Tiziano Treu
Sindacato e rappresentanze aziendali
DOI: 10.1401/9788815412324/c3
In seguito a una simile situazione viene a mancare nella grandissima maggioranza di ipotesi qualsiasi imputazione preventiva, o comunque fissa, di spese o di entrate alle diverse sezioni, cosicché non è possibile verificare in concreto un’effettiva distinzione di patrimoni. Negli stessi casi, infine, è difficile accertare anche solo l’esistenza di un potere dei gruppi interessati di disporre di una parte definita, o comunque garantita in modo sicuro, del fondo comune, che sarebbe segno sufficiente di autonomia patrimoniale [27]
, in quanto quasi tutte le iniziative esterne
{p. 115}sindacali che possono richiedere impegni patrimoniali sono direttamente assunte dagli organi delle associazioni superiori. In sostanza, la partecipazione dei gruppi aziendali all’attività finanziaria è tale da non offrire alcun indice sicuro di individualità associativa, ma da fornire piuttosto prove in senso contrario. Essa rispecchia la persistenza del tradizionale stato di totale dipendenza dell’istituto dalle organizzazioni territoriali: il che costituisce, per evidenti ragioni, un primo pesante condizionamento rispetto alle sue prospettive di autonomia funzionale e politica.
Tale condizionamento non si esprime tanto nella impossibilità di svolgere singole attività specifiche (ad esempio, di propaganda o di informazione), per cui la dipendenza dal sindacato provinciale non ha particolare significato, quanto nella necessità, esplicitamente lamentata da alcuni, di dipendere da questo per l’organizzazione a pieno tempo, o comunque professionale, dell’attività sindacale in azienda. A parte certi membri di CI, questa prerogativa è propria solo dell’operatore sindacale, che viene retribuito e quindi dipende dal sindacato provinciale. Va semmai rilevato, ed è pure significativo, che in qualche caso le sezioni sindacali più consistenti sul piano numerico e organizzativo (le stesse già più volte ricordate) cercano di finanziarsi al di fuori degli schemi statutari, ricorrendo a {p. 116}sottoscrizioni o a contributi supplementari direttamente richiesti ai propri soci e riuscendo in tal modo a fare fronte ad alcune attività da esse autonomamente intraprese (di solito attività formative, ricreative o assistenziali, peraltro alquanto modeste) [28]
.

4. Scarsa partecipazione degli iscritti e limitato uso dell’assemblea.

Un elemento decisivo per la effettiva configurazione dei gruppi aziendali in esame si ottiene spostando l’attenzione alle espressioni politicamente più significative della loro attività interna, cioè al funzionamento dei diversi organi sociali. È a questo proposito che i risultati emersi dalla ricerca, indicano la più marcata discrepanza fra il modello normativo sopra indicato e la sua attuazione nella prassi associativa. Il dato più rilevante, spesso sottolineato come tale dagli stessi intervistati, riguarda la scarsissima vitalità dimostrata dall’assemblea degli iscritti. Si tratta naturalmente di un dato nient’affatto esclusivo ai gruppi in esame, né al sindacato in generale, che anzi esso riflette una situazione largamente diffusa in quasi tutto l’ambito delle associazioni, segno forse di una tendenziale caduta del loro dinamismo interno. Ma nelle fattispecie considerate esso presenta sviluppi di particolare rilievo che toccano in radice il senso stesso della presenza sindacale in azienda, comportando implicazioni anche su tutta l’azione sindacale esterna e sui suoi modelli di evoluzione.{p. 117}
Nella quasi totalità dei casi presi in esame si può dire che il funzionamento di questa assemblea è tale da vanificarne la caratteristica tipica di organo di base dell’associazione. Anzitutto la partecipazione dei soci alle sue riunioni è sempre estremamente ridotta, sia in termini relativi (con percentuali quasi sempre inferiori al 10%, persino nelle piccole sezioni), sia in numero assoluto [29]
. Tale numero rimane alquanto modesto (misurabile in poche decine) anche in sezioni molto attive nella loro azione rivendicativa esterna e i cui iscritti si contano a diverse centinaia o addirittura a migliaia. Né sulla entità della partecipazione sembrano influire in misura rilevante il tipo e l’importanza degli argomenti trattati; tanto è vero che un andamento non dissimile di presenza si verifica anche nei momenti più significativi dell’attività esterna del gruppo, quali, ad esempio, la definizione delle linee rivendicative in occasione dei rinnovi contrattuali aziendali o nazionali, e della vita associativa interna, come in particolare il rinnovo delle cariche sociali, e l’elezione dei delegati ai congressi provinciali. A questo depotenziamento quantitativo dello strumento assembleare tende anzi a fare riscontro un progressivo abbandono degli stessi tentativi di ricorrere ad esso. Le modalità di convocazione dell’organo assem{p. 118}bleare sono talmente sommarie e informali, o lo sono diventate, da perdere ogni efficacia di mobilitazione o anche solo di pubblicità nei riguardi della generalità dei lavoratori interessati [30]
. Di conseguenza le riunioni che ne derivano non risultano, nella normalità dei casi, distinguibili in modo apprezzabile da quelle di un organo direttivo allargato, o addirittura di un gruppo dirigente informale, cui manca qualsiasi effettiva apertura alla totalità degli iscritti. Le uniche che fanno eccezione a tale regola e possono propriamente configurarsi con i caratteri dell’assemblea (peraltro anche qui più per la pubblicità che per l’effettiva partecipazione) finiscono per ridursi alle occasioni sopra ricordate; anzi ai soli rinnovi delle cariche sociali, dato il crescente ruolo assunto in materia contrattuale dalle assemblee generali dei lavoratori. Anche in questo caso tuttavia la frequenza nella convocazione dell’assemblea non rispetta quasi mai le scadenze previste dalla disciplina formale del gruppo. Cosicché gli organi direttivi rimangono in carica per periodi più lunghi di quello {p. 119}annuale fissato dal regolamento nazionale (anche due o tre anni).
Una simile prassi è pure qui tanto largamente acquisita che lo stesso termine risulta espressamente modificato in biennale da alcune previsioni regolamentari provinciali e di sezione (senza dire che esso è sovente ignorato da larga parte degli intervistati) [31]
.
Nel tentativo di reagire a questa pressoché totale assenza di contatto con gli iscritti si è andato sempre più diffondendo negli ultimi tempi, specie in aziende di grandi dimensioni, un sistema di partecipazione dei soci a certe decisioni associative, di tipo elettorale, variamente organizzato. Di solito esso si realizza con la predisposizione di urne aperte in cui gli iscritti possono votare per un periodo di tempo di diversa lunghezza (senza presenziare all’assemblea) o anche ammettendo la votazione per corrispondenza [32]
.
L’impiego di questi sistemi, anch’essi non affatto limitati ai gruppi sindacali, trova il suo ambito originario nella elezione dei delegati ai congressi provinciali di ca
{p. 120}tegoria ricorrenti a scadenze pluriennali (nelle ipotesi in esame si tratta essenzialmente degli ultimi congressi del 1969). Nella maggioranza dei casi, peraltro, l’occasione dei precongressi aziendali ove si eleggono tali delegati, coincide con l’elezione del direttivo della sezione, che di conseguenza risulta attuata nella stessa forma. Si è ottenuto così di allargare la possibilità di intervento in tali scelte a un numero di soci maggiore degli usuali partecipanti alle assemblee, specialmente fra i soggetti (turnisti, pendolari, donne) più difficilmente disponibili a quest’ultime, ampliando indubbiamente la rappresentatività sia degli organi della sezione sia degli stessi congressi provinciali. Si noti che secondo la prassi tradizionale, tuttora diffusa, la scelta dei delegati al congresso risultava spesso attuata da poche decine di persone per ogni zona, data la scarsa funzionalità delle stesse strutture sindacali zonali [33]
. Ma i limiti della soluzione così adottata sono del pari evidenti. A parte lo scarso collaudo che essa ha potuto avere, per {p. 121}la sua introduzione recente e per gli eventi sopravvenuti che potrebbero essere tali da impedirne la ripetizione, già sotto il profilo quantitativo della partecipazione l’impiego dello strumento elettorale, pur cospicuo, non raggiunge di solito una mobilitazione generale degli iscritti alla sezione o anche solo una percentuale di lavoratori vicina a quelle pressoché plebiscitarie riscontrate nelle elezioni delle commissioni interne. Solo in quattro casi si registrano percentuali di votanti di questa grandezza (fino all’80-90%), ma nella media degli altri (circa 10) non si va oltre il 20-40% degli iscritti [34]
. Quanto alle decisioni per cui l’impiego si è verificato, è significativo che esso sia sorto in funzione della nomina dei delegati al congresso provinciale. Questa rappresenta un’occasione pur importante, ma fra le più episodiche di partecipazione associativa, e soprattutto strumentale all’efficienza della rappresentanza sindacale territoriale, che rivela così ancora una volta la sua posizione di preminente consistenza. In sostanza, con essa si realizza una funzione simile a quella attuata in un’assemblea parziale di un’unica associazione più vasta (appunto quella territoriale), piuttosto che un procedimento formativo di volontà di un’associazione autonoma.
Note
[27] Che questo sia il requisito minimo sufficiente, ma anche necessario, per affermare l’autonomia associativa di ogni gruppo, si intende facilmente se si considera — con l’opinione prevalente — che il patrimonio è posto dal nostro ordinamento come requisito essenziale delle associazioni non riconosciute, in quanto strumentale alla loro vitalità e alla capacità di perseguire i loro fini. In tale prospettiva non è richiesto che il gruppo abbia un fondo proprio (cioè in proprietà), potendo beneficiare anche di fondi altrui, purché però la disponibilità di tali mezzi, per i suoi caratteri di stabilità, di non revocabilità, e in genere per le modalità concrete del suo esplicarsi, sia garantita al gruppo in modo certo, oltre che quantitativamente sufficiente. Ma la conclusione non sarebbe probabilmente diversa, ove si ritenesse che il fondo comune è richiesto nelle associazioni non riconosciute come garanzia dei creditori sociali. Nel caso in esame, la disponibilità di cui si è fatto cenno non è esclusa in principio, potendosi ritenere che i sindacati provinciali siano comunque vincolati con le norme sopra menzionate a garantire ai gruppi aziendali il minimo indispensabile al loro funzionamento. Ma la totale confusione dei patrimoni e la esclusiva iniziativa delle associazioni territoriali in materia patrimoniale rendono precaria tale affermazione e comunque la privano di concreto valore qualificatorio. Per maggiori ragguagli sul problema e per una verifica del suo significato pratico in relazione a diverse strutture sindacali, in particolare ai sindacati divisi in «settori», vedi il mio L’organizzazione sindacale, I, cit., pp. 105 sgg., 173 sgg.
[28] Per le sezioni numericamente più consistenti e più attive lo stesso impegno finanziario del sindacato provinciale è nettamente maggiore della media. Paradigmatico, ad esempio, a Milano il caso delle sezioni dell’Alfa Romeo, che hanno tradizionalmente goduto di quote o contributi straordinari ben superiori a quelli usuali. Secondo le norme sopra ricordate, a tali sezioni avrebbero dovuto spettare L. 1.140.000 annue che, per un insieme di 2850 iscritti, permettono poco più che spese di ordinaria amministrazione (volantini, giornali ecc.). Ed è proprio nelle medesime sezioni (particolarmente di Milano) che il problema dell’autonomia finanziaria appare percepito con coscienza più viva e si pone realisticamente con maggiore immediatezza (anche se da tutti si denuncia genericamente la necessità di maggiore ampiezza di fondi). In alcune di esse (Alfa Romeo, Siemens ecc.) la prospettiva di rendere più consistente la propria autonomia è avvertita dagli intervistati fino al punto di ipotizzare un auto-finanziamento, da parte di una o più sezioni riunite (nella zona), degli operatori sindacali (a pieno tempo o a tempo parziale). Questi potrebbero così essere direttamente ed esclusivamente collegati alle aziende per cui agiscono e non al sindacato provinciale (di cui costituiscono un essenziale centro di potere). Il problema si pone in termini diversi a Treviso, data l’influenza ben più decisiva che le aziende esaminate esercitano sullo stesso sindacato provinciale.
[29] La frequenza usuale oscilla sulle 20-30 persone, secondo una media largamente costante in quasi tutte le aziende. In poche sezioni (non più di 6), fra le più attive e numerose, si riscontrano assemblee con la presenza di 60-100 soci, ma anche qui limitatamente ai rinnovi delle cariche o in occasione di dibattiti contrattuali di particolare rilievo. Vedi, ad esempio, la prassi della Innocenti (1175 iscritti nel 1969), ove è tradizionale lo svolgimento, con partecipazione consistente, di due convegni-assemblee annuali, uno organizzativo e uno sindacale, il primo per eleggere il direttivo della SAS, il secondo prima delle elezioni della Commissione interna o a fini contrattuali.
[30] Le possibilità di raggiungere efficacemente tutti i soci in queste (e in altre) occasioni sono rese precarie, oltre che in molti casi dai fattori ambientali esterni (più avanti indicati), dalla tradizionale mancanza di accesso della SAS all’interno dell’azienda (conseguente al suo non riconoscimento), che rende meno utilizzabili anche mezzi di comunicazione relativamente agevoli, come avvisi murali e simili. Solo in due e tre casi risulta che la sezione si sia potuta riunire sfruttando di fatto i locali della commissione interna, mentre nelle restanti ipotesi le riunioni avvengono nelle sedi sindacali di zona. Le forme normali di contatto con tutti i soci restano quindi, oltre alle comunicazioni personali, valide solo in gruppi ristretti, i volantini, i giornali di fabbrica (ove esistono: vedi nota 61) e gli avvisi distribuiti tramite la posta. Questi ultimi risultano usati a fini di convocazione assembleare, ma dato il loro costo, solo per le assemblee annuali più importanti sopra ricordate. Di qui la difficoltà di superare lo stato di «semiclandestinità» della sezione sindacale nei riguardi dei soci e tanto più degli altri lavoratori. Sotto questo profilo la situazione appare sostanzialmente cambiata a partire dalla fine del 1969 con il riconoscimento, prima in via contrattuale, poi nella legge 20-5-1970, n. 300 (statuto dei lavoratori), di più ampi diritti di diffusione della stampa sindacale in azienda, e soprattutto della possibilità per le organizzazioni sindacali aziendali di riunirsi in locali messi a disposizione dell’azienda (vedi art. 18 parte comune c.c n.l. per l’industria metalmeccanica a partecipazione statale, e poi artt.. 25, 27 della legge n. 300). Su questi punti vedi anche oltre al n. 2 del cap. IV.
[31] Per una simile modifica vedi l’art. 10 della sezione dell’Alfa Romeo e l’art. 1 del regolamento per l’elezione delle SAS della FIM provinciale di Brescia. In oltre la metà dei casi (17 aziende su 31 per cui si hanno dati), il direttivo esistente è indicato dagli intervistati come il primo formalmente eletto, o in assoluto o dopo precedenti tentativi, risalenti però all’inizio degli anni ’60 (e di esso non si è avuto ancora modo di operare il rinnovo). In altre 6 ipotesi il numero dei soci attivi è così ridotto e le attività svolte così semplici e informali che non si è avuta neppure elezione del direttivo. Viene meno il requisito minimo considerato necessario, anche nelle stime ufficiali dei sindacati (invero spesso approssimative), per ritenere la SAS formalmente costituita. Cfr. questi dati con quelli esposti nella ricerca condotta a cura dell’Unione CISL di Milano, cit., secondo cui delle 48 sezioni sindacali risultate esistenti nel 1967, 33 sarebbero state formalmente elette e 15 costituite solo di fatto. Il campione non era peraltro selezionato con il criterio qui seguito di scegliere programmaticamente le sezioni più sviluppate. Secondo i dati riportati nella relazione, La politica organizzativa, al VI Congresso provinciale della FIM milanese (gennaio 1969), su 83 aziende oltre i 400 dipendenti ove la FIM è presente, esisterebbero 44 sezioni funzionanti, di cui 22 formalmente costituite (n. 7, p. 19). Va comunque sottolineato che la differenza sostanziale fra i due gruppi di casi, già di per sé non sempre chiaramente definibile, tende ad annullarsi in presenza di scarsa partecipazione dei soci all’elezione e alle assemblee (vedi oltre).
[32] Un simile sistema risulta usato in 14 delle sezioni considerate.
[33] La competenza delle zone ad organizzare assemblee precongressuali, prevista dai regolamenti provinciali sussidiariamente alle SAS, è largamente esercitata. L’esigenza di sviluppare la zona come fondamentale struttura intermedia fra le sezioni e il sindacato provinciale si è andata sempre più concretando nelle politiche organizzative dei sindacati in esame; specie di quello di Milano, ove la dimensione dell’organizzazione provinciale rende particolarmente necessaria la presenza di sedi più circoscritte di coordinamento fra le SAS e di decentramento di funzioni ora proprie del livello provinciale (vedi, in proposito, la relazione sulla Politica organizzativa, al VI Congresso provinciale, cit., n. 6, pp. 17 sg.). In una simile prospettiva, che appare largamente condivisa da quasi tutti gli intervistati, rientra, ad esempio, il rafforzamento dell’autonomia finanziaria di questa struttura, il riconoscimento alla stessa della possibilità di eleggere rappresentanti nel direttivo provinciale, l’inserimento in questo organo, con voto consultivo, di 10 persone elette da ciascuna zona, con il prevalente fine di farle beneficiare dei permessi contrattualmente stabiliti. Nonostante la ricerca non sia diretta espressamente su questo punto, il funzionamento effettivo delle zone appare alquanto ineguale. Piuttosto scarso a Treviso e a Brescia (pur essendo anche qui avviato), sembra sufficientemente sviluppato in 3 zone milanesi (su 6 considerate), con elezioni regolari biennali del consiglio di zona, riunioni frequenti dello stesso e consistente attività, specie organizzativa, di informazione e di coordinamento. La struttura appare peraltro destinata a progredire più rapidamente in relazione al diffondersi della sindacalizzazione e alle nuove esigenze di coordinamento fra i consigli di fabbrica (vedi oltre il par. 3 del cap. IV).
[34] I massimi assoluti di partecipazione sono raggiunti in un’azienda di Treviso e in alcune (5) di Brescia, ove il numero di votanti ammonta a diverse centinaia.