Massimo Roccella
I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c3
Lo strumento tuttora non disponibile per una equilibrata azione di governo centralizzato delle dinamiche retributive può individuarsi nella perdurante assenza nel nostro sistema di una misura salariale minima imposta dalla legge. Riprendendo, in estrema sintesi, il senso delle osservazioni svolte in precedenza (retro, cap. I, parag. 7), va ricordato come l’introduzione nell’ordinamento di modalità di fissazione del salario minimo si raccomandi non soltanto di per sé, per evidenti ragioni di equità sociale, ma anche in funzione delle esigenze poste dall’attuazione di una politica dei redditi. Le tendenze emerse negli anni più recenti in diversi contesti di relazioni industriali sembrano confermare l’indicazione. Con l’eccezione dei paesi dove l’obbiettivo del riequilibrio economico è stato coltivato anche con finalità dichiaratamente antisindacali [351]
, politiche dei redditi o anche, più semplicemente, politiche di contenimento dei salari reali sono state spesso perseguite, da governi di diversa ispirazione politica, ricercando il consenso o, quanto meno, la non opposizione delle organizzazioni sindacali, attraverso l’offerta di misure di salvaguardia del potere d’acquisto dei redditi più bassi. L’entità della protezione accordata non è stata uniforme, traducendosi talvolta in incrementi reali del salario minimo (come in Francia), talaltra, più blandamente, nell’esclusione dalla politica di rigore economico dei lavoratori collocati al gradino più basso della gerarchia retributiva [352]
: il carattere compensativo della manovra pubblica sui minimi salariali, ad ogni modo, è risultato ovunque evidente.
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L’introduzione nell’ordinamento italiano di una normativa sui minimi salariali, oltre ad essere — come si è visto — una doverosa misura di attuazione dell’art. 36 Cost., potrebbe utilmente servire a rimettere la politica dei redditi, ma, più in generale, la politica salariale e la questione della riforma del salario, con i piedi per terra. Allo stato del dibattito, delle proposte (e delle soluzioni) correnti, si deve prendere atto, peraltro, che nulla lascia presagire che questa strada voglia essere seriamente imboccata, né da parte sindacale, né da parte pubblica. Si diceva, all’inizio, del sostanziale disinteresse da cui è sempre stata circondata, da noi, la prospettiva di una sanzione legislativa della dimensione minima del salario. L’affermazione, complessivamente, va ribadita, malgrado qualche proposta in argomento non sia mancata in tempi recenti, indotta, però, visibilmente da nessuna delle finalizzazioni proprie di una normativa sui minimi, bensì da un’esigenza contingente. Non può sottacersi, infatti, come la discussione in proposito difficilmente avrebbe assunto risvolti operativi, restando confinata, come già era accaduto in passato, ad una ristretta cerchia intellettuale, se un evento esterno non fosse giunto a sottolineare l’opportunità di affrontare la questione. Ci si riferisce, com’è ovvio, alla richiesta di referendum popolare per l’abrogazione della legge che aveva imposto la predeterminazione dei punti di contingenza, e alla conseguente, affannosa ricerca di strumentazioni tecniche atte ad evitarne lo svolgimento.
È stato in quel contesto, infatti, che da parte di un’organizzazione sindacale, la CISL, la quale già aveva manifestato un orientamento di massima nel corso dei lavori dell’assemblea dei quadri del maggio ’84 [353]
, si è prospettato l’introduzione di un salario minimo interprofessionale da contrattare a livello confederale, collegato automaticamente all’andamento del costo della vita e assumibile come punto di riferimento per determinare l’entità di una serie di prestazioni sociali (dalla cassa integrazione alle pensioni, ai sussidi di disoccupazione). Precisandosi che la proposta, con la limitazione in essa implicita del meccanismo di indicizzazione alla sola quota salariale minima, avrebbe comportato una radicale modifica del sistema di scala mobile e, conseguentemen{p. 328}te, fatto venire meno le ragioni del referendum [354]
.
Tale proposta — come pure altre, anche di fonte confindustriale, più o meno assimilabili [355]
— è rimasta senza esito. E forse è bene che le cose siano andate in questo modo, giacché, date le circostanze in cui essa è stata formulata, non ci si può sottrarre all’impressione che l’invocata sanzione legislativa del salario minimo fosse meramente strumentale all’obbiettivo di evitare il ricorso alle urne, anziché all’introduzione di una consapevole e meditata riforma nell’ordinamento del lavoro. Nulla esclude, naturalmente, che una buona riforma possa nascere anche sotto lo stimolo di pressioni contingenti ed imprevedibili. Non sembra, però, che nel caso di specie si sarebbe data questa fortunata eventualità. Scavando fra le pieghe del progetto, infatti, emerge un elemento di ambiguità non risolta, che avrebbe potuto imprimere un’inclinazione decisamente discutibile, se non proprio controproducente, all’auspicato intervento del legislatore. Quando si afferma, in{p. 329}fatti, di esprimere un orientamento favorevole «a ridefinire il ruolo della scala mobile con gli inevitabili esiti legislativi, come strumento capace di assicurare una copertura del 100%» al salario minimo, con la conseguenza «che ogni dinamica salariale superiore al minimo può essere definita solo contrattualmente» [356]
, resta (forse volutamente) non chiarito se il senso della richiesta sia quello di introdurre «un sistema di indicizzazione del salario minimo e solo per i lavoratori a salario mimino» [357]
o, piuttosto, un meccanismo generalizzato di indicizzazione, valido per tutti i lavoratori, ma limitato alla reintegrazione del valore reale soltanto di una quota (minima) di retribuzione.
Se quest’ultimo, come pare probabile, è il significato da attribuire all’indicazione, occorre subito rilevare che essa, se accolta, avrebbe rischiato di spingere verso una direzione sbagliata, che resterebbe tale ancorché, in contrario, si possa legittimamente avanzare il dubbio che «non avrebbe senso indicizzare totalmente solo il salario dello strato marginale, con il rischio di vederlo sorpassare quello dei “garantiti”» [358]
.
Sul piano dei rapporti tra legge ed autonomia collettiva quell’indicazione resta sbagliata, perché avrebbe implicato una consacrazione legale di un meccanismo di scala mobile quale strumento (sia pure parziale) di adeguamento di tutte le retribuzioni all’andamento del costo della vita: delegando, in tal modo, ad una disciplina eteronoma scelte che è bene mantenere sempre nella piena disponibilità delle parti sociali, pena un inaccettabile irrigidimento della politica salariale.{p. 330}
Da altro punto di vista, è da dubitare che con quella proposta si sarebbe potuto perseguire davvero l’intento dichiarato di «ridefinire il ruolo della scala mobile» nel sistema salariale. A ben guardare, essa si sarebbe tradotta, verosimilmente, nel passaggio da una forma di indicizzazione a punto fisso eguale per tutti ad un sistema a percentuale, con probabile abbassamento del grado preesistente di copertura dalla svalutazione monetaria, e, comunque, con misure di adeguamento delle singole retribuzioni al costo della vita differenziate e via via decrescenti al crescere dei livelli retributivi: il che è esattamente quanto si è sempre verificato anche per effetto dell’operare dell’accordo sulla contingenza del 25 gennaio 1975.
Stando così le cose, l’ipotesi prospettata si sarebbe potuta discutere solo sul piano quantitativo (della quota retributiva integralmente protetta). Su quello qualitativo, viceversa, si deve constatare che essa avrebbe lasciato inalterati i tratti essenziali del nostro sistema salariale e, in particolare, la sua caratteristica di fondo di ruotare attorno ad un meccanismo automatico generalizzato di adeguamento delle retribuzioni.
La proposta di una legislazione sui minimi salariali, applicabile solo ai lavoratori a salario minimo, si muove, all’evidenza, in tutt’altro ordine di idee. Per un verso, infatti, essa non farebbe altro che portare alle estreme conseguenze tendenze già sviluppatesi — sia pure in modo non del tutto consapevole [359]
— nel nostro sistema di relazioni industriali. Sanzionerebbe, in altre parole, «quello che è divenuto, nel tempo..., il ruolo (imprevisto dai suoi stessi primi negoziatori) dell’indennità di contingenza: vale a dire... la garanzia d’un salario minimo intercategoriale» [360]
. Per altro verso, se accompagnata da una contestuale rinuncia alla scala mobile come strumento generale di adeguamento delle retribuzioni, potrebbe ben essere riguardata come una coerente proiezione della scelta sindacale in favore di una politica dei redditi. Per {p. 331}«consentire un’adeguata flessibilità» [361]
nella gestione di quest’ultima, infatti, limitare l’indicizzazione al solo salario minimo può essere sufficiente. La scala mobile, così come è stata tradizionalmente intesa ed applicata nel nostro ordinamento, sembra, invece, uno strumento «in più», un elemento (forse) non necessario.
Nell’economia di questo lavoro sarebbe esorbitante discutere la validità e l’opportunità del ripensamento dei sindacati italiani, rispetto alle convinzioni prevalenti negli anni ’60 [362]
, nei confronti delle politiche dei redditi: anche se non è difficile intuirne le ragioni nel tentativo di perseguire l’obiettivo del rientro dall’inflazione con il minor costo sociale possibile [363]
. Quel ripensamento può essere assunto come un dato, rispetto al quale valutare la coerenza, o almeno la congruenza logica delle scelte successive.
La tesi che si sta cercando di sostenere, in altre parole, non mira a dimostrare la sussistenza di un nesso di incompatibilità assoluta fra politiche dei redditi ed indicizzazione dei salari. L’incompatibilità probabilmente esiste, ma essa è di carattere logico o, per meglio dire, apprezzabile dal punto di vista della logica dell’azione sindacale.
Si è visto (retro, parag. 1) come a fronte di tassi d’inflazione particolarmente elevati, quali quelli ancora correnti nel nostro paese all’inizio dell’83, quando si diede avvio all’esperimento di politica dei redditi, difficilmente i sindacati si mostrino disponibili a rinunciare a forme, più o meno incisive, di indicizzazione delle retribuzioni. La medesima osservazione, specularmente rovesciata, sembra attagliarsi a una situazione, come l’attuale, in cui l’azione salariale del sindacato deve tener conto di tassi d’inflazione ancora alquanto elevati (soprattutto in rapporto ai livelli ri
{p. 332}scontrabili nelle altre economie industriali), ma comunque in fase calante. In condizioni del genere, se si è anche scelto di praticare una politica dei redditi, intesa nel senso che «a causa della congiuntura economica, non si può far altro che mantenere il salario reale», acquista particolare forza la constatazione che le clausole di indicizzazione comportano per i sindacati «lo svantaggio rilevante di rendere completamente superflua l’autonomia contrattuale» [364]
o, almeno, di comprometterne pesantemente le modalità di esplicazione.
Note
[351] Cfr. Carried e Perulli, op. loc. ult. cit., con riferimento agli USA e alla Gran Bretagna.
[352] In Belgio, ad esempio, la sospensione legale della scala mobile, decisa dal governo nel 1981, non ha toccato il salario minimo: cfr. Dal Co, I sistemi di indicizzazione dei salan, cit., p. 27; più in generale si v. il mio Minimum wage-fixing: an historical and comparative perspective, in «Comp. lab. law», 1984, p. 82 ss. Naturalmente non si ignora che il potere d’acquisto dei redditi più bassi possa essere difeso anche con altri strumenti (di carattere fiscale, previdenziale ecc.). Si vuol solo sostenere che anche la manovra diretta sui salari minimi può essere utilmente utilizzata nel quadro di una politica dei redditi.
[353] Si v. il documento conclusivo della IIa commissione, Struttura della contrattazione e politica salariale, in «Supplemento a Conquiste del Lavoro», n. 21/22, 1984.
[354] Cfr. Colombo, Relazione al Comitato Esecutivo Cisl (Roma, 23 novembre 1984), in «Supplemento a Conquiste del Lavoro», n. 45, 1984; Merli Brandini, Relazione al Consiglio generale Cisl (Roma, 11-12 dicembre 1984), in «Supplemento a Conquiste del Lavoro», n. 47, 1984, il quale esplicita con maggiore chiarezza che la proposta, se accolta, avrebbe implicato «inevitabili esiti legislativi» (p. 5). Nello stesso senso si v. Treu, Singolari anomalie, in «Conquiste del Lavoro», n. 5, 1985, p. 3. Va ricordato, peraltro, che il favore nei confronti di una legislazione sui minimi è ripetutamente affiorato nel dibattito interno a questa confederazione: quanto alle posizioni più datate v. retro, cap. I, parag. 6; più recentemente cfr. Valcavi, Relazione, cit., p. 84.
[355] Da parte Cgil, ad esempio, venne prospettata la possibilità di definire un livello minimo retributivo indicizzato al 100%, accompagnandola però con la richiesta di una ulteriore parziale indicizzazione delle quote di salario contrattuale (minimi tabellari più contingenza) superiori al livello minimo: si v. Proposta su struttura del salario, irpef e scala mobile in «Rass. sind.», n. 5, 1985, p. 38 s. Il progetto riprendeva, nella sostanza, un’ipotesi già avanzata all’indomani del decreto-legge n. 10/1984, meglio nota come «proposta Garavini», nella quale, però, l’indicizzazione non si limitava ai minimi contrattuali ma puntava a coinvolgere l’intera retribuzione globale di fatto: per un’analitica illustrazione della proposta si v. Di Gioia, Ipotesi di riforma strutturale della scala mobile, in «Pol. ed Econ.», 1984, n. 4, p. 9 ss. Anche la Confindustria, dal canto suo, si pronunciò, nel contesto di una proposta di globale revisione del meccanismo di indicizzazione, per l’individuazione di una quota di retribuzione integralmente protetta dall’inflazione: si v. La proposta sul costo del lavoro e sull’occupazione, in «Rass. sind.», n. 38, 1984, p. 42. Ma già un progetto simile era stato ipotizzato dagli industriali subito dopo la disdetta della scala mobile del giugno 1982: v. retro, cap. I, parag. 7.
[356] Merli Brandini, Relazione, cit., p. 5
[357] Dal Co, I problemi della politica contrattuale oggi, in «Ires Materiali», supplemento al n. 2/1984, p. 65; in termini analoghi si veda dello stesso a. Ripensando il modello contrattuale, in «Pol. ed Econ.», 1985, n. 7-8, p. 5 che rivede, in tal modo, radicalmente una posizione precedentemente espressa (cfr. La politica salariale tra vecchi strumenti e nuovi obiettivi, in «Econ. e lav.», 1981, 2, p. 109 ss.). Occorre avvertire, comunque, che l’opinione di Dal Co, se testimonia di un dibattito che attraversa tutte le organizzazioni sindacali, resta largamente marginale all’interno della Cgil: in senso critico si v., per tutti, Di Gioia, La scala mobile, cit., p. 65 ss; Militello, Intervento al dibattito Riforma del salario, una discussione tra due proposte, in «Pol. ed Econ.», 1984, n. 5, p. 6.
[358] Giugni, Se aboliamo quella scala..., in «la Repubblica», 12 febbraio 1985. Dello stesso autore si v. però, in senso che sembra più affine all’ipotesi prospettata nel testo, Indicizzazione e politica salariale, in Aa.Vv., La riforma del salario, cit., p. 93 ss.
[359] Per il concorso, si ricorda ancora, di un tasso d’inflazione estremamente elevato negli anni successivi all’accordo sull’unificazione del punto di contingenza e della rinuncia a rivendicare una rivalutazione del valore di quest’ultimo.
[360] Ghezzi, Dinamiche sindacali e prospettive di riforme istituzionali, in «Pol. dir.», 1984, p. 346; ma già nello stesso senso cfr. Alleva, Il tramonto, cit., p. 429.
[361] Giugni, op. ult. cit., p. 94
[362] Pure se non va trascurato che già allora era ampiamente diffusa la consapevolezza che «la società industrializzata, con la sempre più stretta connessione fra gestione aziendale e politica economica, non consente l’esistenza di sindacati di tipo tradeunionistico, cioè chiusi nelle rivendicazioni immediate» giacché «la politica economica condiziona sempre più l’area rivendicativa e ne è a sua volta condizionata»: Foa, Il dissenso sulla programmazione, in La cultura della Cgil (Scritti e interventi 1950-1970), Torino, Einaudi, 1984, p. 180.
[363] Se è vero che il rientro dall’inflazione è stato attuato con maggior riguardo all’esigenza di preservare i livelli occupazionali nei paesi che praticano tradizionalmente politiche dei redditi: sul punto si v. Tarantelli, Le politiche di rientro dall’inflazione, cit., p. 174 ss.
[364] Le citazioni sono da Daubler, Diritto sindacale, cit., p. 141.