Marina Calloni (a cura di)
Pandemocrazia
DOI: 10.1401/9788815411297/c4
Frequenti sono i riferimenti a termini quali «ignoranza», «deficit cognitivo», «pregiudizi» che caratterizzano «buona parte» della cittadinanza. Le nozioni più elementari come «la differenza tra virus e batteri [o la] composizione della molecola dell’acqua non sembrano appartenere al patrimonio culturale comune condiviso» (G4.D2.1). Tra le possibili cause o fattori che influenzano la persistenza e la riproduzione di
{p. 93}tali non-conoscenze, vi sarebbero «la mancanza generalizzata di trasparenza, unita a uno stile comunicativo paternalistico/autoritario» (G1.D2.2) da parte di scienziati e divulgatori; il «clima medievale attualmente presente in Italia» (A4.D2.2) unito all’influenza della Chiesa, e a una «politica italiana [che] è stata profondamente antiscientifica, influenzando inevitabilmente le informazioni e gli investimenti fatti nel nostro Paese» (A6.D2.2). La dimensione politica dell’impresa scientifica è esplicitata in quanto la scienza è «uno dei poteri con cui il cittadino ha a che fare» (G2.D2.2).
L’appello a intervenire sulla scuola, rinforzando le «competenze scientifiche» e il «pensiero critico» è stato ampiamente dibattuto rilevando che il problema non consiste solo negli investimenti nella didattica di materie tecniche e scientifiche (la matematica in primis), ma soprattutto nello sviluppo di una educazione alla complessità.
Nelle società contemporanee dei Paesi sviluppati prevale il mito del «semplice e immediato» (quante volte nella pubblicità compaiono le parole: «facile, è un attimo, e non ci pensi più», ecc.) e del «divertente», non a caso anche la didattica si orienta sempre più a «imparare divertendosi». [...] L’economia politica (che comprende la microeconomia, la macroeconomia e la finanza) è una disciplina particolarmente ostica per molti studenti (soprattutto per quelli delle cosiddette facoltà umanistiche) perché è basata su una teoria che comprende un paradigma (che può essere definito il linguaggio comune agli economisti di tutte le scuole) basato sulla logica e molti teoremi che, per essere capiti e applicati o criticati correttamente, richiedono, al di là degli strumenti tecnici (matematica e statistica in particolare) molte competenze anche di tipo umanistico (storia, politica, arte, sociologia, psicologia) che potremmo definire di «cultura» (P1.D3.3).
Intervenire sulle nuove generazioni educando alla complessità (e non istruendo alla specializzazione fine a sé stessa), per quanto auspicabile, non mitiga quegli stessi atteggiamenti di fiducia fideistica o di sfiducia nella cittadinanza più adulta, basata essenzialmente sull’autorevolezza degli attori della comunicazione scientifica nel contesto mediatico-giornalistico. Gli scienziati impegnati nella co{p. 94}municazione del Covid-19 «ha[nno] perso credito quando i media hanno cominciato, con interviste o articoli, a porre l’accento sui litigi dei professori banalizzando o addirittura ignorando le motivazioni scientifiche del contendere. In sintesi: ha prevalso lo spettacolo» (P1.D3.3). Non è più sufficiente il possesso delle credenziali (di conoscenze e competenze specialistiche) per ottenere l’attenzione e la fiducia nel pubblico; si richiede, invece, una competenza comunicativa (o mediatica) per reggere il gioco della notizia, ovvero della notiziabilità e del profitto derivante. Però, anche così, «il cittadino comune non sa che pesci pigliare, i giornalisti inseguono la notizia invece della verità, oltre al fatto che anche la politica direziona l’informazione, lo vediamo con il Covid-19 e gli Ogm» (R4.D3.3). Allora la tentazione è di ripiegare nella comunicazione online, che però, rendendo più accessibile la conoscenza scientifica, presenta rischi relativi alla qualità e all’attendibilità, ma anche quello di aumentare lo stato di confusione e la percezione di incertezza generalizzata. «Voler comunicare per forza e a tutti i costi anche gli aspetti più complessi della ricerca [porta] le persone a interpretare concetti molto complessi in modo superficiale e quindi spesso anche a stravolgere completamente il senso che inizialmente aveva l’informazione che era stata divulgata» (R3.D3.3).
Dunque, che fare? Al quesito Cosa pensa che possano fare oggi le persone di scienza per evitare che il loro messaggio venga assoggettato alle regole della spettacolarizzazione, perdendo di autorevolezza ed efficacia? le risposte mostrano una generale convergenza nell’affrontare il problema attraverso l’apprendimento dei «basilari strumenti di comunicazione»: ciò è ritenuto «indispensabile per chi fa scienza e vuole comunicarla» (P1.D3.3). Tuttavia, tale preparazione, per quanto si sostenga che «nella deontologia professionale deve essere compresa la volontà di comunicare» (P1.D3.3), non è esente da slittamenti verso un professionalismo della comunicazione scientifica nel versante del marketing: «solo se sai vendere puoi far comprare, anche quando si parla di idee o ricerca» (R1.D3.3); o in quello della propaganda politica:{p. 95}
Penso che gli scienziati non debbano prendere esempio da alcuni nostri politici «ottimi» comunicatori [ma] devono essere consci della propria deontologia professionale (non fanno spettacolo e non sono mestieranti) ma non aspettarsi, per come vanno le cose, che senza empatia la loro conoscenza (che non è opinione, generalmente) venga rispettata e pertanto ascoltata. In sintesi: essere seri che non vuol dire seriosi ma neanche divertenti tout court (P1.D3.3).
Occorre inoltre «evidenziare che la scienza è in continua evoluzione e che sbagliare è parte del processo. Spiegare che proprio per questo ci sono regole da seguire e che i risultati scientifici si devono validare prima della pubblicazione» (R2.D3.3). Tuttavia, il percorso tracciato rimane condizionato da un sottostante approccio individualizzante, focalizzato sulle skills comunicative che il singolo deve acquisire per poter far breccia sul pubblico. Soluzioni individuali a problemi sistemici possono aggravare il divario di conoscenza e alimentare indirettamente il conflitto sociale tra esperti e cittadini. Più consapevole della complessità del tema è la proposta della «definizione di comitati scientifici: composti da scienziati, comunicatori e sociologi, che siano in grado di definire le modalità migliori per comunicare i risultati scientifici, potrebbero smorzare e limitare gli eventi di spettacolarizzazione e fraintendimento» (R4.D3.3). Tali comitati ponendosi a metà strada tra il mondo della ricerca, il mondo della discussione pubblica e quello della decisione politica «potrebbe[ro] rendere la conoscenza meno accessibile e più uniforme, limitando la natura stessa della scienza che è composta da molte sfaccettature e diversi punti di vista» (R4.D3.3).

3. Dall’esperto pubblico allo scienziato comunicatore: la mediazione mancata

Una volta esplorate le criticità del rapporto fra cittadini ed esperti, vogliamo ora mettere maggiormente a fuoco i ruoli dello scienziato comunicatore e dell’esperto come figure cruciali nel plesso pandemia-infodemia, illustrando {p. 96}una nuova potenziale configurazione alla luce di quanto raccolto dall’indagine empirica sopra esposta.
Non certo per la prima volta ma mai con tanta dirompente urgenza a causa di questa emergenza globale, lo scienziato è al centro dell’attenzione del decisore politico e del dibattito pubblico. Tale figura può essere definita come colui che all’interno di una comunità scientifica di riferimento individua un problema e attraverso un metodo accettato e definito produce dati, li interpreta e ricostruisce il fenomeno in studio. Lo scienziato è anche colui che, consapevole del proprio ruolo all’interno della società, sente una responsabilità pubblica e cerca di bilanciare le aspettative sociali con l’ethos scientifico, soppesando le proprie affermazioni quando chiamato a esprimersi di fronte a un pubblico di non esperti. Il lato interno, rivolto al proprio campo, e quello esterno, rivolto alla società nel suo complesso, convivono nell’habitus dello scienziato, sebbene negli scambi sociali possano verificarsi situazioni conflittuali a causa dello sfasamento strutturale tra la velocità del lavoro di ricerca e quella della comunicazione pubblica o con quelli della decisione politica. Tali conflitti accadono soprattutto quando media e politica assegnano allo scienziato il doppio ruolo di «esperto-e-comunicatore», sollevando altre figure professionali e istituzionali da uno dei principali e più faticosi compiti della comunicazione della scienza, ovvero riportare e riassumere, dopo aver compreso in profondità la complessità del fatto scientifico, il consenso o meno della comunità scientifica su un dato tema.
Proprio l’accordo della comunità su dati, definizioni e quelle «verità» che il metodo scientifico consente, è stato durante le fasi acute della pandemia uno dei punti più deboli della presenza, e talvolta della sovraesposizione, degli scienziati nei media e in dialogo con altri settori della società, in particolare quelli che negavano [8]
, per i più {p. 97}svariati motivi, il fatto scientifico. La descrizione dei fatti è così crucialmente vicina alla prescrizione di una politica, al punto che sono stati proprio gli stessi fatti a essere messi in dubbio. A questa strategia lo scienziato comunicatore non è stato pronto a sottrarsi. La strategia che ha messo in crisi una comunicazione non solida e istituzionale, molto usata in occasione di questa pandemia (ma anche in altri campi, dal cambiamento climatico alle biotecnologie), è stata di fare come se le prove non fossero definitive o come se la comunità scientifica fosse frammentata e in disaccordo dinanzi a esse, e neanche i comunicati di autorità garanti come l’Ema o l’Aifa sono riusciti a equilibrare il dibattito agli occhi dell’opinione pubblica [Latour 2020]. L’assenza di alcune certezze scientifiche è stata costruita e strutturata ad hoc per diventare l’argomentazione principale nello scontro tra scienziati e altri esponenti della società nello scontro che ha accompagnato il tempo della pandemia aumentando paure e incertezze di grandi fette della cittadinanza, inducendola a credere che le questioni scientifiche non fossero risolte, e foraggiando l’espandersi della relativa infodemia. L’utilizzo della posizione epistemologica per distruggere l’autorità della risposta scientifica rispetto a un problema che riguardava l’intera società ha minato anche la reputazione degli scienziati al di sopra delle parti, mostrandoli come schierati, militanti, in difesa di posizioni personali se non addirittura di lobby di potere e affiliati a grandi gruppi economici. Il principio di autorità sommato al ribaltamento dell’epistemologia ordinaria ha sgretolato la credibilità della comunità scientifica mostrandola come la giustapposizione di singole unità indipendenti, rendendo di fatto lo scienziato isolato e spogliandolo dalla protezione che offre solo la compattezza di appartenere a una comunità solida con un metodo in grado di essere esso stesso l’antidoto agli errori che inevitabilmente il percorso di ricerca incontra. La scienza e le sue conseguenze nascono collettivamente all’interno della comunità scientifica che le convalida, fino a prova contraria. Il singolo scienziato non necessariamente ha il quadro corretto e completo dello stato dell’arte di una data situazione, ed è estremamente probabile che nessuno
{p. 98}scienziato sia concorde con la comunità scientifica su ogni possibile argomento. La migliore approssimazione che si ha su un tema scientifico è proprio quello su cui in media la comunità concorda. Questa frammentazione ha, tra l’altro, lasciato spazio alle possibili vanità, emozioni e tentazioni di protagonismo che i meccanismi dei social media e dell’attuale struttura dei talk show generalisti inevitabilmente innescano.
Note
[8] A titolo di esempio, oltre a pareri più o meno autorevoli, voci in disaccordo, negazionisti di varia natura, si ricorda la «viralità» di casi come quello del «Non ce n’è Coviddi», e di come la stampa e i media hanno amplificato la loro portata facendo dibattere «Angela da Mondello» con esperti e decisori.