Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c12
La ragione dell’introduzione di norme di questo tipo va ricercata nei caratteri propri del diritto contemporaneo. Al giorno d’oggi, infatti, l’operatore giuridico è immerso in un sistema normativo altamente complesso, costituito da una miriade di disposizioni potenzialmente in contrasto tra loro e, soprattutto, poste da fonti le cui relazioni non sono più riconducibili, come in passato, a una chiara gerarchia piramidale. Norme regionali, statali, comunitarie e internazionali si intrecciano e si scontrano
{p. 285}rendendo particolarmente arduo il compito dell’interprete. Per evitare che quest’ultimo si smarrisca e applichi erroneamente il diritto, è necessaria una guida che orienti correttamente le sue scelte ermeneutiche. In questa precisa prospettiva, vengono in rilievo i rinvii «narrativi», i quali non pongono norme, ma le «raccontano», fornendo informazioni che sono già in astratto reperibili da parte dell’interprete, ma che possono di fatto essere «smarrite» nella congerie di norme propria dei sistemi giuridici contemporanei.
I rinvii alla Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, dunque, pur non producendo effetti giuridici ulteriori rispetto all’ordine di esecuzione, svolgono comunque un’importante funzione di orientamento dell’attività di interpretazione da parte degli operatori giuridici interni (in primis, giudici e PA), volta ad assicurare che le rilevanti disposizioni pattizie siano puntualmente applicate.
Particolarmente indicativa, al riguardo, appare la vicenda che ha portato all’introduzione del comma 3-bis all’articolo 3 del d.lgs. n. 216/2003, il quale opera un rinvio narrativo alla nozione di «accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione».
Tale modifica legislativa costituisce una misura di esecuzione della sentenza resa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea il 4 luglio 2013 nel caso Commissione c. Italia [21]
. In quella circostanza l’Italia era stata condannata per non aver «imposto a tutti i datori di lavoro di prevedere, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili» (punto 68), in violazione dell’articolo 5 della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. La Corte è giunta a questa conclusione interpretando la nozione di «soluzioni ragionevoli» impiegata dall’articolo 5 della direttiva alla luce di quella di «accomodamenti ragionevoli», definita dalla Convenzione all’articolo 2, comma 4 (punti 58-59).
Nel dare attuazione a questa sentenza, il legislatore italiano non si è limitato a prevedere l’obbligo per tutti i datori di lavoro di adottare «soluzioni ragionevoli» per i lavoratori disabili, così come indicato dalla direttiva e dal dispositivo della sentenza della Corte di giustizia, ma ha preferito includere un chiaro riferimento alla definizione convenzionale di «accomodamenti ragionevoli», al fine di limitare il più possibile il rischio che i destinatari della norma e le autorità giudiziarie ricostruissero diversamente il significato di tale espressione. Dal punto di vista formale, questa precisazione da parte del legislatore non era strettamente necessaria: il potere-dovere di interpretare la normativa nazionale in modo conforme ai trattati internazionali (in casu: alle rilevanti definizioni offerte dalla Con{p. 286}venzione) è ricavabile già dall’ordine di esecuzione. Si tratta, nondimeno, di un’indicazione preziosa, come dimostrato dalla circostanza – sulla quale torneremo più in là – che le sentenze che si occupano di «accomodamenti ragionevoli» sono particolarmente numerose nella giurisprudenza italiana in tema di applicazione della Convenzione.

3.1. (segue) Il presunto carattere non «self-executing» della Convenzione. La posizione della Corte costituzionale

Nonostante i numerosi rinvii alla Convenzione che popolano l’ordinamento italiano, dunque, il fondamento della sua efficacia interna va rinvenuto nell’ordine di esecuzione di cui alla legge n. 18/2009. Tanto dovrebbe bastare a consentire alla Convenzione di produrre gli effetti indicati sopra: efficacia diretta delle norme self-executing; limite alla discrezionalità degli organi amministrativi; parametro interposto di costituzionalità delle leggi ex articolo 117 Cost.; potere-dovere di interpretazione conforme.
La prima giurisprudenza della Corte costituzionale sembrava puntare in questa direzione. Nella sentenza n. 251, del 25 giugno 2008, il Giudice delle leggi si è servito della Convenzione come «ausilio interpretativo», ancorché la procedura di ratifica non fosse ancora ultimata, in ragione del «suo carattere espressivo di principi comuni ai vari ordinamenti nazionali» (par. 12). In particolare, la Corte ha escluso la possibilità di desumere dal testo costituzionale un obbligo di eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici esistenti di carattere assoluto, vale a dire «senza il limite rappresentato dalla concreta possibilità della loro rimozione in termini di compatibilità con altre esigenze» (par. 15). Nel giungere a questa conclusione, grande peso è stato dato alla circostanza che è la stessa Convenzione, attraverso la nozione di «accomodamento ragionevole» a recepire
un sistema di tutela delle persone disabili che sia [...] in concreto compatibile con altri interessi che non possono essere pretermessi e che devono essere, invece, bilanciati con quello, certamente superiore, alla tutela ottimale delle medesime persone (ibidem).
Molto significativa, poi, è l’ordinanza n. 285, del 2 novembre 2009, in tema di condizioni di accesso del minore extra-comunitario affetto da disabilità alla c.d. «indennità di frequenza» di cui alla legge n. 289, dell’11 ottobre 1990. In quell’occasione, infatti, la Corte ha rimesso gli atti al giudice a quo affinché rivalutasse la proposta questione di legittimità costituzionale alla luce di alcune rilevanti «novità», qualificando come tale l’entrata in vigore della Convenzione per l’Italia. Ad avviso della Consulta, invero, era {p. 287}
agevole rilevare che la pregnanza e specificità dei principî e delle disposizioni introdotti da tale Convenzione, indubbiamente si riflettono, quanto meno sul piano ermeneutico e di sistema, sulla specifica disciplina dettata in tema di indennità di frequenza, trattandosi di istituto coinvolgente i diritti di minori che, presentando – come nel caso di specie – «difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della [loro] età», risultano perciò stesso annoverabili tra i soggetti cui la Convenzione richiamata ha inteso assicurare una normativa di favore (penultimo Considerato in diritto; corsivo aggiunto).
Per la Corte, in altri termini, l’entrata in vigore della Convenzione, e dunque la sua introduzione nell’ordinamento italiano mediante ordine di esecuzione, avrebbe innovato il quadro giuridico nazionale arricchendolo di principi e norme senz’altro suscettibili di avere un impatto sulla disciplina interna «sul piano ermeneutico e di sistema» (leggi: potere-dovere di interpretazione conforme). La Corte non esclude, poi, che la Convenzione sia idonea a produrre ulteriori effetti sul piano interno (in questo senso sembra potersi interpretare l’uso della locuzione avverbiale «quanto meno»), avendo particolare riguardo all’attribuzione al minore disabile di posizioni giuridiche soggettive invocabili nei confronti della PA.
Successivamente, nella nota sentenza n. 80, del 22 febbraio 2010, in materia di insegnamento di sostegno, la Corte ha fatto leva sulla Convenzione – in una posizione di sostanziale parità con le rilevanti disposizioni costituzionali – per individuare il «nucleo indefettibile di garanzie» che limiterebbe la discrezionalità del legislatore nella determinazione delle misure necessarie a tutela dei diritti delle persone disabili (par. 4) [22]
. Infine, nella sentenza n. 236, del 22 ottobre 2012, la Consulta, pur richiamando la Convenzione essenzialmente ad abundantiam (avendo già risolto la questione sulla base dei pertinenti parametri costituzionali), si è soffermata sui peculiari problemi di adattamento posti dalla sua natura di «accordo misto», chiarendo che la Convenzione «vincola l’ordinamento italiano con le caratteristiche proprie del diritto dell’Unione europea, limitatamente agli ambiti di competenza dell’Unione medesima, mentre al di fuori di tali competenze costituisce un obbligo internazionale, ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost.» (par. 4.3).
Questa virtuosa attenzione della Corte nei confronti della Convenzione ha subito una brusca battuta d’arresto con la sentenza n. 2, del 1o dicembre 2015 (depositata il 14 gennaio 2016, d’ora in poi «sentenza n. 2/2016»). In quel caso, il Giudice delle leggi era stato chiamato a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’articolo 18 della legge della Provincia Autonoma di Trento n. 13, del 27 luglio 2007. Tale disposizione prevede che i soggetti disabili che fruiscono di prestazioni assistenziali consistenti nell’erogazione di un servizio sono tenuti a compartecipare alla spesa e, {p. 288}soprattutto, che l’ammontare di questa compartecipazione va determinato alla luce della «condizione economico-patrimoniale del nucleo familiare di appartenenza, anziché in riferimento al reddito esclusivo dello stesso interessato».
Ad avviso del giudice rimettente, questa disciplina avrebbe avuto come effetto: i) il consolidamento di una relazione di dipendenza economica del disabile nei confronti della sua famiglia, con conseguente negazione della sua dignità e della sua capacità di autodeterminazione; ii) un ulteriore aggravio dell’onere finanziario incombente sul nucleo familiare di appartenenza e, dunque, un disincentivo ad accogliere il disabile con relativo rischio di istituzionalizzazione. Significativamente, nel prospettare la potenziale illegittimità costituzionale della disciplina provinciale, l’ordinanza di remissione verteva prevalentemente intorno ai profili di incompatibilità con la Convenzione, mentre rilievo marginale veniva accordato alla pertinente disposizione costituzionale (art. 38 Cost.). Analogamente a quanto previsto dall’articolo 117 Cost. per le leggi nazionali, infatti, i trattati internazionali costituiscono parametro interposto di costituzionalità delle leggi adottate dalle Province Autonome, in virtù degli articoli 4 e 8 dello «Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige» [23]
.
Nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale, la Corte non si è limitata ad affermare che la Convenzione non può essere interpretata nel senso di «sollecitare» il «disimpegno [dei familiari] da qualsiasi programma di assistenza che, sulla base delle diverse condizioni economiche, consenta di articolare differenziati livelli di compartecipazione» (par. 3.1) – una statuizione che, ancorché opinabile [Belli 2018], avrebbe avuto un impatto sistemico limitato. La Corte, invece, si è lungamente soffermata sull’inidoneità della Convenzione nel suo complesso a produrre effetti normativi sul piano interno, svolgendo una serie di considerazioni poco persuasive sotto il profilo giuridico e suscettibili di incidere negativamente sull’attuazione in Italia degli obblighi convenzionali.
Segnatamente, il Giudice delle leggi ha qualificato il «necessario rispetto» della Convenzione, da parte dei legislatori interni, come «obbligo di risultato» (par. 3.1). Di conseguenza, alle Parti Contraenti sarebbe accordata la più ampia libertà «di individuare in concreto – in relazione alle specificità dei singoli ordinamenti e al correlativo e indiscusso margine di discrezionalità normativa – i mezzi ed i modi necessari a darvi attuazione [...] anche sul piano della individuazione delle relative risorse finanziarie» (ibidem). La Convenzione, in altri termini, si limiterebbe a «consacrare una serie di importanti princìpi» in materia di protezione dei {p. 289}diritti delle persone con disabilità, ma non avrebbe in quanto tale natura «autoapplicativa» (ibidem).
Le conclusioni della Corte sono sostanzialmente sovrapponibili a quelle raggiunte, poco meno di due anni prima, dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza Z. c. A Government department and The Board of management of a community school [24]
. In Z., infatti, la Corte di giustizia ha negato efficacia diretta alla Convenzione in ragione della sua «natura programmatica» (punto 88). Decisivo, in tal senso, sarebbe il tenore letterale dell’articolo 4 della Convenzione, il quale vincolerebbe le Parti Contraenti ad «adottare tutte le misure legislative, amministrative e di altra natura adeguate ad attuare i diritti ivi riconosciuti», subordinando pertanto l’esecuzione e gli effetti delle disposizioni convenzionali «all’intervento di atti ulteriori che competono alle Parti Contraenti» (punto 89).
Non è dato sapere, in assenza di riferimenti espressi, quanto la Consulta sia stata influenzata dalla Corte di giustizia nel formulare le proprie considerazioni sulla natura non «autoapplicativa» della Convenzione. Vista la contiguità delle argomentazioni seguite dalle due corti, comunque, appare opportuno procedere congiuntamente al loro esame critico.
Anzitutto, occorre sottolineare che l’efficacia self-executing non può essere valutata in relazione al trattato nel suo complesso, come fatto tanto dalla Consulta quanto dalla Corte di giustizia, ma avendo riguardo alla singola norma rilevante [Condorelli 1974, 34-37]. A questo proposito, la circostanza, evocata dalla Corte di giustizia, per cui la Convenzione conterrebbe una «clausola di esecuzione», che impegna le Parti Contraenti ad adottare tutte le misure necessarie per darvi attuazione (ovvero: l’art. 4), è del tutto inconferente. Tali clausole, lungi dall’implicare ipso iure la necessità di provvedimenti di attuazione sul piano interno, si limitano a ribadire «la volontà e l’aspettativa del trattato di... essere applicato» [Conforti e Iovane 2023, 363].
D’altra parte, è lo stesso testo dell’articolo 4 a suggerire una diversa lettura. La lett. a), richiamata dalla Corte di giustizia, ad esempio, fa riferimento all’obbligo delle Parti Contraenti di adottare, unitamente alle «appropriate misure legislative [e] amministrative», anche «altre misure» – un’espressione sufficientemente ampia da poter includere interventi dell’autorità giurisdizionale. Analogamente, la lett. b) impone di «prendere tutte le misure appropriate, compresa la legislazione, per modificare o abrogare qualsiasi legge esistente, regolamento, uso e pratica che costituisca discriminazione nei confronti di persone con disabilità» (corsivo aggiunto). L’adozione di atti legislativi, dunque, è solo una delle possibili misure che possono essere intraprese per rimuovere norme e prassi di carattere discriminatorio, potendosi ottenere lo stesso risultato
{p. 290}con una pronuncia di incostituzionalità della legge discriminatoria (nonché, nel caso in cui la discriminazione sia operata per via regolamentare o di fatto, con l’accertamento della sua illegittimità da parte dei giudici comuni).
Note
[21] Corte di giustizia, sentenza del 4 luglio 2013, causa 312/11, Commissione c. Italia.
[22] Significativamente, nel caso di specie, Giudice Relatore era Maria Rita Saulle, che di questi temi si è ampiamente occupata sia in ambito accademico che istituzionale.
[23] D.P.R. n. 670, del 31 agosto 1972.
[24] Corte di giustizia (Grande Sezione), sentenza del 18 marzo 2014, causa 363/12.