Massimo Roccella
I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c3
D’altro canto, merita ancora di essere sottolineato come l’orientamento generale, favorevole a quell’obbiettivo, rintracciabile con sufficiente sicurezza nel complesso della giurisprudenza di Cassazione degli ultimi anni, non sia esente da contraddizioni anche vistose. Era stata sostenuta, in particolare, l’ipotesi [236]
che i giudici del Supremo Collegio intendessero favorire i progetti di ristrutturazione retributiva, in discussione nel movimento sindacale e fra le parti sociali, anche attraverso l’allentamento delle rigidità riscontrabili in materia salariale nei decreti Vigorelli. Argomentandosi l’affermazione vuoi sulla base di quell’indirizzo che, più radicalmente, ha negato carattere di norma di legge alle disposizioni contenute nei decreti [237]
, vuoi sulla base di altra opinione,
{p. 287}in cui la medesima finalità è coltivata ricorrendo all’espediente del raffronto complessivo fra la normativa recepita in decreto e quella dettata dal contratto collettivo successivo, in ipotesi (parzialmente) peggiorativa [238]
.
Al riguardo, si deve osservare come entrambi gli orientamenti non abbiano trovato sviluppi conseguenti. Sia il primo, più drastico, peraltro difficilmente sostenibile a fronte della convinzione, largamente consolidata [239]
, circa la natura legislativa delle norme dei decreti; sia il secondo, che pure avrebbe potuto prestarsi ad applicazioni non troppo difficili da ipotizzare nella materia del trattamento economico e che, invece, proprio riguardo ad essa è stato lasciato cadere.
L’affermazione di Cass., n. 2516/1977, secondo cui «nell’attuale realtà economico-sociale, i contratti collettivi che vengono di volta in volta successivamente stipulati sono, nel complesso delle loro rispettive disposizioni, progressivamente più favorevoli per i lavoratori», è stata criticata, ritenendosi che, in forza di essa, la scelta della disciplina applicabile sia stata effettuata mediante l’utilizzo della teoria c.d. del «conglobamento»: assunta, oltre tutto, nella sua versione estrema, attraverso il ricorso a un criterio, quello del confronto globale fra regolamentazione collettiva e normativa recepita in decreto, sicuramente inapplicabile alla risoluzione dei conflitti fra legge e contratto [240]
. Nonostante la frase {p. 288}riportata avrebbe potuto, logicamente, prestarsi alla conclusione indicata, va tuttavia rilevato che la soluzione al caso concreto è stata data dalla Corte in applicazione della versione temperata della teoria del «conglobamento»: sulla base, cioè, di una comparazione fra singoli istituti, che ha portato a ritenere la legittimità della disciplina dell’indennità di trasferta dettata da un contratto collettivo, perché parte integrante del trattamento economico, concepito come istituto unitario, la cui regolamentazione è stata giudicata nel suo insieme più favorevole rispetto a quella dettata dal decreto di riferimento [241]
.
Quantunque anche in tale moderata versione la correttezza del richiamo alla teoria del conglobamento, per risolvere i contrasti fra norma inderogabile di legge e norma collettiva, sia stata largamente contestata in generale [242]
, un’opinione diversa avrebbe potuto, senza eccessive forzature, essere sostenuta con riguardo alle specifiche ipotesi di conflitto fra normativa collettiva recepita in decreto e disciplina contrattuale successiva. A fronte di una norma alquanto indeterminata, quale quella contenuta nell’art. 7; co. 3°, della legge 14 luglio 1959, n. 741, si sarebbe potuto continuare a sostenere, in altre parole, almeno nella materia del trattamento retributivo [243]
, una considerazione di quest’ultimo come istitu{p. 289}to unitario, al fine di superare eventuali vincoli, discendenti dalle discipline dettate dai decreti, in ordine a singoli momenti di esso.
Si è già visto (retro, cap. II, parag. 8), al contrario, come la Corte — e in ciò è evidente la contraddizione rispetto ad orientamenti più generali — abbia rinunciato a sviluppare tale linea di pensiero, di cui pure non sarebbe impossibile argomentare la conformità, oltre che alla lettera, soprattutto alla ratio della legge n. 741/1959. Persino la più recente, restrittiva, giurisprudenza in tema di onnicomprensività della retribuzione, con riferimento ai criteri di calcolo della tredicesima mensilità non ha saputo prescindere dal richiamo rigido alla nozione contenuta in una disciplina collettiva recepita in decreto, intendendo, dunque, lo specifico emolumento come istituto dotato di distinta fisionomia; allorché una soluzione diversa, con conseguente salvaguardia della regolamentazione contrattuale successiva (peggiorativa sullo specifico punto), avrebbe potuto agevolmente essere affermata non soltanto accertando se quest’ultima avesse introdotto mensilità ulteriori oltre la tredicesima, ma anche operando la comparazione, appunto, rispetto all’insieme del trattamento economico.
Cosicché, in contrasto con l’opinione dottrinale da cui si sono prese le mosse, sembra inevitabile concludere che la deindicizzazione degli scatti di anzianità disposta in sede collettiva a partire dai rinnovi del ’79 possa essere stata stimolata anche dall’orientamento giurisprudenziale, c.d. «massimizzante», formatosi attorno all’art. 2 del decreto-legge n. 12/1977 [244]
; non certamente da quello relativo ai vincoli legislativi discendenti dai decreti Vigorelli [245]
. A ben guardare, anzi, c’è da chiedersi quale potrebbe essere la reazione giurisprudenziale qualora la legittimità delle più recenti regolamentazioni pattizie in tema di scatti di anzianità venisse contestata in sede giudiziaria, adducendosi l’esistenza di una (illegittima) deroga peggiorativa rispetto alle discipline degli aumenti periodici rintracciabili nei decreti [246]
.
Più coerente riguardo alle esigenze di attenuazione di vincoli e rigidità nella gestione delle imprese deve essere invece ritenuto {p. 290}l’indirizzo, che sembra infine prevalso in giurisprudenza, favorevole a risolvere il contrasto fra le discipline dettate da contratti collettivi di diverso livello, dando comunque la prevalenza a quella più recente, anche se peggiorativa, con conseguente affermazione di derogabilità fra livelli contrattuali reciproca e completa [247]
.
L’opinione, ad ogni modo, può ritenersi provvista di riflessi concreti sulla problematica del costo del lavoro soltanto assumendo quest’ultima in un’accezione generalissima. È evidente, infatti, che una modifica peggiorativa disposta, ad esempio, da un contratto collettivo aziendale in relazione a un tratto di disciplina del rapporto (poniamo, stabilendo una durata delle ferie inferiore a quella prevista dal contratto di categoria) è sicuramente suscettibile di comportare una diminuzione dei costi (o, comunque, un aumento di produttività) dell’impresa interessata.
Con riferimento, invece, alla materia del trattamento retributivo, inteso in senso stretto, le implicazioni dovrebbero esserne più circoscritte. Discipline peggiorative della retribuzione concordate, tout court, a livello aziendale, appaiono, in effetti, fortemente improbabili. Qualora, al contrario, una riduzione della retribuzione (peraltro con contestuale riduzione dell’orario di lavoro) venisse convenuta in sede aziendale ai sensi dell’art. 2 del decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726 (convertito in legge 19 dicembre 1984, n. 863), nessun contrasto potrebbe ravvisarsi fra la disciplina collettiva del «contratto di solidarietà» e quella della retribuzione dettata dal contratto di livello superiore, trattandosi, nella specie, della puntuale applicazione di una norma di legge.
Con riguardo, poi, all’eventualità che in sede aziendale venga concordata l’introduzione di un’indennità accessoria, escluden{p. 291}done, al tempo stesso, ogni ripercussione sulla base di calcolo delle competenze indirette, in contrasto con la nozione di retribuzione (in ipotesi) «onnicomprensiva» accolta dal contratto di categoria, si è già detto (retro, cap. II, parag. 10) come neppure in questo caso possa parlarsi di un conflitto fra regolamentazioni collettive di diverso livello in senso proprio, dovendosi, piuttosto, di volta in volta verificare il rispetto, da parte della disciplina aziendale, della normativa legale applicabile alla fattispecie [248]
.
Non si può non rilevare, infine, come proprio il prevalere del segnalato indirizzo giurisprudenziale abbia finito col relegare in secondo piano quell’altro orientamento che, abbandonato il tradizionale riferimento all’art. 2077 cod. civ. quale principio ordinatore (anche) dei rapporti fra contratti collettivi di diverso livello, aveva prospettato comunque una sottordinazione del contratto aziendale a quello nazionale, mediante una ricostruzione del sistema sindacale ispirata al criterio della gerarchia discendente [249]
. Tale orientamento era stato ritenuto, se coerentemente sviluppato, potenzialmente in grado di offrire «un solido supporto per giuridicizzare il processo di ricostruzione centralizzata del sistema sindacale e contrattuale» [250]
. Processo che, in effetti, è continuato negli anni successivi, seguendo però percorsi (e con l’ausilio di strumenti) diversi da quelli ipotizzati: senza che, in proposito, possa riconoscersi un contributo di particolare rilievo della giurisprudenza ordinaria.

4. Le politiche dei redditi

Nel sistema italiano di relazioni industriali la centralizzazione delle dinamiche rivendicative, quanto meno con riguardo all’entità dei trattamenti retributivi, conosce una storia ormai decennale.
{p. 292}
Note
[236] Da Tosi, La retribuzione nel diritto del lavoro dell’emergenza, cit., p. 523 ss.; nello stesso senso si v. anche Mengoni, Legge e autonomia collettiva, cit., p. 695 s.
[237] Il riferimento è a Cass., 30 marzo 1978, n. 1477, in «Orient. giur. lav.», 1978, p. 825, la quale, in motivazione, nega appunto che «l’estensione erga omnes abbia mutato il contenuto precettivo dei contratti» (p. 831). Nello stesso senso si v. già Trib. Milano, 10 gennaio 1978, ivi, p. 108, che, ancora più recisamente, afferma la convinzione secondo la quale «la legge n. 741/1959 si limita a conferire ai contratti collettivi preesistenti efficacia soggettiva generale, senza incidere sull’intrinseca natura obbiettiva della fonte che, restando quella contrattuale, può essere modificata dalla sopravvenienza di nuove manifestazioni di autonomia collettiva vincolanti per le parti»: donde la conseguente conclusione che «sarebbe un pericoloso equivoco attribuire alle... transitorie clausole erga omnes la portata di un sistema assolutamente inderogabile, con un irrigidimento indotto alla contrattazione e quindi, in ultima analisi, sull’autonomia collettiva (p. III).
[238] In questo senso si v. Cass., 16 giugno 1977, n. 2516, in «Mass. giur. lav.», 1978, p. 12, con nota di Pera, Leggi delegate a tutela dei lavoratori ed antonimia sindacale, ivi, p. 457 ss.
[239] Anche se affermata, in dottrina, con argomenti non privi di sfumature e accentuazioni diversificate. Per una panoramica delle opinioni in proposito si può utilmente consultare Curzio, I contratti collettivi recepiti nei decreti delegati, in Bortone e Curzio, Il contratto collettivo, Torino, UTET, 1984, p. 24 ss., 40 ss. La tesi giurisprudenziale in esame è giudicata senz’altro «insostenibile» da Mengoni, op. ult. cit., p. 695.
[240] Cfr. sul punto Tosi, op. ult. cit., p. 524 ed anche Bortone, Il contratto collettivo esteso «erga omnes» exl. n. 741/1959, in Bortone e Curzio, op. cit., p. 242.
[241] A parere della Corte, infatti, rispetto alla fattispecie sottoposta al suo esame era sufficiente limitarsi a constatare che «la nuova normativa collettiva di diritto comune era nel suo complesso certamente più favorevole alla precedente quanto meno per quanto concerneva la parte relativa al trattamento economico, talché la riproduzione nella stessa nuova normativa di clausole già contenute nei contratti erga omnes... non avrebbe potuto non essere considerata come funzionalmente collegata ai miglioramenti economici correlativamente adottati»: Cass. n. 2516/1977, cit., p. 15.
[242] In argomento si v., per tutti, De Luca Tamajo, La norma inderogabile nel diritto del lavoro, Napoli, jovene, 1976, p. 204; si v. però anche le valutazioni, di segno diverso, di Carinci, Commento sub. art. 55 (Disc, gen., Sez. terza), in Aa.Vv., Il contratto dei metalmeccanici, Bologna, Zanichelli, 1978, p. 132.
[243] Argomentandosi, sulla scorta di Cass. n. 2516/1977, in base al combinato disposto degli art. 1 e 7 co. 1° e 3°, dal quale si potrebbe far discendere una considerazione del trattamento economico come un tutto inscindibile. Per una posizione più rigida si v. comunque De Luca Tamajo, op. ult. cit., p. 213. Occorre avvertire, ad ogni modo, che, con riferimento ad altri tratti di disciplina del rapporto di lavoro, la Cassazione ha accolto una nozione ben delimitata di istituto (si v. la giurisprudenza citata in Bortone, op. cit., p. 243, nota 7), nonostante la contrattualistica offra sicuramente appigli per prospettarne un concetto assai più dilatato. Si veda, ad esempio, la clausola di inscindibilità dettata dall’art. 35 (Disc. gen., Sez. terza) del ccnl dei metalmeccanici privati 1° settembre 1983 (ma anche le considerazioni critiche di Carinci, op. cit., p. 133).
[244] In tal senso si v. Treu, Problemi giuridici, cit., p. 43.
[245] Secondo l’opinione prospettata da Tosi e Mengoni, cit. in nota 236.
[246] Soprattutto tenuto conto del più recente orientamento della Suprema Corte, secondo il quale, come si è visto, nessun vincolo in materia sarebbe stato posto dall’art. 2 del decreto-legge n. 12/1977.
[247] Cfr. Treu, Giurisprudenza della Corte di Cassazione e autonomia collettiva, in «Riv. giur. lav.», 1982, I, p. 450; Curzio, I rapporti tra contratti collettivi di diverso livello, in Bortone e Curzio, op. cit., p. 293 (anche per una rassegna delle opinioni della dottrina, che ha ampiamente indagato, negli ultimi anni, sui diversi e intricati aspetti della problematica). L’opinione della Cassazione si può accostare a quella già espressa da G. Santoro Passarelli, Derogabilità del contratto collettivo e livelli di contrattazione, in «Giornale dir. lav. e rel. ind.», 1980, p. 617 ss. Fra le più recenti rivisitazioni del tema si ricorda Tremolada, Concorso e conflitto tra regolamenti collettivi di lavoro, Padova, Cedam, 1984, spec. p. 137 ss.; Conti, Contratti collettivi di diverso livello, in «Lavoro ’80», 1984, p. 645 ss.; Mariucci, La contrattazione collettiva, cit., p. 161 ss.; Sciatta, Contratto collettivo e contrattazione in azienda, Milano, Franco Angeli, 1985, p. 159 ss.
[248] Per uno spunto in questo senso si v. Mariucci, op. ult. cit., p. 422. Questo, del resto, sembra essere stato l’orientamento espresso da Cass., 13 febbraio 1984, n. 1081, in «Foro it.», 1984, I. c. 677, con riferimento a un’indennità di disagio di turno introdotta in sede aziendale: anche se, come si è già detto (retro, cap. II), con implicazioni discutibili, essendosene fatta discendere la dichiarazione di nullità parziale della relativa clausola collettiva con riguardo alla (presunta) nozione legale di retribuzione ai fini della tredicesima e non del compenso feriale.
[249] Cass., 18 gennaio 1978, n. 233, in «Foro it.», 1978, I, c. 589.
[250] Tosi, op. ult. cit., p. 531.