Marina Calloni (a cura di)
Pandemocrazia
DOI: 10.1401/9788815411297/c4
Proprio l’accordo della comunità su dati, definizioni e quelle «verità» che il metodo scientifico consente, è stato durante le fasi acute della pandemia uno dei punti più deboli della presenza, e talvolta della sovraesposizione, degli scienziati nei media e in dialogo con altri settori della società, in particolare quelli che negavano [8]
, per i più {p. 97}svariati motivi, il fatto scientifico. La descrizione dei fatti è così crucialmente vicina alla prescrizione di una politica, al punto che sono stati proprio gli stessi fatti a essere messi in dubbio. A questa strategia lo scienziato comunicatore non è stato pronto a sottrarsi. La strategia che ha messo in crisi una comunicazione non solida e istituzionale, molto usata in occasione di questa pandemia (ma anche in altri campi, dal cambiamento climatico alle biotecnologie), è stata di fare come se le prove non fossero definitive o come se la comunità scientifica fosse frammentata e in disaccordo dinanzi a esse, e neanche i comunicati di autorità garanti come l’Ema o l’Aifa sono riusciti a equilibrare il dibattito agli occhi dell’opinione pubblica [Latour 2020]. L’assenza di alcune certezze scientifiche è stata costruita e strutturata ad hoc per diventare l’argomentazione principale nello scontro tra scienziati e altri esponenti della società nello scontro che ha accompagnato il tempo della pandemia aumentando paure e incertezze di grandi fette della cittadinanza, inducendola a credere che le questioni scientifiche non fossero risolte, e foraggiando l’espandersi della relativa infodemia. L’utilizzo della posizione epistemologica per distruggere l’autorità della risposta scientifica rispetto a un problema che riguardava l’intera società ha minato anche la reputazione degli scienziati al di sopra delle parti, mostrandoli come schierati, militanti, in difesa di posizioni personali se non addirittura di lobby di potere e affiliati a grandi gruppi economici. Il principio di autorità sommato al ribaltamento dell’epistemologia ordinaria ha sgretolato la credibilità della comunità scientifica mostrandola come la giustapposizione di singole unità indipendenti, rendendo di fatto lo scienziato isolato e spogliandolo dalla protezione che offre solo la compattezza di appartenere a una comunità solida con un metodo in grado di essere esso stesso l’antidoto agli errori che inevitabilmente il percorso di ricerca incontra. La scienza e le sue conseguenze nascono collettivamente all’interno della comunità scientifica che le convalida, fino a prova contraria. Il singolo scienziato non necessariamente ha il quadro corretto e completo dello stato dell’arte di una data situazione, ed è estremamente probabile che nessuno
{p. 98}scienziato sia concorde con la comunità scientifica su ogni possibile argomento. La migliore approssimazione che si ha su un tema scientifico è proprio quello su cui in media la comunità concorda. Questa frammentazione ha, tra l’altro, lasciato spazio alle possibili vanità, emozioni e tentazioni di protagonismo che i meccanismi dei social media e dell’attuale struttura dei talk show generalisti inevitabilmente innescano.
La mediatizzazione ha portato al paradosso della creazione dello «scienziato-star» distruggendo di fatto ogni possibile fiducia nella competenza. Una sovraesposizione che si è tradotta in screditamento e nel venir meno della mediazione: il pubblico di non esperti si è ritrovato smarrito, disorientato e impaurito, con spesso un inevitabile quanto comprensibile rifiuto verso «gli esperti». Da un lato lo scienziato in veste di comunicatore è risultato incapace di prendere le distanze da una politica che utilizzandolo come alfiere nei momenti più drammatici si è sottratta al suo ruolo, primario ed esclusivo, di decisore; dall’altro è caduto nella trappola di chi ha sostenuto che «i fatti non esistono» e su questo ha ingaggiato una battaglia perdente dagli inevitabili riflessi personalistici. Pur agendo in buona fede, come portavoce (ma anche semplificatore di concetti e messaggi) di enti, istituzioni e accademie, lo scienziato comunicatore di fatto non è riuscito a fare da mediatore tra settori della società che hanno competenze e linguaggi inevitabilmente differenti. Tutto ciò è avvenuto nonostante l’attuale contesto socioculturale sia molto dinamico, ricettivo e ricco di offerte, con festival scientifici, trasmissioni a tema, notti dei ricercatori, mostre, installazioni, open day dei laboratori in grado di animare e incuriosire il pubblico dei non-esperti. Queste attività, caratterizzanti l’era post-accademica dell’istituzione sociale scienza in cui viviamo, hanno certamente agito da contraltare, bilanciando le negatività appena messe in luce e rafforzando le caratteristiche rassicuranti dello scienziato, nella sua veste di scienziato comunicatore, favorendo l’incontro tra scienziati e cittadini, rispondendo alle crescenti aspettative di dialogo che provengono dall’opinione pubblica, ma soprattutto rendendo il più chiaro possibile che quel consenso è qualcosa di più dell’opinione dei singoli ricercatori.{p. 99}
In tale scenario le competenze specifiche della comunicazione oltre che le conoscenze dei meccanismi interni della scienza, ma soprattutto la capacità di elaborare e trasferire contenuti e il consenso della comunità scientifica agli altri segmenti della società, nel dialogo con la politica diventano cruciali. Le debolezze che la pandemia ha messo in evidenza hanno mostrato la necessità della presenza di una quarta figura rispetto ai tre idealtipi sociali precedentemente introdotti: il mediatore della conoscenza. Una expertise, un ruolo nuovo e autonomo ma che, come per tutti gli altri, può essere rivestito e sovrapporsi a uno di quelli già individuati e descritti. Chi porterà avanti una mediazione tra settori diversi della società, che implicano competenze e caratteristiche differenti, si deve far carico di togliere qualsiasi spazio al dubbio sul consenso scientifico, alle contraddizioni, di ripulire la comunicazione istituzionale e quindi, in quanto tale, accreditata dalla politica, da ogni tentazione di paternalismo, dai desideri di messaggi didascalici o troppo semplicistici, dalla polarizzazione delle posizioni con toni inutilmente esacerbati, da ogni giudizio morale e da una visione autoritaria della scienza nella società, come è avvenuto proprio nel caso del Covid-19 e dei vaccini. Il fatto che una simile figura, in Italia, sia sostanzialmente assente o comunque troppo debole e poco considerata a livello istituzionale è uno dei motivi che hanno lasciato, più o meno ingenuamente, spazio a troppi scienziati ed esponenti del mondo accademico che si sono esposti indossando le vesti dei comunicatori, anche a causa dell’equivoco indotto dall’obbligo della cosiddetta «Terza missione» [9]
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La combinazione tra infodemia e pandemia ha puntato i riflettori su una realtà ricca di criticità già ben presenti in precedenza, con disinformazione e carenza di comunica{p. 100}zione istituzionale; d’altro canto potrebbe essere giunto il momento in cui una riflessione più approfondita e critica su questi temi porti a una maggiore considerazione delle varie proposte già avanzate e, sperabilmente, a un cambiamento operativo nei fatti all’interno delle istituzioni e della società.

4. Conclusioni

Quanto da noi raccolto ci consente di affermare che la comunicazione della scienza non possa più limitarsi alla circolazione delle questioni scientifiche che agitano il dibattito scientifico, ma deve comprendere anche il contenuto motivazionale e le prese di responsabilità degli scienziati di fronte alla comunità più generale. Occorre ripensare la preparazione sociologica, epistemologica e, dunque, comunicativa degli esperti in almeno due direzioni: distogliendo l’enfasi spesso eccessiva sui top scientists, i «geni» inarrivabili, su una scienza asettica e «angelicata» idealmente ottimizzabile per mezzo di algidi algoritmi in cui la peer review è concepita alla stregua della ordalia medievale; e prestando attenzione ai binari della semplificazione senza riduzioni improprie della complessità, e dell’opportuna revisione dei propri convincimenti alla luce dell’evidenza addotta dalle reazioni dei vari pubblici che si trovano ad affrontare la questione sotto ottiche differenti da chi produce i dati, li interpreta e ne fornisce una ricostruzione in sede teorica o di laboratorio, rischiando di perdere di vista le condizioni che si verificano nella realtà esterna. Infine, possiamo formulare due indicazioni (di cui si possono trovare tracce in Einstein [1933]; cfr. Cerroni [1999, § 5.3.1]). Primo: è opportuno semplificare il messaggio per quanto possibile, ma non di più, cioè non fino al punto di perdere il contenuto qualificante che si sa essere fondamentale per la comprensione del fenomeno e della dimensione del suo impatto reale. Secondo: per quanto possa essere complesso un argomento, se non si riesce a semplificarlo fino a essere compresi dai propri interlocutori, è opportuno rivedere daccapo l’argomento perché bisogna {p. 101}contemplare la possibilità di non averlo compreso a sufficienza, quantomeno nella sua rilevanza pubblica, se non anche nel merito scientifico il cui fondamento, come accennammo, si perde nella profondità della storia sociale della conoscenza e della divisione sociale del lavoro cognitivo. Quindi, è sempre opportuno riconsiderare le istanze sollevate dagli interlocutori, prendendole come «dati» da inserire entro la dimensione problemica che si sta affrontando. In questo modo nella comunicazione scientifica pubblica tutti apprendono: dunque è opportuno che ciascuno assuma la postura dell’ascolto e del (ri)apprendimento, anche il portatore della conoscenza più sofisticata, al fine di uno scambio che possa comportare un generalizzato cambio di opinioni pregresse in vista della formazione di un consenso ancorato nella situazione reale che si sta vivendo. Dunque, oltre alla responsabilità del comunicatore, si deve valutare l’opportunità metodologica della sua riflessività nel considerare il radicamento storico-sociocognitivo del punto di vista dell’esperto e metterlo in collegamento con quello del non esperto.
In conclusione, la triangolazione scienza-politica-società (o se si preferisce: scienziati-decisori-cittadini) può essere utilmente agevolata dalla presenza di mediatori della conoscenza professionisti. Di queste figure si può lamentare la quasi totale assenza durante la pandemia e a questa può imputarsi parte della confusione generatasi fra i cittadini e del conflitto a volte apertamente scatenato sui social media da prese di posizione improvvide da parte di scienziati catapultati al di fuori delle loro effettive competenze comunicative che hanno dato spazio a reazioni emotive ad ampio spettro, da posizioni «dietrologiche» e «complottiste», volte a distogliere le tensioni lontano dalla pandemia, fino a omologazioni esagerate e a comportamenti ossessivi, con esiti negativi probabilmente a lungo termine sulla socialità, particolarmente fra i più giovani e i più fragili. Nel contesto aperto dalla pandemia, qualsiasi progettualità del cambiamento non potrà esimersi dal problematizzare il rapporto tra cittadini ed esperti che, nella comunicazione pubblica e istituzionale, svolge un ruolo oggi più che mai cruciale nel processo democratico.{p. 102}
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Note
[8] A titolo di esempio, oltre a pareri più o meno autorevoli, voci in disaccordo, negazionisti di varia natura, si ricorda la «viralità» di casi come quello del «Non ce n’è Coviddi», e di come la stampa e i media hanno amplificato la loro portata facendo dibattere «Angela da Mondello» con esperti e decisori.
[9] Assieme a didattica e ricerca, la Terza missione dell’università consiste in quell’insieme di attività per la promozione, la condivisione e il trasferimento scientifico, tecnologico e culturale delle conoscenze, attraverso processi di interazione diretta tra università e società [Pellegrini 2016].