Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c5
I miei fratelli non vengono mai a trovarmi. Prima di stare qui nessuno di loro mi prendeva, solo un fratello mi voleva, disse: «Mi dai quello che guadagni e stai qua», ma la moglie non mi volle. Quando non possiedi nulla, nessuno ti pensa e ti schiacciano. Mi rifugiavo nei casolari delle campagne di [omissis], ma erano sporchi, c’erano animali, topi, una volta sono stato pure morso qui [indica¶{p. 126}il collo]. Per la strada c’erano litigi e aggressioni, mi difendevo; anche alla stazione mi picchiarono e io me ne fuggii.
Chiedo dopo il matrimonio con M.
come fossero cambiate le cose riguardo la sistemazione abitativa:
Continuavamo ad abitare a casa di M., insieme ai suoi genitori, io lavoravo nella segheria ma il guadagno era poco e non avevamo una casa nostra; anche mia mamma, come poteva, con la misera pensione che aveva, ci aiutava a comprare il pane.Il vecchio la violentava, la maltrattava, la faceva prostituire e si prendeva i soldi. Ha continuato anche dopo che ci siamo sposati: io me ne andavo in segheria e lui si andava a coricare con lei. Nel 1985 abbiamo avuto una figlia, l’abbiamo chiamata A. Ce l’hanno tolta a tre mesi ed è stata adottata. Mia mamma ci consolò, dicendoci che la bambina avrebbe avuto un futuro migliore. In quello stesso periodo io scopro quello che succede in mia assenza, la gente me lo dice, così faccio arrestare il vecchio dalla polizia e lo mando in galera, ma poi noi non possiamo permetterci la casa, nessuno ci dà una casa; comincia una vita di strada.
Nel 1987, quattro anni dopo il
loro matrimonio, M. attraverso l’intervento congiunto di comune e chiesa viene presa
dall’Istituto, A. sarà accolto successivamente sempre per intervento congiunto di comune
e chiesa [non sanno ricostruire le ragioni dell’ingresso differito].
R.: «M., le ha fatto piacere
venire qui?»
I.: «Sì, sì, qui è bello».
Dalla ricostruzione di A. emerge
che M. usciva per andare a passeggio e degli uomini che la notavano si approfittavano di
lei.
Anche adesso devo stare attento, una volta è uscita e l’hanno ritrovata a [omissis], ci era arrivata a piedi.Io non sono stato preso subito, insieme a lei, ma l’anno dopo, nel 1988. In quell’anno ho fatto vita di strada. Quando dovevo farmi la doccia, le suore qui dentro non mi davano il permesso, allora me la andavo a fare a [omissis]. Come potevo restare sporco? A [omissis] mi davano la possibilità di lavarmi e andavo lì.Mi presero qui perché si interessò del mio caso il sindaco, poi tutti quelli del comune e un sacerdote. Da allora stiamo qua insieme, col tetto sulla testa.Nel 2000 abbiamo avuto un’altra figlia, lei era incinta e [omissis] disse: «Qua succede uno scandalo». M. si era tolta la spirale, che le aveva consigliato di usare la maestra della scuola, e così capitò. Non c’era niente di male, può succedere. Io la accompagnai, aggiunge A. e riprende: quando si toglie può succedere ed è successo. Qui c’era preoccupazione per lo scandalo, M. fu portata in una casa d’accoglienza, partorì in ospedale a [omissis], poi intervennero il comune e la polizia e la bambina fu data in adozione, ora è a [omissis]. Non l’abbiamo mai vista.
M. conferma la narrazione del
marito con brevi frasi di assenso. Domando loro come trascorrono le loro giornate e cosa
desidererebbero fare.¶{p. 127}
Le giornate passano così, uguali, la mattina usciamo. Io vorrei andare a trovare una mia sorella, ma i suoi figli me lo impediscono; qua dentro di loro non viene mai nessuno, ripete.Qua, a volte, ci sono litigi violenti che arrivano allo scontro fisico, una volta hanno preso a uno che aveva gli arresti domiciliari e glieli hanno fatti fare qua dentro; anche lei venti giorni fa è stata sgridata... sopra [al secondo piano] succede che ci stanno litigi: questa è una casa di riposo ma mi sembra più un manicomio [7] . Pure fuori tante volte mi sono trovato nei litigi perché mi deridevano, ma se ho alzato le mani è stato sempre solo per difendermi.Usciamo insieme io e lei, facciamo qualche giro; io prendo poco di pensione: quando posso e mi serve mi compro un pantalone, facciamo i giri, poi torniamo per pranzo, mangiamo, e il pomeriggio stiamo qua, non usciamo, ci facciamo i giri nel cortile, saliamo, ceniamo. Qua la sera dopo cena per le 6 e mezza finisce tutto, la televisione grande nel salone, l’avete vista? Quella non la accendono. No, [conferma M.] non la vediamo.Da quando è successa questa brutta malattia [il COVID-19] qua non arrivano nemmeno più i panni. Chissà poi chi li ha portati, se sono puliti... non è il caso, non arrivano più.Desideriamo solo stare bene, qui ci sentiamo in salvo.
4. Non è vero, mamma? (M., 1941 e A., 1968)
M. ha ottantadue anni, è sulla
carrozzina, tutta coperta. Vive qui con suo figlio, che di anni ne ha cinquantaquattro,
da sette mesi.
Si mostrano entrambi disponibili
al dialogo e mi dicono che sono contenti di scambiare qualche parola.
Della sua giovinezza M. dice
subito che ha fatto «poche scuole», evidenziando una disparità di genere nell’educazione
familiare:
I miei genitori il libro preferivano comprarlo a mio fratello, che ha fatto la scuola di perito meccanico; la maestra voleva farmi continuare, io volevo diventare maestra giardiniera [insegnante nella scuola dell’infanzia] mio padre non volle, ma io accettavo questa mentalità, era la mentalità dell’epoca. In ogni caso, anche se non sono andata a scuola mi sono resa indipendente, andavo a mestiere, facevo l’orlatrice [operaia nelle manifatture calzaturiere] e i soldi li tenevo per me.
La svolta lavorativa per M. arriva
quando nella città in cui vive si stabilisce un’importante fabbrica nella quale viene
assunta come operaia addetta al reparto di elettronica per il controllo della saldatura
dei pezzi in assemblaggio per la produzione di elettrodomestici. Dapprima lavorava solo
di giorno, poi cominciò, orgogliosamente, anche con i turni di notte: «in fabbrica non
contestavo mai ed ero sempre corretta ¶{p. 128}nei confronti di tutti».
Il lavoro è stato per M. grande fonte di soddisfazione per quell’indipendenza economica
alla quale tendeva fin da giovanissima: «Sono poi andata in pensione a cinquant’anni e
mezzo, dopo trentacinque anni di lavoro, perché non ce la facevo più. Sedici anni in
reparto, pesante».
All’età di ventiquattro anni, M.
conosce l’uomo che diventerà suo marito dopo due anni di fidanzamento. Anche lui, dopo
un passato da ebanista, aveva trovato lavoro in un’industria, in una città diversa, ed
era caporeparto meccanico. Un’unione serena, durata quarant’anni, fino alla morte di
lui, dodici anni fa: «Era severo ma buono d’animo, di famiglia cattolica. Abbiamo sempre
tenuto insieme la famiglia. Ancora oggi ho un buon rapporto con le mie cognate
nonostante i fratelli siano morti, ma non vengono mai a trovarmi».
Hanno avuto due figli: «il maschio
e la femmina. Mia sorella viveva con me, mi ha aiutata tanto a crescere i figli».
La figlia si diploma e consegue la
laurea, ora è un’insegnante:
Vado d’accordo con mia figlia, ma io qui non sto bene. Lei lavora a cento chilometri di distanza, ha due figli, una vita movimentata perché ha tanto da fare. Da un mese non viene a trovarci. Spero che adesso, con le vacanze natalizie, venga. Ieri è venuto mio fratello, e mi ha portato i biscotti senza zucchero.
M. va d’accordo con sua figlia, ma
sottolinea un forte attaccamento al figlio maschio:
Stavo sempre affiatata ad A., lui, quel figlio, è tanto affezionato a me. Il padre lo accompagnava al Dipartimento di salute mentale, ora non ci vuole più andare, prende psicofarmaci, la dottoressa gli ha dato altre compresse. Mio figlio è stato sempre corretto con noi e con la sorella, guai a chi gliela tocca.
Prende la parola il figlio e
racconta di un’infanzia «abbastanza serena ed equilibrata», degli studi intrapresi e mai
completati, dopo tre bocciature, in un istituto di secondo grado per diventare perito
elettronico. Quello che A. lascia emergere è l’assenza di vita di relazione con i
coetanei, per mancata corrispondenza emotiva:
Ero un bambino, un ragazzo più chiuso, sensibile e non mi sentivo tanto capito. Giocavo con i miei cugini, ma poi ognuno per i fatti suoi. Mi piaceva dipingere, dipingevo un poco, non è vero mamma? Ho dipinto il principe a cavallo, due quadri sul sistema nervoso e un quadro su orecchio-naso-udito.
A. chiede conferma a sua madre
delle sue parole e delle sue analisi. Si racconta come una persona con disagio sociale:
«così andava, ero insicuro. Doveva andare così. Trovavo le mie ragioni». Nel 1988, A.
viene preso in ¶{p. 129}carico dal Dipartimento di salute mentale e
comincia a curarsi; i genitori lo sostengono. Adesso non si reca più presso il
Dipartimento, spiega: «per una ragione di accompagnamento, manca qualcuno che mi
accompagni e comunque [recarsi al Dipartimento] non apporta benefici, non è vero
mamma?». La sua vita da quel momento si svolge interamente all’interno della famiglia,
con l’affetto e col sostegno parentale: «doveva andare così». La madre aggiunge: «vivo
male la situazione di A.».
Una svolta nella vita della
famiglia arriva con la malattia del papà: «quando papà si ammala mi ha gestito mia
madre, in quella circostanza siamo stati soli».
La madre interviene: «mio marito
si è ammalato di fegato. Tutto era difficile e da un certo momento non me la sentivo più
di stare da sola». Madre, padre, figlio si trasferiscono dalla sorella di A. per poter
gestire meglio la situazione, durata per vari anni.
Dopo la morte del padre e marito,
c’è un rientro a casa, la convivenza tra madre e figlio è serena, la loro vita scorre
nella routine fino a una caduta della mamma, avvenuta un paio di anni fa «mentre
cucinava», in seguito alla quale la donna ha subìto un intervento chirurgico per la
frattura di un femore. Dopo la caduta, è necessaria un’assistenza e viene assunto un
collaboratore che si recava in casa tutti i giorni ma non faceva il turno di notte;
successivamente viene sostituito da una donna: «tutti e due sono andati via per problemi
loro», spiega A., ma la madre puntualizza che A. si era infatuato della donna e questo
aveva determinato dei problemi, per cui madre e figlio si sono ritrovati soli.
Da quel momento si incrina
l’autosufficienza, la madre continua ad avere difficoltà nella deambulazione, trovare
altro personale è complicato e la figlia assume la decisione di far trasferire la madre
e il fratello nell’istituto: «lo ha deciso lei», afferma M.; «mia sorella ha detto che
dovevamo stare qui, questa è la soluzione. Perché dovevamo aggiustare la cosa nel
migliore dei modi», conferma A. «la casa è nostra, è di proprietà – riprende la madre –
e lì tutto è rimasto com’era».
Qui la vita che raccontano scorre
ogni giorno uguale: «prima mi facevano camminare, ora non più e sto così», dice M.
alludendo al fatto che sta seduta in carrozzina. A. dice:
Ho una stanza, la condivido con un’altra persona. Ho portato i miei effetti personali, i fumetti. Mamma e io non mangiamo insieme. Non è vero mamma? Di pomeriggio a volte guardo un poco di televisione con altre persone nella sala comune. La sera un’infermiera mi mette a letto, di mattina mi fanno la barba.
Madre e figlio si cercano spesso
durante il giorno, pur vivendo in ali separate, pranzando in due sale diverse, si vedono
e scambiano anche solo uno sguardo, anche solo in silenzio.¶{p. 130}
M. afferma: «io non mi immagino
per sempre qua dentro», «neanche io», interviene subito il figlio; «io vorrei stare con
un’assistenza notte e giorno ma a casa nostra», dice la donna. «nessuno di noi due vuole
stare senza l’altro – commenta il figlio. Dobbiamo aggiustare le cose nel migliore dei
modi, ma da solo no, non ci voglio stare».
A., dice che, andando avanti nel
tempo, potrebbe forse innamorarsi: «avere una compagna di vita», e la soluzione potrebbe
essere quella di andare a vivere insieme; tuttavia non si immagina attivo nella ricerca
di una compagna e nel progetto di una vita diversa: «però ho la speranza».
Note
[7] Sulla segregazione delle persone con disabilità, cfr. Merlo e Tarantino [2018; 2019].