Massimo Roccella
I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c3
Gli ostacoli a riprendere, oggi, in considerazione la proposta della mutualizzazione sembrano, come si diceva, soprattutto di carattere politico. Si sarà intuito, infatti, come, al di là dell’obiettivo di apprestare una più solida giustificazione all’istituto degli scatti, il passaggio alla mutualizzazione consentirebbe, attraverso un’oculata gestione delle somme accantonate [341]
, di sperimentare anche forme diversificate di utilizzazione delle stesse, a fini socia
{p. 322}li, secondo un’ispirazione da tempo presente nel movimento sindacale, ma ancora priva di riscontri concreti.
La prospettiva, naturalmente, acquisterebbe ben diverso spessore, qualora si potesse coinvolgere nell’operazione anche i trattamenti di fine rapporto. Riguardo a questi, sarebbe sbagliato ritenere la legge n. 297/1982, anche per le circostanze — a tutti note — in cui essa è nata, come la migliore delle riforme possibili. In realtà, si tratta di un esito parziale, che dà risposta ad alcune esigenze contingenti, accoglie parte delle istanze presenti nel dibattito di allora, ma ne trascura altre di non minore rilievo.
Uno sforzo ulteriore s’impone, oggi non meno di ieri, in direzione di una parificazione intersettoriale fra lavoro pubblico e privato. Differenze fra l’uno e l’altro possono forse giustificarsi con riguardo all’istituto degli scatti e anche, più in generale, alla struttura della retribuzione corrente (v. infra, parag. 5.2); non si vede, però, quale fondamento attribuirvi in relazione alle liquidazioni. L’omogeneizzazione dei trattamenti, peraltro, pure significativa di per sé, potrebbe essere concepita come un primo passo, una sorta di pre-condizione, in vista di possibili, più ampie e diversificate, finalizzazioni degli importi relativi ai trattamenti di fine rapporto.
Il legislatore, ribadendo il diritto a percepire una liquidazione «in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato» (art. 2120 cod. civ., nuovo testo), si può dire che abbia offerto una sostanziale consacrazione, a livello normativo, alla tesi, prima ricordata, che ha cercato di ricostruire il fondamento dell’indennità di anzianità, e la ragione della sua indefettibilità, in considerazione dell’opportunità di precostituire a favore di ogni lavoratore una riserva finanziaria per il soddisfacimento di bisogni anche non essenziali [342]
. Non ha accolto, viceversa, implicazioni più radicali, che pure, sul piano meramente logico, si potrebbero far discendere da quella tesi. È rimasta disattesa, in particolare, la rivendicazione di controllo collettivo sui fondi di anzianità, a lungo dibattuta nel movimento sindacale [343]
e, poi, esplicitamente colle{p. 323}gata alla prospettiva del «Fondo di solidarietà» [344]
.
La richiesta di trasformazione dell’indennità di anzianità in erogazione mutualizzata e di gestione sindacale dei relativi fondi accantonati è stata resa impraticabile dalle ovvie resistenze delle imprese, assolutamente ostili ad accettare una riforma sicuramente assai onerosa. Non v’è dubbio, infatti, che la mutualizzazione dei fondi di anzianità comporterebbe un’essenziale modifica nella concezione degli stessi, da mera partita contabile [345]
ad accantonamenti «reali», privando, oltre tutto, gli imprenditori della disponibilità delle somme relative e, quindi, di una preziosa fonte di autofinanziamento.
Soluzioni intermedie, di equilibrio fra le contrapposte esigenze delle parti sociali, non sarebbero, peraltro, impossibili da trovare. Si potrebbe, cioè, ipotizzare, anche sulla scorta di esperienze straniere [346]
, una parziale mutualizzazione dei trattamenti di fine rapporto, con versamento al Fondo di gestione di una parte degli accantonamenti e mantenimento della quota restante nella disponibilità delle imprese. Forme di erogazione mutualizzata, attraverso le Casse Edili, dell’indennità di anzianità (e ora del trattamento di fine rapporto) sono, del resto, da tempo previste, come astratta possibilità, dal contratto nazionale di lavoro per gli operai edili e concretamente sperimentate, con apprezzabili risultati, in qualche realtà locale [347]
: a dimostrazione che la riforma, per quanto onerosa, non sarebbe insostenibile dalle imprese, soprat{p. 324}tutto se attuata con la necessaria gradualità e ponderazione degli interessi in gioco.
Anche la soluzione indicata con riguardo ai trattamenti di fine rapporto può, com’è ovvio, essere ampiamente discussa nei suoi risvolti tecnici. Quel che però, in questa sede, interessava porre in rilievo è la possibilità, che attraverso di essa si potrebbe dare, di rivitalizzare una prospettiva, quella del «Fondo di solidarietà», che stenta a prendere corpo, nonostante gli impegni di massima assunti in proposito fra governo e parti sociali sin dalla stipula dell’accordo del gennaio ’83.
Se il Fondo, a più di tre anni di distanza, continua a riposare nel limbo delle buone intenzioni, non sembra che ciò possa essere unicamente ascritto ad inadempienze del legislatore in ordine alla mancata predisposizione della necessaria cornice normativa. È anche possibile pensare che il varo di quest’ultima sia ritardato, perché non sollecitato da pressioni univoche e ultimative delle organizzazioni sindacali. Non è un mistero, infatti, che la configurazione del Fondo, quale attualmente ipotizzata (come struttura alimentata da contributi dello 0,50% prelevati dalle retribuzioni correnti), abbia sempre suscitato gradi di adesione alquanto differenziati all’interno dei sindacati. Fra i lavoratori, poi, è più che probabile che il consenso rispetto a quest’ipotesi di prelievo sui salari sia decisamente basso.
Nella situazione presente l’idea di una partecipazione sindacale al processo di accumulazione, in funzione di stimolo ad iniziative atte a creare nuova occupazione, non può semplicisticamente liquidarsi come una bizzarria. Forme varie di scambio fra salario e occupazione, d’altro canto, risultano, attualmente, praticate, o almeno discusse, in diversi paesi [348]
. A fronte di una tendenza, ormai pluriennale, al contenimento delle retribuzioni, non v’è dubbio, peraltro, che quell’idea potrebbe acquisire maggiore credibilità e plausibilità politica, se si potesse evitare ai lavoratori la sensazione di trovarsi di fronte ad una, sia pur marginale, decurtazione salariale.
È bene chiarire, a questo punto, che, anche se realizzata in conformità ai criteri indicati, la prospettiva del Fondo resterebbe comunque ben al di qua di più incisivi progetti di socializzazione del capitale delle imprese elaborati in altri contesti di relazioni in{p. 325}dustriali [349]
. A proposito del «Fondo di solidarietà», infatti, non potrebbe non rilevarsi, come è stato fatto per i contratti di solidarietà, ch’esso si risolverebbe sempre «da un punto di vista tecnico, in una redistribuzione di ricchezza che — malgrado le suggestioni che lo stesso nome di solidarietà può evocare — riguarda, allo stato delle cose, solo i lavoratori» [350]
.
Le modalità tecniche, però, in questo caso non appaiono indifferenti o facilmente fungibili: da esse dipende la valenza politica della prospettiva. L’innegabile caduta di tensione progettuale del movimento sindacale su questi temi non può, dunque, mancare di suscitare sorpresa. Ma forse, come si dirà subito, anche per questo si può trovare un principio di spiegazione.

5.2. Salario minimo legale ed indicizzazione

Non sembra di offrire una rappresentazione forzata delle vicende sindacali degli ultimi anni se si afferma che l’abbandono delle prospettive più radicali di trasformazione della struttura del salario o anche la scarsa convinzione con cui si sono sostenuti progetti più moderati, ma comunque innovativi, siano dipesi, in non piccola parte, dal lungo, travagliato, estenuante dibattito in cui sono rimaste impigliate le organizzazioni dei lavoratori a proposito della questione dell’indicizzazione delle retribuzioni. La riforma della scala mobile, invero, ha finito col polarizzare in maniera pressoché esclusiva le preoccupazioni delle parti sociali, inducendo, oltre tutto, non lievi lacerazioni fra gli stessi sindacati; la questione della sua modifica è stata tout court progressivamente identificata, più o meno dichiaratamente, col problema della riforma del salario.
Non v’è dubbio, ad ogni modo, che la medesima problematica abbia assunto una coloritura diversa, o almeno avrebbe dovuto assumerla, da quando le organizzazioni sindacali, per le ragioni che si sono prima analizzate, hanno accettato, pur con oscillazioni a tutti note, di orientare la propria azione contrattuale entro un quadro di politica (concordata) dei redditi.{p. 326}
Anticipando le conclusioni che poi si cercherà di motivare, va subito espressa la convinzione che a quella politica i sindacati si siano avviati senza disporre di tutti gli strumenti necessari: o, per meglio dire, con uno strumento (forse) in più e uno strumento (certamente) in meno.
Lo strumento tuttora non disponibile per una equilibrata azione di governo centralizzato delle dinamiche retributive può individuarsi nella perdurante assenza nel nostro sistema di una misura salariale minima imposta dalla legge. Riprendendo, in estrema sintesi, il senso delle osservazioni svolte in precedenza (retro, cap. I, parag. 7), va ricordato come l’introduzione nell’ordinamento di modalità di fissazione del salario minimo si raccomandi non soltanto di per sé, per evidenti ragioni di equità sociale, ma anche in funzione delle esigenze poste dall’attuazione di una politica dei redditi. Le tendenze emerse negli anni più recenti in diversi contesti di relazioni industriali sembrano confermare l’indicazione. Con l’eccezione dei paesi dove l’obbiettivo del riequilibrio economico è stato coltivato anche con finalità dichiaratamente antisindacali [351]
, politiche dei redditi o anche, più semplicemente, politiche di contenimento dei salari reali sono state spesso perseguite, da governi di diversa ispirazione politica, ricercando il consenso o, quanto meno, la non opposizione delle organizzazioni sindacali, attraverso l’offerta di misure di salvaguardia del potere d’acquisto dei redditi più bassi. L’entità della protezione accordata non è stata uniforme, traducendosi talvolta in incrementi reali del salario minimo (come in Francia), talaltra, più blandamente, nell’esclusione dalla politica di rigore economico dei lavoratori collocati al gradino più basso della gerarchia retributiva [352]
: il carattere compensativo della manovra pubblica sui minimi salariali, ad ogni modo, è risultato ovunque evidente.
{p. 327}
Note
[341] Non sembra inutile rammentare come nel settore edile la gestione dei fondi relativi all’Anzianità Professionale abbia permesso di accumulare risorse tali da indurre all’introduzione di quella sorta di trattamento di fine rapporto integrativo della cui dubbia legittimità si è già discusso (v. retro, parag. 2).
[342] Cfr. retro, testo e note 322, 324, 325.
[343] Cfr. Smuraglia, Riflessioni, cit., p. 322 ss.; Alleva, Automatismi, cit., p.138.
[344] Cfr. Ghera, Prospettive di riforma, cit., p. 534 s. Sulle problematiche connesse all’attuazione del «Fondo di solidarietà» cfr., per tutti, Di Filippo, Il fondo di solidarietà, in Aa.Vv., Il patto contro l’inflazione, cit., p. 59 ss.
[345] Come pare che essi debbano essere intesi, anche dopo l’approvazione della legge n. 297/1982: sul punto cfr. Giugni, De Luca Tamajo e Ferraro, op. cit., p. 281.
[346] In Inghilterra l’erogazione dell’indennità di licenziamento è effettuata in forma parzialmente mutualizzata: l’imprenditore provvede direttamente al versamento dell’indennità, ma viene parzialmente rimborsato dal «Fondo di indennizzo per la manodopera in eccesso», alimentato da contributi a carico delle imprese, che perdono, in tal modo, la disponibilità delle somme relative. In Svezia, invece, l’intero ammontare dell’indennità è corrisposto a cura di un Fondo nazionale, finanziato con versamenti delle imprese, che risultano così integralmente private della possibilità di utilizzare gli importi a fini di autofinanziamento.
[347] Si v. il contratto integrativo 11 novembre 1971 per la provincia di Bergamo; l’accordo collettivo regionale integrativo 18 luglio 1978 per la Valle d’Aosta e il contratto integrativo, di poco precedente, per la provincia di Torino.
[348] In tema cfr, in generale, Carried e Perulli, op. cit., p. 148 s.
[349] Ovvio il riferimento al progetto svedese di costituzione di «fondi dei salariati», su cui d’obbligo è il rinvio a Meidner, Capitale senza padrone, Roma, Edizioni Lavoro, 1980. Si v. anche Korpi, Il compromesso svedese, Bari, De Donato, 1982, p. 287 ss.; nonché le osservazioni di Bordogna e Provasi, op. cit., p. 36 s., 55.
[350] Ghezzi, La legislazione del lavoro, cit., p. 110 s.
[351] Cfr. Carried e Perulli, op. loc. ult. cit., con riferimento agli USA e alla Gran Bretagna.
[352] In Belgio, ad esempio, la sospensione legale della scala mobile, decisa dal governo nel 1981, non ha toccato il salario minimo: cfr. Dal Co, I sistemi di indicizzazione dei salan, cit., p. 27; più in generale si v. il mio Minimum wage-fixing: an historical and comparative perspective, in «Comp. lab. law», 1984, p. 82 ss. Naturalmente non si ignora che il potere d’acquisto dei redditi più bassi possa essere difeso anche con altri strumenti (di carattere fiscale, previdenziale ecc.). Si vuol solo sostenere che anche la manovra diretta sui salari minimi può essere utilmente utilizzata nel quadro di una politica dei redditi.