza di autonomia, ma a costruire la loro capacità di autonomia. Riconoscere la dignità di una persona disabile non vuol dire garantire la sua sussistenza perché non è in grado di provvedervi in modo autonomo, ma implementare la sua autonomia, che solo nel mondo ideale dei pensatori liberali e dei sostenitori del darwinismo sociale è una «capacità» che qualcuno possiede di per sé e non legata alle condizioni e alle relazioni sociali [12]
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L’approccio della Convenzione pone dunque al centro della tutela la volontà dell’interessato e all’articolo 14 evidenzia il rischio che la disabilità divenga implicita causa occulta di limitazione della libertà personale. {p. 257}L’interpretazione sistematica delle sue disposizioni porta a una chiara delimitazione del sostegno che gli Stati devono fornire alle persone con disabilità: il sostegno deve essere orientato, non a compensare la loro deminutio, ma a integrare e sviluppare l’interezza delle potenzialità di scelta dei singoli, eliminando l’idea stessa che la loro condizione sia di inferiorità. Le politiche di sostegno devono quindi evitare la creazione di interstizi, di spazi e discipline connessi a diagnosi o qualificazioni della disabilità, che confinino le persone. Questo approccio comporta che gli istituti di incapacitazione, più o meno, surrettizia che hanno caratterizzato le politiche sulla disabilità dell’«era liberale» devono essere sostituiti dalla creazione di strumenti, propri della nascente e auspicabile «era personalistica», capaci di supportare e assistere l’autonomia decisionale.
Quindi il primo cambio di paradigma richiesto è il passaggio dai diritti sociali compensativi all’ideazione di strumenti capaci di dare vita a un «supported decision making» [Glen 2012; Theodorou 2018, 1012]. La concezione personalistica impone l’ideazione e la realizzazione di un nuovo welfare incentrato sul sostegno sociale e personale al processo decisionale delle persone [13]
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Questo elemento appare fondamentale per l’elaborazione di quel progetto di «vita indipendente» evocato dalla rubrica dell’articolo 19 della Convenzione, in linea con l’idea che dalla Convenzione promani quella che le persone con disabilità abbiano – non troppo differentemente dalle persone «normali» – una capacità elastica ed espansiva di cui deve essere favorito lo sviluppo [cfr. Bernardini 2021; Matucci 2021, 52 s.] piuttosto che, come si è teso a fare negli ultimi trecento anni, la negazione. Il piano di vita indipendente, se si vuole rispettare la dignità della persona la cui vita concerne, non può essere pensato come il prodotto dell’incontro di due volontà che si limitano reciprocamente, facendo valere i rispettivi interessi, casomai immaginando che una delle due incarni gli interessi pubblici o comunque dei terzi. L’autrice del piano di vita non può che essere la persona con disabilità mentre il sostegno deve riguardare le fragilità che la stessa persona sperimenta in ogni singolo dominio per darle la serenità di elaborarlo. Date queste caratteristiche è evidente che il piano di vita si configuri, una volta elaborato, non come una camicia di forza {p. 258}che ingabbia la persona, ma come uno strumento in continua evoluzione, continuamente modificabile a seconda del variare delle condizioni sociali e personali del soggetto la cui vita traccia.
Note
[10] La Carta sociale europea garantisce al disabile «l’effettivo esercizio del diritto all’autonomia, all’integrazione sociale ed alla partecipazione alla vita della comunità» (art. 15), la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), tutela «il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità» (art. 26).
[11] Ratificata in Italia con la legge 3 marzo 2009, n. 18.
[12] La rappresentazione più evidente della fallacia di questa assunzione è rappresentata dal detto popolare, a dire il vero odioso, ma molto in voga tra i darwinisti sociali, secondo cui «dietro ogni grande uomo, c’è una grande donna». Niente come questo detto chiarisce che le supposte «capacità» personali sono il prodotto di specifiche relazioni sociali.
[13] L’articolo 19 della Convenzione prevede che gli Stati assicurino che: «(a) le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione; (b) le persone con disabilità abbiano accesso ad una serie di servizi a domicilio o residenziali e ad altri servizi sociali di sostegno, compresa l’assistenza personale necessaria per consentire loro di vivere nella società e di inserirvisi e impedire che siano isolate o vittime di segregazione; (c) i servizi e le strutture sociali destinate a tutta la popolazione siano messe a disposizione, su base di uguaglianza con gli altri, delle persone con disabilità e siano adattate ai loro bisogni».