Tiziano Treu
Sindacato e rappresentanze aziendali
DOI: 10.1401/9788815412324/c3
Questa persistente carenza di vita interna e di rapporti con i soci è tanto più rilevante in quanto ad essa fa contrasto quasi sempre uno strettissimo collegamento del gruppo (o meglio dei gruppi) sindacali con la CI, di cui si servono come portavoce contrattuale verso l’azienda e con cui mantengono stretti rapporti di collaborazione. Contrariamente a quanto si è sovente ritenuto, in base ai più rigorosi postulati dell’associazionismo sindacale, la presenza di questi forti gruppi aziendali non conduce affatto a una eclisse della CI o della sua attività contrattuale, neppure di quella di maggiore portata politica e dimensione all’interno dell’azienda. Anzi da simili rapporti i due istituti sembrano trarre semmai un rafforzamento reciproco. O comunque, e forse con maggiore esattezza nel caso nostro, essi tendono più che mai a connettersi inscindibilmente per gli aspetti più rilevanti della loro attività e connotazione fino quasi a identificarsi. Così è soprattutto per l’identità di posizioni sindacali che esprimono, per il frequente scambio dei componenti (che passano a turno dall’uno all’altro), per il comune tipo di confronto che essi sostengono nei riguardi dei lavoratori riuniti in assemblea (ormai largamente sostitutivo di quello con gli iscritti). Se è vero che una simile stretta connessione fra gruppo sindacale e CI viene spesso giustificata dagli intervistati adducendo i privilegi istituzionali derivanti a quest’ultima dalla sua posizione ufficiale e quindi la opportunità di servirsene come strumento, le motivazioni non si fermano quasi mai a tale aspetto contingente del problema, ma esprimono, più o meno consapevolmente, una sua valutazione diversa da quella usuale alla tradizione, specie della CISL.
{p. 155}Non a caso il tema della definizione istituzionale dei rapporti fra i due organismi e dei compiti reciproci è non solo largamente sottovalutato [77]
, ma viene sovente assorbito nel tema più generale dei rapporti fra gruppo sindacale, di cui la CI è vista come espressione ufficiale verso la controparte e la generalità dei lavoratori, che si percepisce ormai sempre più chiaramente quale unico termine di riferimento e di verifica per ogni forma sindacale organizzata in azienda. Lo stesso frequente riconoscimento della opportunità di superare nel prossimo futuro la Commissione interna, soprattutto per la sua scarsa democraticità intrinseca, è di norma inserito in questa prospettiva, che implica — come avvertono i più consapevoli — un analogo superamento della formula associativa delle SAS.
Analoga deviazione dagli schemi previsti dal modello associativo si riscontra considerando i rapporti dei gruppi in esame sia con gli altri direttivi sindacali esistenti in azienda sia con le nuove forme organizzative, in particolare con le assemblee generali e di reparto.
Le aziende qui considerate sono fra quelle in cui l’uso dell’assemblea si è affermato per primo, già nel 1968, e si è maggiormente consolidato (anche per l’alta conflittualità esistente), estendendosi a tutte le più rilevanti questioni di politica rivendicativa. Parimenti intensa appare la pratica dei rapporti unitari fra le varie organizzazioni sindacali, che supera la mera prassi degli incontri sporadici, in ciò facilitata da un notevole e omogeneo grado di sviluppo, {p. 156}soprattutto dei gruppi della FIM e della FIOM [78]
. Pur non giungendosi ancora a una fusione formalizzata fra i direttivi, i rapporti si fanno così continui che le maggiori iniziative sindacali, specie nei momenti di lotta, appaiono sempre più chiaramente fare capo a un unico centro organizzato, sia pure informale [79]
, che non rispetta più stabilmente i limiti del singolo gruppo, né sovente della stessa affiliazione sindacale, comprendendo anche soggetti (sia pure non numerosi) privi di particolare esperienza associativa e impostisi nel corso delle azioni rivendicative.
È questo nuovo raggruppamento, dai confini difficilmente distinguibili, ove confluiscono soggetti con provenienze e ruoli diversi (CI, SAS e altri), che si presenta a confronto con l’assemblea, e tende a realizzare nei suoi riguardi quella funzione di polo dialettico e di egemonia che nella normalità dei casi è mancata ai singoli gruppi sindacali per la loro intrinseca debolezza, venendo meno in assoluto o rimanendo confinata agli agenti tradizionali. Inversamente, dal confronto con il movimento assembleare lo stesso gruppo trae la verifica delle proprie iniziative e il punto di appoggio non solo rispetto all’azienda, ma anche alle strutture sindacali esterne, con il conseguente consolidamento delle proprie posizioni e un rafforzamento della legittimazione spettante ai singoli in quanto membri di CI o di altri organismi riconosciuti. In definitiva, i tratti caratteristici delle fattispecie considerate, e le stesse ragioni del loro successo, lungi dal confermare l’ipotesi rigorosamente associativa su cui si è basata tipicamente la politica sindacale in azienda, si fondano sul superamento dei suoi presupposti, sia per un’apertura dei diversi gruppi sindacali fra di loro, sia per la ricerca di rapporti nuovi {p. 157}con forme organizzative dei lavoratori sconosciute alla tradizione (come l’assemblea) o quanto meno sospette di eterodossia sindacale (come la CI).
Connettendo le indicazioni desumibili da queste ultime ipotesi con i rilievi già svolti circa l’esperienza comune a tutte le altre sezioni ne può venire un motivo ulteriore di riflessione per il problema qui considerato. Là si indicavano nella scarsa vitalità associativa e nella tradizionale carenza di poteri di questi gruppi i motivi endemici della loro debolezza e della stessa impossibilità di reagire positivamente di fronte alle nuove esperienze unitarie di lotta, nonostante la sensibilità dimostrata al riguardo dai sindacati interessati. Dalle fattispecie appena discusse risulta che le strutture sindacali più attive fra quelle esaminate e le uniche che abbiano saputo inserirsi con una funzione positiva nella direzione dell’attività rivendicativa aziendale hanno recuperato questa funzione andando decisamente oltre i limiti del singolo gruppo, se non negando sé stesse, certo assumendo forme non paragonabili a quelle tradizionali di chiusi organi direttivi di un’associazione o di meri tramiti di collegamento di un’associazione superiore. È vero che il periodo prescelto dall’indagine presenta diversi aspetti di eccezionalità, in larga misura difficili da verificare e comunque eccedenti l’ambito sindacale in senso stretto. Inoltre nelle ipotesi analizzate possono aver influito elementi esterni alla dinamica degli stessi gruppi non rilevabili con la presente ricerca [80]
. Per cui sarebbe scorretto trarre indicazioni assolute dalle osservazioni qui sviluppate e voler porre nessi univoci di causa ed effetto fra i vari fenomeni. Tuttavia il diverso svolgimento dei due tipi di esperienze non sembra potersi accantonare come mera coincidenza e pare invece indicare proprio nelle {p. 158}caratteristiche del secondo gruppo di casi le condizioni indispensabili, se non sufficienti, per il loro successo, fornendo così un suggerimento per le future politiche organizzative sindacali. Simile valutazione può trovare conferma negli stessi dati generali sopra ricordati sulle aziende in esame, che le qualificano per tratti strutturali, quali la grande dimensione dell’unità produttiva, il maggior grado di conflittualità, di attività contrattuale, di pratica assembleare e non necessariamente per un più alto tasso di sindacalizzazione formale e per una maggiore forza associativa della FIM.
In particolare, le indicazioni ora fornite sembrano mettere in evidenza in modo esemplare le difficoltà di rendere vitale un gruppo sindacale in azienda alimendolo solo di motivi interni a se stesso o non verificati con la generale realtà conflittuale dell’azienda e con forme organizzative più elementari ma più direttamente connesse con questa. Tanto più che simili indicazioni sembrano cogliersi — come si diceva — anche in altre strutture lato sensu associative della nostra società, la cui esperienza recente è ben più chiaramente fallimentare di quella in esame, dimostrando scarse possibilità di ripresa. Se questi rilievi sono esatti, si può inversamente ipotizzare che sulla impasse storica dell’istituto in esame abbia influito pesantemente, oltre ai due elementi sopra indicati, anche la tradizionale interpretazione restrittiva del suo carattere associativo, incline a sottovalutare in pratica la necessità di una sua apertura dinamica nei confronti della generalità dei lavoratori e delle loro (eventuali) forme organizzative e per altro verso incline a contrapporlo troppo drasticamente alla stessa Commissione interna. Una simile interpretazione, originaria della CISL ma praticata di fatto largamente anche dalla CGIL, si è dimostrata tanto più grave a {p. 159}livello d’azienda, ove il confronto fra nucleo organizzato e movimento poteva instaurarsi immediatamente e fornire gli stimoli più diretti alla stessa azione associativa ed esterna dei gruppi sindacali. Il suo peso frenante — rimasto inavvertito per anni — doveva divenire chiaro di fronte all’inatteso diffondersi delle nuove esperienze unitarie di lotta e alla manifesta incapacità di reagire dimostrata dalle fragili strutture sindacali aziendali, non ancora collaudate. Così gli eventi che potevano contribuire finalmente in modo decisivo al consolidamento di queste, si sono risolti in un ulteriore elemento di contraddizione o addirittura in una possibile occasione del loro definitivo superamento.
A ben vedere lo scarso dinamismo democratico dimostrato dalla maggioranza di questi organismi sindacali di base, in particolare nel loro momento assembleare, conferma più in generale le osservazioni già avanzare in sede di ricostruzione storica, circa il significato effettivamente assunto dalla formula associativa sindacale. Nel suo modo concreto di funzionare essa ha manifestato non solo precarie capacità di aprirsi all’esterno verso la generalità dei lavoratori, ma una sostanziale tendenza a chiudersi in modo oligarchico rispetto alla stessa maggioranza degli iscritti, di fatto non partecipi alle decisioni associative a cominciare dall’unico luogo in cui ciò era direttamente possibile. Cosicché il carattere di gruppo omogeneo che partecipa al raggiungimento di obiettivi scelti e perseguiti in comune (tipico del modello associativo e ritenuto fondamento della sua superiorità su altre forme organizzative) appare propriamente riferibile solo a una minoranza di quadri o a un’élite sindacale. Se non si supera nei fatti questa impasse la proposta associativa perde il valore democratico di cui può essere portatrice, per fungere da mera copertura ideologica o da strumento di controllo di un sindacato-istituzione nei riguardi della sua base. La soluzione non è di negare in modo velleitario qualsiasi distinzione fra momento organizzativo ed iniziative spontanee ed indifferenziate dei lavoratori, ma di esperimentare nuove forme organizzative e politiche che esprimano
{p. 160}correttamente queste ultime senza mortificarle e senza riprodurre «l’elemento tradizionale della separazione, nel momento delle decisioni, fra sindacato e lavoratori» [81]
. È il problema di sempre, ripropostosi nel periodo in esame all’attenzione del movimento sindacale in termini rinnovati e con l’effetto di rimettere in discussione le linee programmatiche di fondo della sua politica organizzativa in azienda. Gli sviluppi di questa discussione in rapporto agli avvenimenti immediatamente successivi esulano dall’impegno della presente indagine e non potranno essere adeguatamente considerati. Si tratta del resto di elementi di fatto caratterizzati tuttora da ampi margini di incertezza, al cui riguardo occorre procedere con particolare cautela e con analisi molto diffuse se non si vuole incorrere in arbitrarie generalizzazioni. Le osservazioni che seguono si limiteranno pertanto ad accennare alcune linee di tendenze e possibili ipotesi evolutive, anche alla stregua delle indicazioni emerse dall’esperienza più direttamente valutata.
Note
[77] Ciò non significa che non si vedano i possibili aspetti ambigui della situazione così configurata, in particolare per la posizione di rilievo di cui beneficia la CI di fronte ai lavoratori, quale unico interlocutore riconosciuto in azienda. Né mancano anche qui episodi che comprovano come questa posizione abbia ancora un significato politico difficilmente neutralizzabile dal gruppo direttivo sindacale, pur sempre privo di ufficialità e poco noto come tale ai lavoratori. Si menzionano anzi in proposito due-tre casi, risalenti peraltro a qualche anno addietro, in cui il gruppo è entrato in grave contrasto con alcuni membri di CI, riuscendo con l’appoggio del sindacato provinciale a risolverlo a proprio favore e a cambiare l’indirizzo dell’istituto. In definitiva, si avverte il carattere provvisorio dell’assetto esistente e si riconosce l’esigenza di una più specifica qualificazione anche formale della organizzazione sindacale in azienda, peraltro in un quadro che si intuisce necessariamente mutato.
[78] Anche per questi profili la conclusione risulta da tutti gli indici quantitativi, sopra riportati in generale, circa la frequenza e le modalità dell’impiego dell’assemblea e della pratica unitaria, che nei casi in esame sono sempre fra i più qualificanti (vedi note 47, 51, 52, 55).
[79] Anzi per certe iniziative tale nuovo raggruppamento risulta talora essersi dato, anche qui al di fuori di ogni delibera formale, una embrionale struttura di coordinamento (comitato o simili) al fine di rispondere meglio alle esigenze della propria azione.
[80] Sulla natura e sugli effetti dei molteplici fattori che possono influenzare il tipo di conflittualità e il comportamento sindacale in azienda non esistono approfonditi tentativi di verifica da parte della nostra dottrina. Le prime ipotesi di una ricerca in questo ambito sono state presentate nella relazione di Pizzorno al seminario di Ancona su I sindacati nella economia e nella società italiana, cit. Vedi anche, per un profilo particolare e prevalentemente sotto l’aspetto teorico, il saggio di Baglioni, Rapporto fra livelli di contrattazione e grado di sindacalizzazione dei lavoratori, in «Studi di sociologia», 1963, n. 1, pp. 51 sgg. Fra i fattori considerati da Pizzorno almeno due sono largamente omogenei nelle fattispecie qui discusse: l’influsso derivante dal generale rinnovo culturale della società civile nel periodo in esame, e il grado di presenza dei sindacati ufficiali all’interno delle aziende. Più eterogenea invece la struttura produttiva delle stesse imprese e la composizione della loro forza lavoro, dato che esse rappresentano tutti i settori della meccanica.
[81] Proprio il venir meno di questo elemento è visto da Ghezzi (Osservazioni sul metodo dell’indagine giuridica nel diritto sindacale, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1970, p. 429) come uno dei punti centrali di novità introdotti dalle nuove forme di democrazia diretta e dal loro riconoscimento da parte delle organizzazioni sindacali.