Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c25
I passaggi che meritano di essere ripresi in particolare sono due. Il primo è il ruolo «in prospettiva» della comunicazione. Perché se, per un verso, si sottolinea la centralità del «come» in relazione alle sensibilità e alle aspettative dei protagonisti che la ricevono, per un altro verso, merita attenzione ricordare che una buona capacità di comunicazione è, a detta dei professionisti sanitari che hanno firmato il documento di cui sopra, anche fondamentale per la qualità delle cure e, più in generale, per l’accompagnamento negli anni a seguire da parte delle figure sanitarie e non solo. Proprio in relazione a quanto appena detto, infatti, non è fuori luogo ricordare che uno dei tanti aspetti critici che connotano la prima comunicazione è che solitamente quest’ultima si risolve in un unico colloquio, in genere in sede di dimissioni ospedaliere e, tra l’altro, di breve durata; quando meglio sarebbe se assumesse le sembianze di un percorso che, oltre alla presenza delle figure mediche già incontrate in ospedale, prevedesse al contempo il contributo di altre figure specialistiche, in primo luogo psicologi e psicopedagogisti. Del resto, in linea con quanto la «vecchia» legge 104 aveva già previsto, anche in questo ambito. Basti pensare all’articolo 5, laddove al comma 1 si afferma che:
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la rimozione delle cause invalidanti, la promozione dell’autonomia e la realizzazione dell’integrazione sociale sono perseguite attraverso [diversi] obiettivi, tra i quali:
[...] assicurare alla famiglia della persona handicappata un’informazione di carattere sanitario e sociale per facilitare la comprensione dell’evento, anche in relazione alle possibilità di recupero e di integrazione della persona handicappata nella società (lettera «d»); garantire alla persona handicappata e alla famiglia adeguato sostegno psicologico e psicopedagogico, servizi di aiuto personale o familiare, strumenti e sussidi tecnici [...] (lettera «h»).
Il secondo aspetto è il richiamo all’assenza di un cammino di formazione specifico su questo tema durante gli anni universitari che precedono la laurea in medicina e in quelli della specializzazione. A fronte di una straripante offerta di corsi di specializzazione e master nelle più disparate derive della comunicazione (dalla finanza al marketing, dai social media alla pubblicità), come è possibile il silenzio assordante che si registra su questo tema? Si tratta di un vuoto inspiegabile, per non dire sorprendente, che meriterebbe un tempestivo intervento mirato a una nuova progettazione delle carriere formative delle future classi mediche. Una progettazione che, se pare irrinunciabile per alcune specializzazioni (per esempio, pediatria e neonatologia), in realtà dovrebbe coinvolgere le carriere universitarie di tutti gli studenti in medicina, proprio perché l’incontro con la disabilità non è un evento di esclusiva competenza dei reparti di neonatologia.
Sempre in tema di prima comunicazione, oltre a quanto già suggerito, ritengo possa essere avanzata anche un’ulteriore riflessione propositiva. Se da un lato, infatti, la narrazione del «momento» è inevitabilmente caratterizzata da diverse criticità (con tutte le possibili derive che ho succintamente delineato), da un altro lato, potrebbe rappresentare una contestuale opportunità qualora venisse affiancata da una primaria restituzione di informazioni in merito agli aspetti procedurali, legislativi, sanitari e assistenziali – ovvero, in merito alle tutele previste dall’ordinamento e alle modalità per accedervi – nonché ai servizi presenti sul territorio che, con le loro peculiari specificità, possono accompagnare le persone con disabilità e i loro familiari in questa prima e delicata fase della «nuova» vita.
Come è noto, su quest’ultimo versante, le lacune sono forse ancora più diffuse ed evidenti di quelle che tutt’ora si registrano in seno alla formazione dei comunicatori e costringono i protagonisti a intraprendere un tortuoso cammino alla ricerca di informazioni nelle sedi più disparate, non sempre con esiti positivi e, comunque, al costo di evitabili sforzi che si sommano alle difficoltà emotive del momento. Sotto questo profilo, non pare dunque inopportuno ipotizzare la creazione di un primo sportello di accoglienza nelle sedi ospedaliere che possa meglio indirizzare le persone con disabilità e i loro familiari. Con tutta evidenza, tale sportello non può essere inteso come il PUI descritto in precedenza, ma certamente può {p. 572}esserne ritenuta una necessaria diramazione, con il duplice beneficio di essere ancor più vicino alle persone interessate e di poter offrire alcune risposte in tempi ancor più brevi. Tale sportello, tra l’altro, potrebbe probabilmente essere affidato a figure provenienti dal mondo associativo che, su base volontaria, già offrono un simile servizio, tuttavia nelle sedi delle associazioni di riferimento.
Al contempo, pare di semplice fattura la predisposizione di una breve guida operativa, cartacea e/o digitale, da consegnare alle persone coinvolte, contenente le prime informazioni di base (a chi rivolgersi, come, quando). A questa breve guida dovrebbe far seguito una guida più completa, che potrebbe essere recapitata direttamente al domicilio, senza che siano i beneficiari ad attivarsi per poterne usufruire.
In sintesi, pur considerando la delicatezza del momento e le difficoltà che possono presentarsi, per una prima comunicazione più efficace e accogliente, bisognerebbe intervenire almeno su tre fronti:
  1. non isolare la prima comunicazione in un unico momento, ma ipotizzare percorsi di accompagnamento più lunghi che vedano coinvolte differenti professionalità e che possano anche avvalersi della presenza di persone che hanno già attraversato questa delicata fase e che, forse meglio di altri, sono in grado di comprendere le sfumature del vissuto dei protagonisti;
  2. predisporre percorsi di formazione specifica rivolti agli studenti di medicina, da tenersi negli anni della carriera universitaria e in quelli della specializzazione;
  3. istituire nelle sedi ospedaliere un primo sportello informativo mirato all’offerta di informazioni «di base», in ogni caso distribuendo una breve guida operativa «su come muoversi» già in occasione delle dimissioni.

4. Suggerimenti per il PUI. Dalla raccolta dei dati al codice fiscale

Nelle pagine precedenti ho più volte sottolineato come, a mio modo di vedere, l’ipotesi di creare un Punto Unico Informativo sulla disabilità sia del tutto in linea con le previsioni formali del nostro ordinamento. Un’ipotesi che trova conforto sia adottando una prospettiva analitica ad ampio spettro – per esempio, soffermandosi sulle finalità della Convenzione ONU o su quelle della recente legge n. 227/2021 – sia se ci addentriamo in alcuni articoli specifici che, seppur senza riferimenti espliciti, possono essere letti precisamente nell’ottica della proposta in esame. Sotto questo profilo, in particolare, si riprenda quanto già richiamato in merito alle previsioni dell’articolo 2 della legge n. 227/2021 o a quanto suggerito all’articolo 31 della Convenzione ONU.{p. 573}
Come credo sia emerso (e non solamente con riferimento agli articoli appena citati), il principale ostacolo alla creazione di un PUI riposa in almeno due aspetti strutturali che caratterizzano il nostro Paese: da un lato, la frammentazione delle competenze in materia di disabilità e, da un altro lato, le «gelosie istituzionali» in merito alla raccolta dei dati e all’archiviazione delle informazioni che, a fronte di linguaggi non sempre compatibili, non agevola la possibilità né di avere un quadro organico del fenomeno, né di accedervi con facilità da parte dei potenziali beneficiari. Un recente documento prodotto dall’Istituto Nazionale di Statistica mette efficacemente a fuoco queste criticità. Ne riporto un ampio stralcio. Con le parole dell’ISTAT,
la statistica ufficiale si è trovata a far fronte a una domanda informativa sempre più complessa e articolata, che non si limita alla semplice conoscenza dell’ammontare degli individui con disabilità, ma richiede informazioni puntuali sui diversi aspetti del processo multidimensionale che caratterizza il concetto di inclusione sociale delle persone con disabilità: ciò significa mettere a sistema tutti gli strumenti idonei a monitorare i diversi ambiti di vita di queste persone, raccogliendo informazioni sull’accessibilità degli ambienti, dei trasporti, dell’informazione e delle tecnologie, sull’accesso ai servizi sanitari e socioassistenziali e sulle facilitazioni o restrizioni alla partecipazione alla vita sociale in ambito scolastico, lavorativo e relazionale.
A questa crescente domanda di informazione statistica si aggiunge quella proveniente dai sistemi di welfare, centrale e locale, che richiedono dati per supportare la programmazione degli interventi a favore di questo segmento di popolazione. In un’ottica programmatoria è decisiva, infatti, la conoscenza del bacino di utenza dei servizi di welfare – dalle condizioni di salute e i bisogni di assistenza alle condizioni familiari delle persone con disabilità –, con un dettaglio territoriale coerente con i diversi ambiti di competenza e responsabilità previsti dalle normative (Regioni, ASL, Distretti e Comuni). Le politiche e gli interventi a favore delle persone con disabilità necessitano infatti, seguendo l’approccio individuale dettato dal nuovo paradigma, di programmi personalizzati, che affrontino in maniera globale i problemi della disabilità; questi si caratterizzano come processi di presa in carico che implicano sia la stretta integrazione tra l’assistenza sociale e quella sanitaria, sia la predisposizione di politiche attive nei diversi ambiti sociali (scuola, lavoro, partecipazione sociale ecc.) in grado di rimuovere qualunque barriera – fisica o culturale – si frapponga al perseguimento della completa inclusione sociale di queste persone.
[...] L’Istat si sta impegnando a recepire e implementare il nuovo concetto di disabilità nelle statistiche ufficiali [...]. L’attuale approccio all’analisi della condizione di disabilità è [...] coerente con il modello bio-psicosociale che integra i diversi aspetti personali – biologici, psicologici e sociali [...]. Tuttavia, il processo di digitalizzazione avviato nel nostro Paese offre opportunità molto importanti per completare l’informazione statistica: la raccolta sistematica di dati di natura amministrativa consente infatti di documentare anche gli strumenti messi in campo dallo Stato sociale in favore delle persone con disabilità: interventi, politiche e azioni amministrative nei diversi livelli decisionali (Stato centrale, Regioni ed Enti locali).{p. 574}
[...] L’Istat ha iniziato da tempo a progettare un Registro sulla disabilità i cui obiettivi discendono direttamente [dalla] Convenzione Onu [che] impegna tutti gli Stati firmatari a monitorare il processo di inclusione sociale delle persone con disabilità; in particolare, l’articolo 31 [...].
La costituzione del Registro fornisce una risposta a due esigenze informative: la stima della prevalenza della disabilità, da un lato, e la caratterizzazione dell’inclusione sociale delle persone con disabilità, dall’altro. Si tratta di problematiche che richiedono una strategia basata sull’integrazione di fonti di natura diversa: la stima della prevalenza della disabilità, infatti, non è ottenibile con l’uso esclusivo di indagini di natura statistica; la caratterizzazione dell’inclusione sociale delle persone con disabilità non è analizzabile con l’uso dei soli dati di natura amministrativa [ISTAT 2021].
Comprensibilmente, l’ISTAT osserva le criticità di cui sopra con le lenti di un ente di ricerca chiamato a produrre e comunicare analisi, previsioni e informazioni statistiche. Vale a dire, non indossa le lenti di chi riveste un ruolo decisionale e/organizzativo, sebbene sia certamente apprezzabile l’adesione a una «nuova» definizione di disabilità, appunto coerente con quanto richiamato nella Convenzione ONU, così come merita un plauso l’aver sottolineato che la raccolta di informazioni da fonti differenti non risponde soltanto a esigenze meramente speculative ma, con tutta evidenza, aderisce anche a finalità di natura concreta, sia per quanto concerne le politiche di welfare in senso più ampio, sia per quanto attiene alla progettazione di interventi individualizzati a favore di ogni singola persona con disabilità, così come più volte auspicato dalla Convenzione ONU e puntualmente registrato dalla legge n. 227/2021.
Sotto questo profilo, la creazione di un Registro sulla disabilità, quale necessario elemento di raccordo nell’eterogeneità attuale, è certamente un’iniziativa di tutto interesse, proprio perché mira a colmare un parziale vuoto di conoscenza (magari anche a fronte di dati e informazioni già esistenti) e soprattutto perché si propone di sollecitare, se non l’adozione di un linguaggio universale, per lo meno l’attuazione di nuove modalità comunicative tra i differenti attori istituzionali.
Tuttavia, così definito, il Registro non può essere ancora inteso come una risposta soddisfacente in un’ottica di prossimità alle persone con disabilità. Può cioè ragionevolmente essere considerato un prezioso strumento per gli enti e le amministrazioni nella prospettiva progettuale richiamata poc’anzi ma, senza ulteriori accorgimenti, è inverosimile pensare che possa risultare anche un veicolo di una qualche utilità per i beneficiari delle tutele e dei servizi previsti dall’ordinamento, soprattutto nell’auspicabile prospettiva dei «progetti di vita individuali, personalizzati e partecipati», così come si afferma nel già richiamato articolo 2, alla lettera d) del comma 2, della legge n. 227/2021. Per non tacere di quanto ritroviamo alla lettera c), punto 9, del medesimo comma 2, laddove, con riferimento alla «valu{p. 575}tazione multidimensionale della disabilità» e appunto alla «realizzazione del progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato», si afferma anche la necessità di prevedere che
sia indicato l’insieme delle risorse umane, professionali, tecnologiche, strumentali ed economiche, pubbliche e private, attivabili anche in seno alla comunità territoriale e al sistema dei supporti informali, volte a dare attuazione al progetto medesimo [...],
ovvero un insieme di informazioni e opportunità che con buona evidenza vanno oltre quelle contemplate dal Registro sulla disabilità e che, altrettanto chiaramente, rispondono con maggiore efficacia alle esigenze dei protagonisti del progetto di vita di cui sopra.
Ma le persone con disabilità non hanno l’urgenza di interpellare l’ISTAT, semmai hanno bisogno di parlare agevolmente con le proprie amministrazioni locali, con l’INPS e con le ASL di competenza (o ATS, USL, ASP che dir si voglia). E soprattutto hanno necessità di un luogo, facilmente identificabile e raggiungibile, dove poter manifestare le proprie necessità e verificare se e come queste ultime rientrino nelle previsioni di tutela dell’ordinamento.
Come ho più volte ribadito, non pare dunque fuori luogo immaginare la creazione di uno sportello territoriale che possa offrire un esaustivo panorama di informazioni sia in merito alle previsioni di carattere nazionale o regionale, sia in merito alle specifiche previsioni a carattere locale, tanto sotto il profilo delle tutele e dei benefici, quanto sotto quello dei servizi pubblici e privati presenti sul territorio a favore delle persone con disabilità e/o dei loro familiari o, comunque, di chi si prende cura o è chiamato ad amministrare le loro esigenze e i loro interessi.
In quest’ottica, le amministrazioni locali si ritroverebbero probabilmente investite di maggiori responsabilità. Responsabilità, tuttavia, che se da un lato non paiono del tutto nuove perché, a ben guardare, sono state previste già oltre trent’anni fa (si rilegga l’art. 40 della legge n. 104/1992), da un altro lato, in molti casi potrebbero essere agevolmente espletate con alcuni accorgimenti che, nell’era di Internet, probabilmente non richiederebbero sforzi insostenibili.
Sotto questo profilo, la strada più ragionevole da seguire è forse quella che ci invita, da un lato, a ipotizzare delle possibili soluzioni alle criticità già richiamate e, da un altro lato, a mettere sul piatto della riflessione alcuni esempi concreti di quanto accade nella vita di una persona con disabilità, con specifico riferimento ai suoi attuali rapporti con i diversi protagonisti che hanno competenza in materia di tutele, benefici e servizi a suo favore.
Per quanto concerne il primo aspetto, ho già sottolineato che tra i principali ostacoli alla creazione di un PUI, vi è certamente la frammen
{p. 576}tazione delle competenze in materia di disabilità, non accompagnata da uno scambio delle specifiche conoscenze. Per dirlo in modo colloquiale, nella migliore delle ipotesi (perché non sempre avviene neppure all’interno del medesimo ambito di competenza), l’INPS conosce quello che fa l’INPS, le Regioni conoscono quello che fanno le Regioni, i Comuni conoscono quello che fanno i Comuni, le ASL conoscono quello che fanno le ASL. Ovvero, pur avendo questi attori istituzionali anche degli sportelli informativi – è corretto riconoscerlo, certamente migliorati negli ultimi tempi – questi ultimi rimangono comunque luoghi che rispondono (comprensibilmente) soltanto sulla base delle loro specifiche competenze, potendo così garantire (sempre nella migliore delle ipotesi) soltanto una risposta parziale alle esigenze di una persona con disabilità e, in particolare, nei casi di una disabilità complessa, che necessariamente ha bisogno di un ventaglio di informazioni più ampio rispetto a quello che la Regione, l’INPS o la ASL può offrire singolarmente.